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Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

30 Maggio 2023
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Nonostante tutto, l’innocenza e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.”

Elsa Morante

Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

Con l’escamotage molto sofisticato ed ironico del romanzone d’appendice o del feuilleton alla Dumas, Elsa Morante a poco più di 30 anni nel 1943 comincia a scrivere Menzogna e Sortilegio il cui titolo originario, tra i tanti scartati, doveva essere Storia di mia Nonna.

Con le stesse parole della scrittrice romana, il romanzo è un dramma piccolo borghese trasformato in una leggenda. Il libro intreccia una nevrotica saga meridionale che porta in superficie le ambizioni deluse di tre generazioni di donne. Questo grandioso romanzo della Morante è un’epopea familiare scaturito dalla memoria invasa dai vapori lunari ed erratici di Elisa doppio di Elsa, cioè il personaggio che racconta in prima persona la storia della sua famiglia in una duplice (ambigua?) funzione sia di medium stregonesco e di invasata che incarna le voci dei fantasmi del passato, tanto in quella di testimone oculare dei fatti e delle ambasce accaduti ai suoi genitori di cui si fa giocoliera e solitaria cronista. Menzogne e sortilegi della grande letteratura che attraverso la potenza di fuoco dell’immaginazione e la demiurgica verità della poesia, plasma il mondo, stana la realtà più e meglio della stessa verità della storia. Il Sud della Morante è un meridione immaginario eppure realissimo, barocco e contemporaneo a un tempo. Questo Sud immaginifico è una Sicilia eterna intrisa di magia nera, fosco intrigo di lutti, mistificazione, superstizioni, sessualità repressa, frustrazione religiosa, orgoglio malsano, distinzione di classe. Una Palermo fantastica ma più vera del vero, sospesa nel tempo, immortalata dallo sguardo sarcastico, amaro ed estatico di un Dostoevskij folletto a Palermo o di un Kafka meridionale tutto al femminile. 

Menzogna e Sortilegio è stato scritto in fasi avventurose della vita della scrittrice, durante i tragici anni della II Guerra Mondiale. Cesare Garboli, fraterno amico della Morante nella sua intensa introduzione al romanzo “cosí centrale nella storia letteraria del nostro secolo”, rivelando una commistione illuminante tra il polpettone rosa e il marchese De Sade, sottolinea:

“Mentre gli occhi di tutto il mondo si giravano verso il futuro e puntavano diritti sulla realtà, lo sguardo della Morante si distraeva dal presente, attirato e affascinato dalla profondità di uno scenario spettrale e lontano.”

Un altro grande critico Cesare Cases che reputava Menzogna e Sortilegio tra i maggiori capolavori della nostra letteratura, ragionando sul senso ultimo dell’arte in quanto espressione sia eversiva che consolatoria, quindi di adesione viscerale alla realtà pure se incoraggia la fuga dall’oppressione del mondo presente, scriveva in Patrie Lettere:

“L’arte è di per sé contemporaneamente eversiva e consolatoria: dice la verità sul mondo, ma trasponendo la verità nella parvenza lascia il mondo così com’è e riconcilia con ciò che ha giudicato.”

In questa polverosa rivendita di vini, lo sciagurato padre di Elisa, il Butterato, porta la bimba con sé. Un luogo esotico tipo fumeria d’oppio, dove il Butterato Francesco “nell’effimera animazione dei primi bicchieri” può narcotizzare i sensi e dare libero sfogo alle sue fantasie represse, millantando origini nobiliari e titoli universitari mai raggiunti che la figlioletta osservatrice implacabile testimonia nell’aspetto di “vantatore, menzognero e loquace, pontificante, espansivo fino alle lagrime”. Francesco è uno dei personaggi più dannati del romanzo, altre pagine notevoli sono quelle dell’arrivo di sua madre Alessandra in città, una contadina analfabeta di cui si vergogna amaramente, già quando lui era ancora uno studente iscritto all’università e si era messo in testa di redimere la malafemmina Rosaria.

La realtà si respinge con asprezza rinnegandola fino alla radice, nel suo grigiore prosaico, per amare solo gli spettri. È proprio questo il destino truce dei protagonisti del romanzo. Questa, a pensarci bene, è anche la parabola conclusiva di qualsiasi lettore e scrittore di romanzi. La voce più ricorrente nella ragnatela velenosa di Menzogna e Sortilegio è la parola ambascia. È una voce anomala e gelosa: “squillante e patetica, misericordiosa e animalesca non rara nel Mezzogiorno” come la stessa voce dell’ostessa moglie reclusa dell’oste Gesualdo.

Dall’enciclopedia Treccani: ambàscia s. f. [etimo incerto] – 1. Grave difficoltà di respiro, unita a senso di oppressione. 2. fig. Oppressione dell’animo, accoramento, angoscia.

Angoscia, oppressione, respiro affannato… predominano nelle descrizioni minuziose dello scantinato di Gesualdo, mescita dei vini oppiacei. Nella Quinta parte del romanzo intitolata Inverno, si descrive appunto Gesualdo, un oste malarico di “selvatica tristezza… e tetra indolenza”, e la sua rivendita di vini, una bottega fuorimano con gli avventori popolani “carrettieri soliti a passare per quelle parti, carbonai delle montagne, zingari accampati nei sobborghi”, uomini del popolo dall’ambiguo sorriso e le occhiate sfuggenti. Sono pagine di malinconica, straordinaria bellezza che emanano il marchio a fuoco della poesia più straziante mentre esprimono l’infelicità predestinata, la miseria inconsolabile, l’amarezza funesta, la muta rassegnazione della condizione umana.

Osserviamo e ascoltiamo questo micro-mondo perduto del Sud che è racchiuso a matrioska dentro tutti i Sud del macro-mondo, attraverso lo sguardo e l’udito ammaliati da scettico stupore infantile della testimone Elisa:

“E intratteneva l’uditorio su argomenti filosofici, e citava nomi e frasi di questo o quel sapiente, come fosse in mezzo a un pubblico di dottori. Non di rado, con grandiosità principesca, ordinava da bere per tutti a sue proprie spese: e coloro lo ringraziavano levando i bicchieri colmi all’altezza delle loro fronti e dicendo: – Avvocato, salute! – Lo chiamavano avvocato, sia per l’eloquenza da lui profusa, e sia perché, mi pare, lui medesimo s’era proclamato possessore di un tale titolo; allo stesso modo che s’era dichiarato, Dio sa con qual diritto, figlio di un gran signore; celebrando, nel fuoco dei suoi racconti, viaggi e conoscenze che pretendeva d’aver fatto in passato, e descrivendo paesi, costumi, istituzioni come fosse un cantastorie in una fiera.
Io lo ascoltavo con scettico stupore; ma, a volte, ero quasi convinta ch’egli non mentisse, tanto i suoi accenti suonavano persuasivi e veraci! (…)

Pareva che le sue menzogne, appena dette, e in virtú, appunto, della sua parola di ebbro, non fossero piú menzogne per lui, ma acquistassero tradizione e sostanza di verità. E che ognuno dei circostanti apparisse, ai suoi sguardi ispirati, seguace della sua medesima teatrale illusione. Egli presumeva, certo, in simili momenti, di dir cose ben piú grandi e importanti che delle semplici fanfaronate. Vi furon giorni che, non curando il presente, incominciò a vaticinare progressi, e conquiste, per cui l’uomo dei secoli futuri sarebbe libero e felice; ed ebbe, nel profetare, la medesima foga visionaria di quando raccontava menzogne sul proprio conto. Sembrava, cioè, non un profeta che crede nella sua repubblica avvenire, ma addirittura un messaggero che celebra la propria vivente patria: scancellandosi per lui, nell’artificio di quegli istanti, ogni intervallo fra le parole e le cose, fra il presente e il futuro. (…)

Che mio padre dicesse il vero o il falso, e ch’egli si vantasse figlio d’un gran signore o si lamentasse della sua misera fatica, era uguale per essi. Né davano altra risposta che quei proverbi, o sentenze sibilline, nel loro antiquato accento di nenia”.

Viene in mente Thomas Hardy e le rabbiose sfuriate anti-accademiche di Jude l’Oscuro nelle sue luride bettole d’Inghilterra affollate di umiliati e offesi.

“Dalla porticina sulla strada, alcuni gradini scendevano alla bottega, dove s’avvertiva un odore gelato e macero di cantina mescolato a un aroma d’aceto. Il pavimento di color lavagna era qua e là rotto e consunto, e dalle finestruole a inferriata pioveva una luce scarsa. Sulla destra c’era non piú che tre o quattro tavoli in tutto, circondati da semplici panche e sedie di paglia; mentre che la sinistra era ingombra di botti e damigiane, e vi si apriva sul fondo, dietro il banco, la porticina del retrobottega. Da questo, per una scaletta a chiocciola, si saliva all’abitazione di Gesualdo; e spesso si udivano scender dall’alto, per quella scaletta, come angelici squilli di tromba, i richiami della moglie di Gesualdo, la quale però non si mostrava mai nella cantina, essendo Gesualdo un marito assai geloso.”

E segue la memorabile descrizione del vino servito nella stamberga e dei suoi taciturni frequentatori dai volti semitici, riportata sempre da un’Elisa bimba onnisciente, annoiata in quel tugurio di avvinazzati. Elisa preferirebbe giocare con la gatta selvatica incinta di cui “nessuna qualità domestica raddolciva la sua primitiva natura” a cui l’oste avrebbe in seguito affogato i micetti rendendosi per sempre malefico e odioso allo sguardo innocente della bambina malamata il cui sogno più grande sarebbe stato proprio quello di ricevere in dono uno di quei gattini nuovi tutto per sé, il solo amico possibile in quel suo universo ostile.

“Il vino fornito da Gesualdo, di un genere assai comune nelle nostre parti, era denso, e appena bevuto lasciava sul vetro la sua traccia nero-purpurea, come fosse un sugo di more. Al gusto, però, non era dolce come le more, bensí amaro, pesante; e, dopo un passaggio di vivacità fittizia, produceva malinconia, caligine e sonno. Si sarebbe detto che dovesse quel suo color bruno a semi di papavero infusi. Impastava la lingua e, a berne fuor di misura, gettava in un letargo donde scacciava perfino i sogni, oltre che la memoria.
Mio padre non ne beveva mai tanto da ubriacarsi: egli passava, attraverso la fase dell’esaltazione, all’indolenza, e in questo stato rimaneva assorto senza ricordarsi del tempo, e della mia stanchezza. Finché, in quei sonnolenti vapori, anche la mia mente s’intorpidiva: ed io stavo ad ascoltare, mezzo assopita, le frasi brevi e scarse, per me spesso enigmatiche, delle conversazioni intorno ai tavoli vicini; o, dalla strada, i numeri gridati dai giocatori di morra. (…) A causa del loro viaggiare solitario, o della razza antica, costoro avevano l’abitudine della meditazione e del silenzio: per cui la sonnolenta natura di quel vino era fraterna ad essi. Di solito, sedevano in tre o quattro alla stessa tavola, con gli occhi bassi e velati, bevendo lentamente senza mai guardarsi né dirsi una parola; ed anche nel gioco erano quasi sempre taciturni, indifferenti, sembrava, alla perdita o al guadagno, sebbene trascorressero ore ed ore intorno alle carte. Coi loro volti semitici dalle barbe trascurate, le occhiate indolenti prive d’interesse o di curiosità, non eran diversi, nella specie, dal padrone sonnambulo e dalla gatta selvatica: e non per nulla, certo, frequentavano assiduamente quell’osteria.”

Negli ultimi capitoli di Menzogna e Sortilegio, la piccola Elisa sempre accompagnando suo padre alla bettola di Gesualdo vivrà le sue ore più disperate e umilianti, con il Butterato completamente ubriaco, svenuto sul tavolo della stamberga in un pomeriggio di afa e calura estiva che accentuano l’allucinazione verista, che amplificano lo squallore della scena di questo “pellegrinaggio infernale”.

Dovrà riaccompagnarlo lei lungo le strade verso casa tra le lacrime della mortificazione estrema che la porteranno al culmine di odio e disgusto nei confronti di quel suo tragico padre, nemico di se stesso come quasi tutta la schiera di spettri autolesionisti che animano il romanzo della Morante, un assoluto capolavoro di stile, sensibilità artistica, osservazione del mondo, autoironia che fa dell’autrice una delle più acute rabdomanti della psiche, cronista lucidissima degli abissi del cuore umano.

“Le vie rimanevano ancora quasi spopolate. Vi s’incontravano solo frotte di ragazzetti mezzi nudi che, insensibili al clima, si davano ai soliti giochi e al chiasso; oltre ai primi scarsi passeggiatori domenicali, ancora istupiditi dalla siesta interrotta anzitempo, e a qualche vagabondo che dormiva buttato in terra all’ombra d’un portone, fra nugoli di mosche. Ancora, sulla città regnava il sonno: soltanto piú tardi, calato il sole disumano, le famiglie, le ragazze a frotte sarebbero uscite agli svaghi della domenica, e incomincerebbero ad apparire i primi ubriachi, familiare spettacolo delle sere festive al sobborgo. Ma in quell’ora prematura, attraverso le vie semideserte nella piena vampa del giorno, un ubriaco aveva l’aria d’uno stralunato pioniere disceso da regioni sideree.
I mille metri di percorso dall’osteria fino a casa furono, è certo, un pellegrinaggio infernale per la fiera Elisa De Salvi.”

The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

13 Marzo 2023
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The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

Qualche settimana fa, in un cinema di Roma Nord sono riuscito a beccare l’ultimo film di Darren Aronofsky proiettato in lingua. La finestra temporale della proiezione era al solito un paio di giorni – succede sempre così con i film considerati meno mainstream, – dopodiché ti fai in culo e devi scaricarlo eventualmente online per riuscire a vederlo a casa, non devastato dal doppiaggio. Doppiaggio la cui gloriosa tradizione nel cinema di casa nostra sta perdendo sempre più fascino e professionalità di pari passo con la decadenza decennale del nostro teatro e lo slabbramento tanto del carattere che della profondità delle “voci”, di attorini oramai prostituiti a becere serie televisive, marchette pubblicitarie o ad altro genere di imbarazzanti reclame perbeniste mascherate da film impegnati.

Il soggetto di The Whale è un grande (e grosso) soggetto. Brendan Fraser giganteggia in tutti i sensi nella parte del protagonista Charlie, La Balena. Fraser, sulla scia di un attore mitologico come Lon Chaney (L’Alonzo The Unknown di Tod Browning su tutti) ha trascorso quattro ore al giorno indossando protesi che pesavano fino a 136 kg. Ha consultato la Obesity Action Coalition e ha lavorato con un istruttore di danza per mesi prima dell’inizio delle riprese in modo da determinare in dettaglio come si sarebbe mosso il suo personaggio con il peso in eccesso. Visti i tempi di sterile iper-criticismo del politicamente corretto, sono state mosse anche alcune critiche per l’uso della tuta protesica invece di scegliere un attore obeso, con l’accusa di “stigmatizzare e deridere le persone grasse”.

Charlie è un gay mostruosamente sovrappeso (grande lavoro i truccatori con le protesi), insegna scrittura creativa online dal divano di casa dove è arenato nell’oceano delle miserie quotidiane, con tutta la sua stazza inverosimile. I presupposti sono perfetti per simboleggiare lo spirito dei tempi in America dunque nel mondo tout court. La miseria della vita insignificante dalla culla alla tomba nel grigiore dei centri suburbani; il senso dilagante di fallimento sottopelle a una società come quella statunitense devastata dall’apparire sani e felici a tutti i costi, inondata dal cibo ultralavorato, ossessionata dal successo e dal denaro facile, sono le giuste premesse che però il regista non riesce a tenere salde, ben focalizzate fino in fondo.La sceneggiatura che appare fin troppo meccanica e ad orologeria, tradisce la sua natura di stampo teatrale. Alla fin fine The Whale non è Who’s Afraid of Virginia Woolf?, e tantomeno Samuel D. Hunter ha il talento, il livore drammaturgico, l’universalità di Edward Albee. Si perde nella costruzione dei personaggi che risultano vuoti di contenuto psichico o densità emotiva, con strizzatine d’occhio fastidiose a rassicurare il pubblico generico, suggerendo in un a parte maligno: “Vero, sembra una materia angosciosa da film indipendente nerd per i soliti, pochi pippaioli cinefili sfigati depressi, ma noi vinceremo gli Oscar per la regia raffinata a confronto con le stra-merdate hollywoodiane, per la sceneggiatura Apocalyptic Chic, per l’attore protagonista gne gne gne…”

Quasi tutti gli altri attori coinvolti nel film non reggono nella maniera più assoluta la bravura e la presenza effettivamente ingombrante di Brendan Fraser. Ellie, la figlia adolescente di Charlie si sforza di essere perfida ma è di un forzato fin troppo svelato, irritante. È di un cattivo puberale privo di dimensione interiore, prevedibilissimo, studiato a tavolino. Mary la madre di Ellie, ex moglie di Charlie lasciata da lui quando la bimba era piccola dopo essersi innamorato di un suo studente, si capisce fin troppo che è del tutto fuori parte. Appare quasi a metà film, farfuglia le sue battute, dovrebbe far credere di essere alcolizzata semplicemente perché lo sceneggiatore le fa chiedere dove sta una bottiglia di qualcosa d’alcolico. E poi esce definitivamente dalla porta e dal film. Pure in questo caso, come quello della figlia anche il carattere del personaggio della madre è di un piattume a dir poco goffo, sgradevole di una goffaggine e una sgradevolezza aliene alla logica interna della storia ma congenite alla infondata scrittura del film. Mary ed Ellie sono figurine monocordi appiccicate al film, personaggi riduttivi con trascorsi solo nominati dallo sceneggiatore ma di fatto senza un vero passato inciso sulla pelle, senza una vita propria che traspaia minimamente nell’interpretazione delle attrici sullo schermo perché manca del tutto all’origine nel disegno della sceneggiatura. So che suona arrogante ma questo difetto di scrittura si ritrova da anni ormai abbastanza ferocemente nel 90% delle robe che escono in sala e molto spesso sono film osannatissimi dalla critica, bah!

Anche l’utilizzo del tema portante, il commento ad una “noiosa” pagina del Moby Dick di Melville, sembra davvero troppa poca cosa, un esercizio inefficace e mal svolto di sceneggiatura cerebrale creativa, per imbastire una qualche vaga morale di fondo, per sciroppare alla gran parte degli spettatori illetterati, la sottotraccia filosofico-letteraria, la “sad story“, di un film da camera della durata di due ore.

Lo scambio di relazioni fisiche e psicologiche meno piatto (leggi: meno mal sceneggiato) avviene tra Charlie e la sua fraterna amica/badante Liz (una bravissima Hong Chau, la sola a reggere il confronto con Fraser), e con Thomas una specie di missionario cristiano della New Life Church. Ma anche qui, molti dei temi forti che avrebbero potuto essere trattati con maggior profondità e cattiveria da Aronofsky/Hunter: l’omofobia, l’anonimato, la solitudine, la letteratura, la denigrazione dell’obesità, il puritanesimo misticheggiante delle religioni americane e dello spiritualismo d’accatto diffusissimi in Nord America, sono trivializzati, resi innocui, smussati, rassicuranti, ad uso di un pubblico quanto più vasto cioè indifferente ma soprattutto a beneficio dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), l’istituzione che scodella gli Oscar.

Insomma a me è sembrata una grandissima occasione persa quella di Aronofsky che lontano dal realizzare un film autentico, potente, arrabbiato, onesto per una parte di pubblico di fruitori attenti seppur indistinti nelle masse, conclude un film incompiuto, scaltro, qualunquistico e ricattatorio per un pubblico di masse amorfe scialacquate nell’indistinto.

Calder/Cage – La fascinazione del Caso e del Caos

21 Febbraio 2023
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Alexander Calder, Mobile c.1932

Calder/Cage – La fascinazione del Caso e del Caos

Alexander Calder (1898-1976), sospendendo le forme che si muovono con il flusso dell’aria, Calder ha rivoluzionato la scultura del XX secolo. Marcel Duchamp ha soprannominato queste opere “mobili“. Piuttosto che un oggetto solido di massa e peso, ridefiniscono continuamente lo spazio intorno a loro mentre si muovono. Il sottile equilibrio di forma e colore di Calder ha portato a opere che suggeriscono una versione animata dei dipinti di un amico come Joan Miró. La scultura che inventa un proprio tentativo di moto browniano. Questo Mobile tiene in equilibrio varie forme sospese nell’aria, spostate da correnti d’aria casuali. In tal modo, alla scultura vengono dati movimenti aleatori a seconda della temperatura e degli spettatori nell’ambiente. In effetti, è stata questa scultura aerea di Calder ad ispirare la musica aleatoria di Earle Brown e Morton Feldman.

Come ha sottolineato più di un critico musicale John Cage (1912-1992) è stato forse il compositore americano che più di tutti ha avuto un impatto decisivo sulla vocazione sperimentale della musica nel XX secolo. Cage è stato anche scultore, pittore, poeta, filosofo, teorico musicale, polemista, provocatore. Orecchio aperto a ogni suono, rumore, gesto. Mannaggia che non ho visto i suoi allestimenti di pittura a Perugia nel 1995, ero anche io là in quel momento, al primo anno d’università e come un coglionotto ventenne imberbe neppure me ne sono accorto che la città ospitava una sua mostra. Ci ripenso ora dopo quasi 30 anni e mi sale il nervoso assieme a tanta malinconia per le cose perdute. In lui lo sperimentalismo nasce dall’idea di non separare l’attività artistica dalla quotidianità. Stimolato dalle ricerche dell’arte povera, impiega oggetti di uso comune, tazzine, cerchioni d’auto, gomme, viti, oggetti metallici vari infilati tra le corde del pianoforte così da avvilirne il suono romantico. Una vera e propria manipolazione degli strumenti tradizionali per distorcerne il suono, vedi ad es. il Concerto for prepared piano and orchestra del 1951.

Hans Richter, Dreams that money can buy (1947)

Nella scrittura musicale è assai disposto alla libertà e al gioco recuperando atteggiamenti Dada (Music for Marcel Duchamp, 1947) o riconsiderando le conquiste di Satie. Questo breve pezzo ipnotico e misterioso, è stato originariamente scritto per la sequenza con Marcel Duchamp nel film di Hans RichterDreams That Money Can Buy“. Il pianoforte è preparato con pezzetti di gomma e altre guarnizioni con un piccolo bullone posizionato con precisione per enfatizzare le armoniche delle corde che fanno suonare il pianoforte come una sgangherata e ubriaca banda di paese.

Il Musikalisches Würfelspiel di Mozart (Gioco di dadi musicali) (1792), ad esempio, è un minuetto realizzato tagliando e incollando insieme sezioni prescritte determinate dal lancio di un dado. Seguendo un’ispirazione simile, Marcel Duchamp compose Erratum Musical (1913) estraendo casualmente da un cappello venticinque note. Duchamp ha scritto il pezzo per le sue due sorelle e per se stesso – ogni parte è incisa con un nome: Yvonne, Magdelaine, Marcel. Le tre voci sono scritte separatamente e non vi è alcuna indicazione da parte dell’autore se debbano essere eseguite separatamente o insieme in trio. Nel comporre questo brano, Duchamp ha realizzato tre serie di 25 carte, una per ogni voce, con una sola nota per carta. Ogni mazzo di carte era mescolato in un cappello; quindi estraeva dal cappello una alla volta le carte e annotava la serie di note indicate dall’ordine in cui erano state estratte. John Cage, sempre seguendo Duchamp, scrisse Music of Changes (1951) per dare agli esecutori musicali la libertà di creare suoni imprevisti durante la performance.

Tra gli anni 40 e i 50 studia la filosofia zen che lo spinge a ribaltare i concetti tradizionali del suonare e del comporre. Da cui deriva l’eliminazione dell’aspetto soggettivo nella composizione, l’annullamento della gerarchia tra suono e rumore e della barriera interprete auditorio. La casualità (l’alea) della composizione prima e dell’esecuzione dopo. La fascinazione per il caos, il disordine, il moto browniano. Dal 1954-1958 viaggia spesso per andare a Darmstadt. La potente influenza del pensiero asiatico è una costante sui musicisti più sperimentali del XX secolo si vedano Scelsi e Partch su tutti. Prende grande ispirazione dall’I Ching della Cina, l’antichissimo libro oracolare dei mutamenti, testo sacro della numerologia orientale. Mentre dallo Zen indiano come accennato sopra, ha appreso il concetto della fisicità e della non intenzionalità dei suoni e l’uso del silenzio che sublimerà nella celebre 4’33 (1952) dove un concertista se ne sta seduto a un pianoforte senza suonare, così da evidenziare solo i suoni e i rumori della sala.

John Cage, Silenzio (Il Saggiatore)
Conversazioni con Joan Retallack, Musicage (Il Saggiatore)

Nella conferenza del 1957, Experimental Music, ha descritto la musica come “gioco senza scopo” cioè “un’affermazione della vita – non un tentativo di portare ordine dal caos né di suggerire miglioramenti nella creazione, ma semplicemente un modo di svegliarsi per davvero alla vita che stiamo vivendo”.

Approfondimenti

John Cage, Fontana Mix, 1958
John Cage watercolour

Nature of AudioVisual Things and the Leviathan Algorithm

8 Febbraio 2023
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Why should people get passionate about things they don’t know?

György Ligeti

Giuseppe Viviani, Il Vespasiano, Acquaforte su rame 1956

Nature of Audiovisual Things and the Leviathan Algorithm [here’s the italian version]

<<Nature of audio and visual things. A sincere daily wine, made up of sounds, noises, visions, silences. A multimedia constellation in the cosmos of Knowledge.>>

This is the tag-line where I share the same humanistic spirit of Bachelard when he prayed: “Give us today our daily book.”

Pars destruens (destroy)

You don’t necessarily have to be a communication scientist to realize that we are not using the Facebook algorithm, rather the algorithm is abusing us. It is a Leviathan who cannibalizes us. A demon that feeds on our virtual identity with each passing day, exacerbating the worst in us to the max: narcissism, malevolence, frustration, resentment, hostility, ignorance, megalomania, self-praise, intolerance, exhibitionism

Yet all of us, both the knowledgeable and the naïve, we are nothing but pathetic avatars. Insignificant numbers thrown into the Big Data mousetrap. Now we all laugh en masse at the same memes. We all want to express our comments on the same facts of the day even if we have not formed any in-depth opinion on those events, always contrasted between pros and cons. Many of us share the same anger, joy, or grief over the day’s obituaries. We seem to be scandalized and selfless on command. Too many of us we love and hate indifferently abusing of flames, likes, selfies with our ostrich-ass lips through the mirror of my worst wishes, the looking glass of our spectral Facebook walls.

Giuseppe Viviani, Bicicletta

Impossible fuck the algorithm because it was created on purpose to fuck us. Perhaps, without being too paranoid or pompous, we can figure out a slightly less toxic use of Facebook and social media in general.

Self-pity, bitterness, complaining… does little or nothing if not even poisons us, leaving us even more powerless than before. We need to find a real solution, an escape route at least for our good, however improbable or ineffective it may seem to us in the short term, but who knows that won’t be a decisive solution if envisaged in the long term? Gathering what is lost in the mud of the Internet to restore educational respectability and benefit of culture. Taking for granted the collective failure of the scholastic institution, the inadequacy of official teaching, however we want to see it – from kindergartens to universities -, remodeling a radical form of monastic concentration and propensity for self-learning seems to me the only method to refine one’s own critical judgment ability. A daily martial practice of inner research. A kind of smart working applied to oneself and one’s personal growth.

Educating yourself to know something new every day, perhaps is the only way to avoid having the senses narcotized by the GCD (general collective distraction) emanating and perpetrated by the System.

Emilio Villa, Labyrinth

Pars construens (build up)

Everything has been done, and nothing has been done; whereby everything must be done, and there is nothing that cannot be done.Emilio Villa

The Net can be both a weapon of mass distraction and a collector of sensory stimuli, an aggregator of cognitive propulsions (gnoseological development).

The Web is a fluid atlas of vast and incessant knowledge which, however, must be learned to read just as one reads geographical maps. If we fail to actively orient ourselves, the Internet can turn into an abyss of dispersive information, ineffective for our personal growth, it turns into a tangle of sterile-multiform drives to which we passively submit. In other words, it risks becoming a boundless mobile desert of grains swept by the wind. A spiral of overlapping dots that we must always be able to join together to give them a design sense, to try not to lose our bearings. That’s why it is so important to stay oriented, awake and focused precisely to prevent our complex thought pattern from being subjugated and polarized by the binary pattern of the Machine which tends to polarize/trivialize everything it encounters along its path..

Giuseppe Viviani, Il Ciclista, Litografia 1963

Training the sense of sight and hearing every day is Yoga for the mind. It is a genuine food and wine, natural yeast and nutritious sourdough, essential seeds to regenerate our soul. This perennial short-circuit of information collected online or from books, visual arts bibliographies, discographies and filmographies, becomes like a craft practice that shakes and awakens our conscience. It’s athletics for the intellect, focusing us even more on understanding ourselves, opening us to empathy towards other people.

The more we learn to read, clarify, criticize, throw light on and hear the world, the less we allow ourselves to be deceived by the ugly, the false, by the cultural void in which we sink. Less owerpowered by Artificial Intelligence. The more we’re focused on the inner growth of ourselves, on our intellectual development, the better we are able to counteract the forced torpor of the brain artfully manipulated on the drawing board by algorithms and Big Data.

It is essential to oppose with all our strength against the homologation of our aesthetic sense perpetrated by the Machine. It is more than right to fight bloodily contra the brutalization and stupefaction conveyed by our subjectivity both virtual and real which, if left to itself, overdone by the flows of the Algorithm, becomes more and more a passive/elaborate identity shaped on the measure of a laboratory rat.

With the concentrated, slow but stubborn exercise of discovery on the Internet, we “force” the Web to transform itself, to slowly open up into a magnificent adventure of human knowledge where, beyond the usual research sites and encyclopaedic-universal platforms (Google, Wikipedia , YouTube… especially if you speak also other languages ​​than English), you discover extremely refined blogs, treasures of incredibly competent specialized in-depth sites emerge on cinema, music, art, literature, free jazz, yoga, chess, avant-garde cuisine, viticulture, elementary particle physics and any other topic or discipline around which we wish to devote our observations, documentation and detailed analyses.

Tom Phillips, [no title p. 33], 1970

Be careful, this is not erudition as an end in itself, but a furious desire for knowledge. Learning to decipher the visual signs and the hieroglyphs of sounds by which we are literally overloaded means learning to be in this world. At the end of the day it is about satisfying the desire to know all the things that we will never necessarily acquire. We must transform this anxiety of knowledge into a spiritual exercise to fill our emotional voids, a sacred gesture of personal respect, love and self-care.

«Losers, like autodidacts, always have more vast knowledge than winners, if you want to win you must know only one thing and not waste time learning them all, the pleasure of erudition is reserved for losers. The more things one knows, the more things didn’t go his way.

-Umberto Eco-

Losers perhaps losers in the eyes of the masses accustomed to superficial judgments and prejudices, but winners for sure in the respect we have for Knowledge, readers and for ourselves.

Man Pulling Face, detail of Satirical Diptych by an anonymous Flemish artist, circa 1520

Finding your way around the encyclopaedic chaos of the Web isn’t a joke, it’s an exhausting undertaking. Also because it is an ethereal, “liquid” essence. It is its nature of computer interconnection. The contents, the data that interest us are all already there, layered on top of each other in an infinite flow of codes, numbers, inputs, outputs. As explorers of audio-and-visual learning we must absolutely be able to distinguish and recognize useful information from superfluous ones since the latter are certainly more. It is a priority to continually sift through this insidious puddle of words-sounds-images, spelling out and learning well to separate the gold from the mud.

The skills, the refinements – both theoretical and practical – are acquired over time due to curiosity, study, research, insights, comparisons, tenacity.

Disegno originale di Emilio Villa, s.d. (anni ’70)

It is vitally important to defend yourself hands and feet since the risk is to end up swallowed by the System, stripped of our soul while the shell of the body is spat away onto a gigantic heap accumulated by millions of other spitted shells. Yes, because we all run the risk of being slowly mutated into many flat entities. Robotic users sterilized of their own energy to know, therefore to think for themselves and to act with their own will, a will that identifies our species, characterizes our own human dignity as thinking beings and in some way free beings.

Above all, it is indispensable to be hungry, to be hungry for an omnivorous curiosity in the wake of the essayist Calvino, the Calvino collector of sand and researcher of written and unwritten worlds. By squeezing information and connections from the Net and from books, I try to shape a palimpsest of linked cultural contents. I will insist on spreading psychic short circuits. I conceive this palimpsest as a multimedia constellation of creative expressions linked to artistic research. From the microcosm of the image (painting, photography, cinema), to experiments in the universe of sound, up to the extreme margins of aphasia, the incommunicable, primordial chaos, disharmony and philosophical stuttering. I imagine it as a fluid mapping of the most disparate experiences of musical/visual languages ​​that have arisen and proliferated in the last hundred years, let’s say more or less starting from the historical avant-gardes in the first decades of the 1900s.

It is a notebook in the making where I ask for continuous stimulation of our organs of sight and hearing. It is a logbook where every day I am the first to learn something together with those who have desire and curiosity to read the correlation of creative geniuses who have sensed other potentials in the sphere of language, who have glimpsed other possible worlds.

The aim I set for myself is obviously not exhaustive and does not pretend to be a sterile compilation, but is a sketch of associations of living ideas, congregations of thoughts resulting from books, articles, internet sites, concerts, museums, films, compositions. I draw a route among thousands of other potential routes. I pretend to instill my sparks of curiosity and objective correlatives as exposed by T.S. Elliot in The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism.

A set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion.”

I distill my passions, beliefs and knowledge in the interconnected cauldron of the Net, with the certainly somewhat naive trust of lighting the fire of knowledge – analogue and digital – also in other individuals who search, read, write both on paper and online.

Learning by doing is the old motto that has resonated for centuries in artisan workshops where both manual or technical knowledge and theoretical and practical skills have been handed down for generations from masters to students. It is a warning that I always find valid and which I make my own, despite the extinction of so much of the craft world, also induced above all by information technology which has forever distorted the face of our planet but which nevertheless allows me and millions of others to publish and communicate one’s own things, interesting or boring, stimulating or insignificant, is up to the reader to decide

Sure to some, such a clumsy attempt to connect artistic worlds, collect and rearrange worldviews through the Net to stimulate readers’ research may seem like a sure waste of time and money. It may actually seem like an illusory endeavor, like counting grains of sand in the desert, but I would approach it as a Zen meditative exercise, useful for focusing and clarifying our mind.

In fact, I’m almost certain that this continuous practice of communicating positive cultural contents could be a healthy athletic training in itself, effective in toning the brain of both: writers and readers.

A I strongly hope, it will be an adventurous exploration beyond the “limits” of what we believe to be our “language” and our “world“, not surprisingly recalling the first Wittgenstein of the Tractatus, published in 1921 when the austrian philosopher was just 30 years old, in those the first decades of the last century which heralded frightening global catastrophes, scientific discoveries unthinkable for humanity, poetic inventions and artistic experiments risky on summits where the intelligence of our species is confused with its own bestial self-destructive idiocy.

Why should people be passionate about things they don’t know?” György Ligeti asked himself embittered in the book-conversation with Eckhard Roelcke, Träumen Sie in Farbe? (Do you dream in colour?) about people’s lack of interest in contemporary music. Here, all my lucubration up to here, attempts to give an articulated answer to Ligeti’s sharp and essential question.

In short, my proposal is to post and refresh interrelation every day linking sound-visions-visual arts visionaries, as a constant learning exercise – my idea of networking – or as a simple “apotropaic rite” to stem the wave of false news and conspiracies of the day, to exorcise the avalanche of toxic shit both on digital and paper that everyday overwhelms everything and everyone.

Concerning the “apotropaic gesture”, compare J.N. Adams, Apotropaic and ritual obscenity, in The Latin Sexual Vocabulary, JHU Press, 1990.

Visions, sounds, noises, silences... with the desperate purpose of avoiding our daily death from mental dryness and functional illiteracy. Above all to excite and revitalize ourselves and then perhaps others as well, excite them about so many things we don’t know yet.
Because knowledge is infinite while we are finite little beings but in that juncture of time and space that is granted to us we can actively delude ourselves, be grateful to be a small part of this exciting infinite.

Emilio Villa, Museo della Carale Accattino per la Poesia Sperimentale Visiva

Van Gogh a Palazzo Bonaparte. Arte e cultura come buffonata.

8 Febbraio 2023
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Uomo con la testa tra le mani

“La civiltà vuole che si auguri il buon giorno a uno che volentieri si manderebbe al diavolo; ed essere bene educati vuol dire appunto esser commedianti.”

Luigi Pirandello

Van Gogh a Palazzo Bonaparte. Arte e cultura come buffonata.

La mostra su Van Gogh (1853-1890) a Palazzo Bonaparte è indicativa del pessimo stato dell’arte e della cultura nel nostro paese. Arte e cultura svilite a management, vilipese a global business (sic), diventano maschere funeree da Commedia dell’Arte.
Arte e cultura in questa agghiacciante prospettiva di profitto rapace da industrietta culturale, spregevole lascito del berlusconismo/renzismo/salvinismo da farsa, sono diventati solo un pretesto per sbigliettare quanta più massa di gente, masticata e sputata via come i “clienti” delle sale gioco. Non è un caso che l’allestimento della mostra nel polo museale del Nuovo Spazio Generali Valore Cultura, sia tristemente identificato quale “asset”. Insomma l’Arte – come Pinocchio col Gatto e la Volpe – nelle grinfie di una compagnia di assicurazioni dove il Country Manager & CEO of Generali Italia and Global Business Lines, dichiara pirandellianamente, senza neppure sapere chi diavolo fosse Pirandello, tanto mica Pirandello serve a fare azienda?:

Fare azienda in modo moderno vuol dire affiancare l’impegno verso i nostri 10 milioni di clienti con un impegno concreto verso le comunità. Questo per noi è essere Partner di Vita delle persone e in questa nostra ambizione si colloca l’apertura e la valorizzazione dei nostri asset come Palazzo Bonaparte: un bene che, grazie anche alla collaborazione di un operatore importante come Arthemisia, diventa un polo di sviluppo per la comunità.”

Autoritratto

Le opere esposte alla mostra di Roma provengono tutte dalla collezione del KröllerMüller Museum dell’Hoge Veluwe National Park di Otterlo (Olanda). Come nella mostra di qualche anno fa alla Basilica Palladiana di Vicenza, c’erano dei disegni di Van Gogh straordinari, ma anche lì l’allestitore era una specie di venditore di pentole con il tipico spirito filisteo del mercante in fiera veneto; un approccio schifosamente melenso all’arte e alla cultura, un buonismo viscido a metà tra zio Paperone e Nonna Papera.

La narrazione della “geniale follia” del pittore è sdoganata in un raccontino rassicurante e penosamente perbenista adatto a tutti: vecchi, giovani, donne, bambini.
Il ruolo dei musei dovrebbe essere quello di educare all’insolito, scuotere la coscienza, inquietare, stimolare allo studio, entusiasmare agli approfondimenti, aprire la mente alla ricerca e invece sono sempre più degli “asset” appunto, dei parchi divertimento a ore dove si svendono “il genio e la sregolatezza” un tanto al chilo.

Seminatore al tramonto, 1888

Ho sempre più l’impressione che questo genere di mostre incentrate sul “maledettismo” dell’artista siano concepite in un’ottica di gioco infantile, protese ad un pedagogismo da quattro soldi e d’intrattenimento naïf, ad uso della maggioranza degli adulti trattati come bambini sviluppati poco e male.

Interno di un ristorante, 1887

The Square e la bêtise humaine

5 Febbraio 2023
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The Square e la bêtise humaine

The Square (2017) del regista svedese Ruben Östlund, di base non mi è sembrato un film troppo disonesto che di questi tempi è già tanto. A volergli trovargli un riferimento ad altro cinema contemporaneo direi che per un certo senso di tensione strisciante e angoscia innominabile richiama Michael Haneke. Certo sono passati quasi 20 anni da Cachè (Niente da nascondere – 2005), e poi insomma l’esibizionismo velleitario di Östlund, quel suo divagare sciatto alla Von Trier sono spazzati via dalla profondità di sguardo, dalla ferrea etica anti-commerciale di Haneke.

Riguardo ad esempio il tema inesauribile ricchi-poveri, laddove Haneke affronta le scene con lucida freddezza e rigore morale a dir poco disturbanti, ossessivo sul significato ultimo del guardare e dell’essere guardati, The Square mi pare assai superficiale, ostentato, tutto fin troppo mostrato in platea, didascalico. Le banalità espresse sull’arte concettuale sono tipiche di chi ne discute da bar in maniera naïf e pretestuosa, senza esserne veramente coinvolti dal di dentro. E poi l’insistenza programmatica su quel: “Il quadrato è un santuario al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri” mi sa tanto di moralismo opportunista che vorrebbe sensibilizzare gli spettatori sul fatto che lo stesso schermo del cinema è un quadrato, perdio che trovata di genio!

È palesemente un film a tesi con un buon soggetto ma con una sceneggiatura sfibrata dai simbolismi sciatti che pretendono essere intellettuali/surrealisti à la Buñuel (la scimmia in casa della giornalista americana? bah!). Per tacere dei dialoghi imbarazzanti, agli eventi in sé privi di coerenza interna: lui che viene derubato di portafoglio e cellulare in mezzo a tutta quella folla di gente, con la presunta pazza inseguita che urla a quel modo senza che la polizia si allarmi? Ancora, ma se tramite la localizzazione satelittare sanno dove si trovano quelli che hanno rubato il cellulare secondo quale logica il protagonista del film si avventura nella palazzina alla periferia della città a imbucare lettere di minaccia a tutti i condomini piuttosto che affidare l’investigazione alla polizia? Insomma senza stare qui a fare le pulci ad una sceneggiatura inconsistente, tutto il pacchetto mi pare un po’ raffazzonato con evidente sciatteria solo per dare valore alla “tesi” di fondo che l’uomo è malvagio e l’arte non riflette la vita? Mi pare troppo poco e tanto pretestuoso da farne un film di 2 ore e mezza. E a proposito di simboli sciatti, i poveri e i ricchi sono abbozzati come i disegni dei bambini, idealizzati quali manichini senz’anima né vita propria. Poveri di maniera perché utili a dimostrare la tesi a tavolino del regista e dei produttori, una tesi tutto sommato da ricchi imbolsiti, rassicurante, goffa e a lieto fine.

La scena della cena di gala con la bestia umana – un grande Terry Notary – lasciata libera tra i tavoli è degna di nota per un senso di inesplicabile, di potente angoscia e strazio emotivo ma poi a pensarci bene è del tutto appiccicata a caso al film, ancora una volta solo per “dimostrare” la sua scialba tesi di fondo.

I film a tesi hanno questa debolezza alla base che se non hai idee cinematografiche forti non basta un’idea, pure buona, a farne un buon film. Certo è un film che riflette in qualche maniera lo spirito dei tempi: la cattiveria, l’uso iperbolico della violenza per suscitare seguito sui social-media, l’ipocrisia dei ricchi e potenti. Significativo lui il protagonista che prova il discorso scritto in bagno anche quando fa a meno del foglio perché troppo formale, dunque anche la spontaneità è costruita a effetto, recitata ad hoc.

Il film ha vinto a Cannes nella gala del cinema con gli stessi commensali in sala che ridacchiavano, si “spaventavano”, applaudivano e celebravano quella bestialità esotica scappata dalla gabbia del circo, fino poi a scatenare la propria ferocia tanto da ammazzare l’animale umano. Ma in fondo non è la solita bêtise humaine che ha fatto premiare il film? La stupidità ambiziosa del giudicare e far vincere i premi. La velleità della carriera soprattutto quella rientra nella tesi finale di questo pretenzioso “film sull’arte” che fin dall’inizio è stato scritto e girato appunto per vincere la Palma di Cannes più che per tentare di fare un “film d’arte”.

The Square alla fine della fiera solletica dove pretende di dare cazzotti. Carezza più che graffiare. Sbaciucchia invece di mordere.

Ho iniziato la recensione dicendo che non è un film del tutto disonesto, però ha suscitato in me più rabbia che soddisfazione come in genere mi capita davanti a creazioni dell’intelletto di poca o malsicura onestà intellettuale. Rabbia per un’occasione persa soprattutto per il regista, anche se immagino che per il regista-sceneggiatore è proprio l’occasione della vita visto che gli ha fruttato il trionfo mondiale della Palme dor à Cannes. Ma a questo punto potremmo tranquillamente ritorcere contro il regista la scritta a neon di una delle installazioni artistiche mostrate nel film: YOU HAVE NOTHING (NON HAI NIENTE).

John Hassell: Teorie di Sogni Suoni e Visioni Aborigene

4 Febbraio 2023
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Fire Dreaming by Malcolm Maloney, Jagamarra People
Songlines by Walangari Karntawarra

John Hassell: Teorie di Sogni Suoni e Visioni Aborigene

John Hassell, il trombettista e compositore americano classe 1937 è morto due anni fa nel 2021. È noto per aver diffuso il concetto di musica del “Quarto mondo”, che combina elementi di varie tradizioni etniche mondiali fuse all’elettronica moderna ricrea un “suono primitivo/futurista unificato”. Il “quarto mondo” è quello che fonde gli impulsi istintivi del Terzo con le velleità razionali del Primo. Hassell è stato un vero precursore della World Music molto prima che il mondialismo diventasse posa perbenismo da jet set, moda salottiera o bieco business.

Pandit Pran Nath lo ammaestra ad usare l’ampiezza microtonale della voce come fosse uno strumento a sé che Hassell trasferisce nel suono (nel soffio) della sua tromba con cui riesce ad emettere dei raga continui come in un flusso liquido usando in un certo modo le valvole dello strumento come se soffiasse in una conchiglia.

A proposito di questo particolare timbro della voce fluida soffiata da Hassell attraverso la sua tromba, Scaruffi scrive:

“L’intera musica di Hassell è tutto sommato una ricerca di quel timbro, misterioso e arcaico, che da solo vale più di qualsiasi sinfonia, un timbro capace di risuonare con la condizione umana. (…) la snake trumpet di Hassell, sottile e cupa, umida e molle, torbida e malata, entra di diritto fra i più audaci virtuosismi del decennio.”

È di Hassell la tromba nel sesto album in studio di Francesco Guccini Stanze di vita quotidiana registrato negli Studi Fonorama di Milano, Sonic e Ortophonic di Roma tra l’autunno del 1973 e la primavera 1974. Riccardo Bertoncelli recensì il disco con una certa malignità: “Guccini se ne esce fuori con un disco all’anno, ma si vede che ormai non ha più niente da dire“. A cui il cantautore rispose per le rime nel 1976 con L’avvelenata “…un Bertoncelli o un prete a sparare cazzate…”

Vernal Equinox preannuncia l’etno-elettronica, è del 1977 ed è considerato dalla critica uno dei più grandi album della musica ambient. Il disco fonde con raffinata sapienza il lavoro di minimalisti come La Monte Young e Terry Riley, la musica popolare orientale, l’avanguardia classica, l’elettronica il Miles Davis della svolta elettrica dei primi anni ’70. Riascoltato ancora oggi il disco conserva un inquietante potere narcotico, una sua segreta ed elementare bellezza che ipnotizza i sensi.

Songlines

Gli strumenti tradizionali suonati sul disco provengono da Sud Africa, Sud America, Medio Oriente etc. La musica multiculturale di Hassell spesso sembra propulsiva, ma la sua architettura ritmica è ingannevolmente fluida e instabile. Nella maggior parte dei brani, raffiche di percussioni, a volte acustiche, a volte sfocate di rumore digitale, si raggruppano in piccole sacche di intervalli e caos. La tromba di Hassell è al centro di tutto, irriconoscibile come tutto il resto. Le sue elaborate catene di effetti creano suoni simili a discorsi e il suo tono spesso viene sopraffatto dal suono del suo respiro.

Tutto nasce con Fourth World, vol. 1: Possible Musics (1980), in collaborazione con Brian Eno registrato al Celestial Sounds di New York. Scaruffi afferma che Brian Eno e David Byrne gli rubarono l’idea di My Life In The Bush Of Ghosts (1981), questo ha convinto Hassell ad abbandonare la ribalta art-pop-rock per ritornare nella pensosa oscurità dell’avanguardia. 

Amico di Terry Riley ha suonato anche nel suo seminale In C.

Dream Theory In Malaya: Fourth World Volume Two (EG, 1981) è un concentrato di idee antropologiche e cosmologiche, una fusione felicissima di musiche da camera del mondo per tromba elettronica e voci a partire dalla teoria dei sogni degli aborigeni della Malesia facendo musica del loro stesso habitat. Il titolo proviene da un articolo dell’antropologo-etnologo visionario Kilton Riggs Stewart che nel 1935 visitò una tribù sugli altopiani di aborigeni malesi, i Senoi, la cui felicità e benessere erano chiaramente connessi alla loro abitudine mattutina di raccontare i sogni in famiglia e rielaborarli nella vita di tutti i giorni. Così l’incubo di un bambino che sognava di sprofondare veniva elogiato quale dono per imparare a volare la notte successiva e dove una canzone o una danza onirica venivano insegnate a una tribù vicina così da creare un legame comune al di là delle differenze di costume. Una delle tribù che vivevano nelle vicinanze ma in regioni paludose, i Semelai, praticavano l’arte di schizzare l’acqua con le mani per creare una musica ritmica. Hassell aveva ascoltato le registrazioni di questo rituale da una pubblicazione della BBC – il libro Primitive Peoples accompagnato da un disco in vinile – e lo ha poi usato come “guida tematica per l’intera registrazione”, in particolare il brano Malay. Hassell riadatta quindi il frammento registrato di quel loro gioioso ritmo danzante così da trasformarlo nella forza generatrice della composizione, oltre a fornire una guida tematica per l’intera registrazione.

Dream Theory In Malaya deve molto al minimalismo di Riley, è una riflessione musicale profonda sui suoni naturali da cui origina il mondo primordiale, cioè i suoni con cui le popolazioni indigene delle giungle come del Bush australiano sono in risonanza da millenni.

Consiglio vivamente la lettura de Le Vie dei Canti di Chatwin per comprendere meglio il primitivismo allucinato di altre ancestrali, conturbanti teorie del sogno.

Aka/Darbari/Java: Magic Realism (Eg, 1983) continua la scia di meditazioni, elaborazioni e flussi sonori articolati in Dream Theory, con un taglio ancora più sistematico e l’utilizzo del computer così da rendere ancora più inquieti/inquietanti i contrasti tra i mondi naturali e le civiltà perdute a confronto con la contemporaneità predominata dalla Tecno-Scienza. David Toop in Oceano di Suono parla di etnopoetica.

Così John Hassell spiega il Realismo Magico:

“Come la tecnica video del “Chroma key” dove qualsiasi sfondo può essere inserito o cancellato elettronicamente a prescindere dal “primo piano”, così la capacità di portare il suono reale delle musiche di varie epoche e origini geografiche tutte insieme nella stessa cornice compositiva segna un punto di svolta nella storia.

Una tromba, ramificata in un coro di trombe dal computer, traccia i motivi del raga indiano DARBARI su percussioni senegalesi registrate a Parigi e un mosaico di sottofondo di momenti congelati da un’esotica orchestrazione hollywoodiana degli anni ’50 [una trama sonora come fosse una “Mona Lisa” che, in primo piano, si rivela composta da minuscole riproduzioni del Taj Mahal], mentre l’antico richiamo di una voce pigmea AKA nella foresta pluviale centrafricana — trasposto per muoversi in sequenze di accordi inaudite fino al XX secolo — sale e scende tra cascate simili al gamelan dell’Indonesia, moltiplicazioni di un’unica “istantanea digitale” di uno strumento tradizionale suonato sull’isola di JAVA, dall’altra parte del mondo.

La musica che è fino a questo punto autoreferenziale, in cui parti più grandi sono correlate e/o generate da parti più piccole, condivide alcune qualità con la musica classica “bianca” del passato. AKA/DARBARI/JAVA è una proposta per una musica classica “color caffè” del futuro — sia in termini di adozione di modalità completamente nuove di organizzazione strutturale [come potrebbe essere suggerito dalla capacità del computer di riorganizzare, a puntini, un suono o un’immagine video] e in termini di espansione del vocabolario musicale “consentito” in cui si può pronunciare questa struttura – lasciando dietro di sé il volto ascetico che la tradizione eurocentrica è arrivata ad associare all’espressione seria.”

Approfondimenti

Songlinesheader

Stölzl/Czukay – intelaiature di suoni dal mondo

Gunta Stölzl al telaio
Gunta Stölzl, Komposition No. 1, (Wall hanging), 1981

Gunta Stölzl (1897 – 1983) è stata una geniale designer dell’arte tessile, la sola Maestra ad insegnare quest’arte antica nella Laboratorio tessile della scuola di arti e mestieri conosciuta universalmente come Staatliches Bauhaus (1919-1933) durante la Repubblica di Weimar in Germania.

Gunta Stölzl, Amden I (Wall hanging), 1967

Holger Schüring (1938 – 2017) meglio noto al pubblico come Holger Czukay oltre ad essere stato il fondatore dei Can, veri e propri scienziati del krautrock che hanno tentato di fondere la musica d’avanguardia con il rock, è stato un precursore della musica ambient, ha fatto world music prima ancora che la “musica del mondo” fosse riconosciuta quale genere musicale contaminato, ed è stato anche un pioniere del campionamento (sampling). Czukay ha studiato con Karlheinz Stockhausen dal 1963 al 1968.

Ispirato dai suoi studi con Stockhausen, oltre alla fascinazione per le radio, l’elettronica e le tecniche di collage in studio col multitraccia, Czukay insieme all’amico tecnico/ingegnere del suono Rolf Dammers decisero di provare a creare le proprie opere per fatti propri.

Nel 1968 registrano Canaxis 5 negli Studio für Elektronische Musik sotto il nome di Technical Space Composer’s Crew, unico album in studio con quel nome. Ed è un capolavoro di musica contaminata.

Questo è Scaruffi a proposito di Canaxis 5:

Canaxis 5 (Music Factory, 1969 – Spoon, 1998 – Revisited, 2007) è il disco che Czukay aveva registrato nell’estate del 1968 a Colonia con Rolf Dammers, manipolando elettronicamente i suoni tutto da solo, contiene due suite, una per facciata. 
Boat-Woman Song è ricavata dà un canto tradizionale vietnamita, preso pari pari, a cui Czukay sovrappone un flusso elettronico alieno: poco a poco l’armonia degrada e sfocia in un coro distorto di lamenti senza identità. Anche Canaxis si svolge attorno a un canto folk, ma qui la deformazione è immediata e radicale: la voce originale viene moltiplicata e rallentata, proiettata contro decine di specchi sonori posti ad angolazioni diverse; quel grumo organico e il sibilo elettronico di sottofondo vengono dilatati a dismisura fino a diventare un’immagine statica e sfocata che vibra all’infinito. La derivazione dal Gesange der Junglinge di Stockhausen è palese. 
La riedizione su CD aggiungerà Mellow Out, la prima composizione di Czukay (1960).

Approfondimenti

Gunta Stölzl, Wall hanging “Rhythm” (1973)

Molnár/Risset – Archeologia audiovisiva del Computer

2 Febbraio 2023
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Vera Molnár

Vera Molnár, 100 trapèzes, 1976

Molnár/Risset – Archeologia audiovisiva del Computer

Nata in Ungheria nel 1924, Vera Molnár si è formata come artista tradizionale, ha studiato storia dell’arte ed estetica al Budapest College of Fine Arts e si è trasferita a Parigi nel 1947, dove vive attualmente. Ha co-fondato diversi gruppi di ricerca di artisti pionieristici come G.R.A.V. (Groupe de Recherche d’Art Visuel), che indagano approcci collaborativi all’arte meccanica e cinetica, e il gruppo di ricerca per l’arte e l’informatica presso l’Istituto di arte e scienza di Parigi. Prima ancora della diffusione del computer, ha inventato algoritmi o “macchine immaginarie” che hanno permesso la creazione di una serie di immagini seguendo delle regole compositive preordinate. A partire dal 1968, il computer è diventato un dispositivo centrale nella realizzazione dei suoi dipinti e disegni, che le ha permesso di indagare in modo più completo le infinite variazioni di forme e linee geometriche.

Vera Molnár (1961)

Più di 50 anni fa, la Molnár assieme a un piccolo gruppo di altri artisti iniziarono a scrivere programmi al computer per creare la loro arte digitale. In queste opere generate alla macchina, il codice diventa il medium e viene reso visibile attraverso una stampa, un suono e/o un video. Una volta scritto il codice, l’artista rinuncia al controllo all’interno di un insieme prescritto di procedure che muovono la penna del plotter per creare un disegno. E quando il codice viene trasformato in questa uscita analogica, rivela immagini e suoni che l’artista e il suo pubblico non avrebbero mai immaginato. Quel che ne risulta sono immagini che gli artisti non avrebbero mai immaginato.

Vera Molnar, De La Serie (Des) Ordres (detail), 1974

Vera Molnár Variations presso il Beall Center for Art + Technology della UC Irvine ha presentato il lavoro della Molnár dal 1958 al 2014, sia i suoi disegni pre-computazionali che i primi disegni computazionali focalizzati su tre tipi di oggetti: linee, quadrati, rettangoli, scarabocchi, ognuno dei quali utilizza una diversa trasformazione algoritmica. L’artista multimediale ungherese è considerata una pioniera del computer e dell’arte generativa. È stata anche una delle prime donne ad utilizzare il computer per creare opere d’arte. La tecnica della Molnár continua a sorprendere e a generare variazioni che producono un gioco musicale e cinetico di linee e forme.

Vera Molnár, Drawings 1949-1986

Risset, Music from Computer

Jean-Claude Raoul Olivier Risset (1938 – 2016), compositore francese, pioniere della computer music ha studiato con André Jolivet e ha collaborato al Bell Labs in New Jersey con Max Mathews (1926 – 2011) dove ha cominciato ad utilizzare il MUSIC IV un software concepito dallo stesso Mathews nel 1957 per ricreare il suono dei fiati al computer. Risset è stato un creatore di illusioni sonore che hanno preso il suo nome quali Shepherd-Risset glissando / Risset scale. Qui allego un articolo molto interessante sulla relazione uditiva tra risposta emozionale, rottura dell’equilibrio e personalità.

Risset dal (1975–1979) è stato a capo del Dipartimento Computer dell’IRCAM, qui di seguito un elenco ragionato della sua opera.

Compilation fondamentale da ascoltare e riascoltare per farsi un’idea articolata di questa archeologia musicale avveniristica è OHM+ The Early Gurus of Electronic Music

OHM: The Early Gurus of Electronic Music è una raccolta della prima musica elettronica con estratti dal periodo che copre dal 1948 al 1980. Molte delle opere incluse sono essenzialmente esperimenti con il suono, utilizzando una varietà di strumenti non tradizionali tra cui circuiti fatti in casa, nastri e primi sintetizzatori. Gli artisti presenti nella compilation compongono una ricca lista dei musicisti sperimentatori più iconoclasti – forse sarebbe più opportuno sonoroclasti – e radicali:

Maryanne Amacher, Robert Ashley, Milton Babbitt, Louis e Bebe Barron, François Bayle, David Behrman, John Cage, John Chowning, Alvin Curran, Holger Czukay, Tod Dockstader, Charles Dodge, Herbert Eimert e Robert Beyer, Brian Eno, Luc Ferrari, Jon Hassell, Paul Lansky, Hugh Le Caine, Alvin Lucier, Otto Luening, Richard Maxfield, Olivier Messiaen, Musica Elettronica Viva (MEV), Pauline Oliveros, Bernard Parmegiani, Steve Reich, Terry Riley, Jean-Claude Risset, Clara Rockmore, Oskar Sala, Pierre Schaeffer, Klaus Schulze, Raymond Scott, Laurie Spiegel, Karlheinz Stockhausen, Morton Subotnick, David Tudor, Vladimir Ussachevsky, Edgard Varèse, Iannis Xenakis, La Monte Young, Joji Yuasa.

Approfondimenti

Vera Molnár, Molndrian, 1974 Computer drawing
Vera Molnár, Dialog Between Emotion and Method, 1986

Vera Molnár, (Dés)ordres ((Dis)orders), 1973. Plotter drawing, ink on paper
Jean-Claude Risset

Byon Yeongwon/Hans Werner Henze – Coesistenza di forme figure suoni

1 Febbraio 2023
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Byon Yeongwon/Hans Werner Henze – Coesistenza di forme figure suoni

Yeong Won Byon, Pangongyohan (Anti-Communist Female Souls) – 1952

Yeong Won Byon (1921), artista sud coreano. Dopo anni di intensa formazione e studio dell’impressionismo, neoimpressionismo, fauvismo e cubismo negli anni ’40, Yeong Won Byon nel 1957 arriva a sviluppare la sua idea di “arte neoformativa”. Negli anni ’60 affronta studi di psicologia e di scienze e teorizza una “coesistenza di forme/figure” che diventa una linea guida da cui generare la serie di dipinti astratti utilizzando semplici punti e linee.

Yeong Won Byon, United Existence (1965)
Yeong Won Byon, Spirit of Avant-guarde (1959)
Yeong Won Byon, The Landscape of City

Hans Werner Henze (1926 – 2012), anche lui nei primi anni cinquanta partecipò ai celebri Ferienkurse di Darmstadt fucina delle musiche d’avanguardia nella seconda metà del ‘900. Allievo di René Leibowitz, legato all’ambiente dell’avanguardia postweberniana, ma lontano dal seriassimo integrale. Il musicista tedesco è molto interessato ai temi sociali espressi con linguaggio attento al rapporto con il pubblico come in Apollo et Hyazinthus (1948).

Del 1952 è Boulevard Solitude, un dramma lirico o un’opera in un atto unico su libretto di Grete Weil tratto dall’opera teatrale di Walter Jockisch, a sua volta una moderna rivisitazione del romanzo Manon Lescaut dell’abate Prévost (1731). Il brano è una rielaborazione della storia di Manon Lescaut, già adattata operisticamente da Auber, Massenet e Puccini, e qui trasferita a Parigi nel secondo dopoguerra. È la prima opera a tutti gli effetti di Henze, che si distingue per le sue forti influenze dal jazz e dalla canzone francese dell’epoca, nonostante la matrice dodecafonica e atonale della sua formazione musicale a cui si ribellò perché gli stava stretta o gli sembrava troppo rigida.  

Henze era dichiaratamente comunista e omosessuale, dal 1953 ha vissuto a Ischia come Luchino Visconti, che scrisse per lui il libretto del suo balletto Maratona (1956). Resta famosa una dichiarazione di Henze su Luchino Visconti: “Incarnava lo charme, volendo, poteva essere molto violento e aggressivo, era circondato da gente piena di splendore e arroganza, mi sentivo fuori posto.”

Lo stile compositivo di Henze abbraccia il neo-classicismo, il jazz, la tecnica dodecafonica, lo strutturalismo e a musica aleatoria oltre alcuni aspetti della musica popolare e addirittura del rock. 

Del 1976 è We come to the River (Wir erreichen den Fluss) ispirato alla guerra del Vietnam è un’opera teatrale descritta come azioni per musica piuttosto che quale opera.

Orchestratore di grande raffinatezza e tecnica, sempre in aggiornamento nel corso degli anni. Il lirismo sempre molto teso delle sue frasi musicali denota da parte dei critici un’influenza e una linea di continuità con la musica di Alban Berg o quella di Karl Amadeus Hartmann.

Un’altra personalità di grande spessore con cui il musicista tedesco ha collaborato è stata la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann (Ruth Keller) che ha scritto per Henze i libretti del Der Prinz von Homburg (1958) e Der junge Lord (1964).

Ingeborg Bachmann – Hans Werner Henze

Nel 1976 Henze ha fondato il Cantiere Internazionale d’Arte a Montepulciano, col proposito di produrre e diffondere la Nuova musica e formare i giovani attraverso il linguaggio organizzato dei suoni. A Montepulciano fu rappresentata per la prima volta la sua opera per bambini “Pollicino” (1980). Questa favola per musica è stata composta da Henze con il preciso intento pedagogico di avvicinare i giovani alla musica d’arte.

Toccata mistica è una composizione per pianoforte del 1994.

Approfondimenti

Sottsass/Gaslini/Paci – Relazioni col tempo

31 Gennaio 2023
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Sottsass/Gaslini/Paci – Relazioni col tempo

Ettore Sottsass (1917 – 2007), Ceramiche 1957
Ettore Sottsass, Rochetti series, Bitossi (1959)

In accordo con il Movimento Artistico Arte Concreta (MAC) che attinge a forme e colori intesi come libera espressione della personale immaginazione dell’artista, la ricerca di Sottsass sul rapporto tra spazio, forma e colore si concretizza nel campo delle arti applicate: attraverso l’uso di un materiale plastico come l’argilla il designer è stato in grado di dare voce ai suoi pensieri e alle sue emozioni più profonde. 

«La ceramica è un materiale affascinante: si presenta morbida e grigia […] ma una volta purificata dal fuoco, radiante, diventa improvvisamente eterna»
Ettore Sottsass 

Ettore Sottsass, Arredamento casa Tretti (1957)

Giorgio Gaslini (1929 – 2014).

Il musicista milanese fin da giovane ha sempre avuto un approccio da sperimentatore curioso e multidisciplinare alla musica tentando una sintesi tra il jazz e il mondo della musica classica-contemporanea, fino alle commistioni con la musica popolare, la canzonetta, il cinema. Sul finire degli anni 40 Gaslini resta affascinato dagli arrangiamenti delle grandi orchestre jazz americane, Stan Kenton lo interessava tra tutti: 

“Ascoltare Stan Kenton è stata una delle esperienze più affascinanti della mia vita, le sue orchestrazioni erano stereofoniche grazie a una scrittura musicale verticale. Kenton era stato allievo di Edgard Varèse che scriveva in questo modo. Varèse diversamente dai compositori classici scriveva il suo racconto musicale cercando di fermare il tempo, di rarefarlo, attraverso piramidi di suoni diversi, creando delle macchie di colore statiche, soprattutto con la sezione degli ottoni. In questo modo il flusso orizzontale, tipico dei compositori romantici, veniva in qualche modo travolto. Attraverso la musica di Varèse sono tornato ad ascoltare la musica contemporanea approfondendo i compositori della Scuola di Vienna e Igor Stravinskij

Neppure diplomato al conservatorio nel 1957 compone la suite per ottetto Tempo e relazione op. 12, considerata una delle sue opere più significative, un vero e proprio manifesto musicale dell’approccio estetico alla Musica Totale, sintesi singolare di musica colta e jazz.

Dall’e.p. “TEMPO E RELAZIONE Op. 12”

– La Voce Del Padrone 1957 –

(ristampa in “L’Integrale – Antologia Cronologica no. 1 [1948-63]”, Soul Note 1997)

a Lento – Veloce, Giusto 

b Molto Lentamente 

c Lento Vivo 

d Moderato, Soave 

e Tempo Primo 

Basso Acustico – Giovanni Alceo Guatelli

Clarinetto, Alto Saxophone – Lorenzo Nardini

Batteria – Gil Cuppini

Flauto – Gastone Tassinari

Oboe – Mario Loschi

Piano – Giorgio Gaslini

Trombone – Ceroni Raul

Tromba – Giulio Libano

Registrato a Milano, 11 Febbraio, 1957

Le idee musicali, le riflessioni filosofiche in nuce a questo pezzo cameristico in cinque parti saranno articolate e sistematizzate nel giro di quasi venti anni da un Manifesto del 1964-1965, e poi nel saggio del 1975 intitolato appunto Musica Totale. Intuizioni, vita ed esperienze musicali nello spirito del ’68. Anche qui l’afflato multidisciplinare è evidente, la fusione tra musicisti di ambito strettamente accademico e musicisti spiccatamente jazz ad esempio, così come il collegamento tra discipline all’apparenza dissimili come la filosofia e la musica, nonostante la densa riflessione di Adorno nei suo libri di tema musicale.

Il titolo della suite sottolinea l’affinità con la fenomenologia del filosofo Enzo Paci, fondatore nel 1951 della Rivista Aut-Aut.

“L’arte è comunicazione perché toglie gli uomini dalla morte della solitudine e dalla notte dell’inconscio.”

Enzo Paci, Tempo e Relazione (Torino, Taylor, 1954).

Di Enzo Paci ricordo un libricino che ho amato molto, scoperta illuminante degli anni universitari, il suo Diario Fenomenologico edito da Il Saggiatore (1961) nella mitica collana Le Silerchie creata da Giacomo Debenedetti. Questo Diario è un raro esempio nella nostra letteratura filosofica dove un accademico, Paci insegnava Filosofia Teoretica all’università, si mette in discussione di persona o meglio attraverso l’esercizio della scrittura diaristica e di osservazione della realtà interna ed esterna a lui, applica dal vivo la fenomenologia di matrice husserliana come metodo filosofico incarnata nel quotidiano e non come arida disciplina di studio. Certo sulla scia autoanalitica delle pagine più sincere de L’Être et le Néant o angosciose de La Nausée di Sartre.

Nel 1961 Gaslini vince il Nastro d’Argento per le musiche del film di Antonioni La Notte.

La mia impressione insistente su Antonioni è che a rivedere alcuni suoi film oggi sono stucchevolmente datati, soprattutto la trilogia dell’alienazione realizzata tra il 1960 e il 1962, di cui La Notte è il secondo pannello assieme a L’Avventura e L’Eclisse. La colonna sonora scritta da Gaslini invece suona ancora adesso fresca, contemporanea, bellissima con i suoi umori neri notturni sul genere di Miles Davis che il 4 e 5 Dicembre del 1957 a Le Poste Parisien Studio di Parigi aveva sonorizzato l’angosciante Ascenseur pour l’échafaud di Louis Malle.

Riporto qui sotto un estratto della scheda redatta dal Mereghetti sul La Notte (1961) di Michelangelo Antonioni, e aggiungo che l’incapacità di trasformare il disagio esistenziale in coscienza critica da parte del regista è forse il segno più inconfondibile che le vaghezze e le ambiguità non indicavano solo una crisi apparente dei personaggi ma evidentemente erano reali, diffuse almeno in certi ambienti borghesi su cui il cinema e lo stesso Antonioni hanno campato per anni:

“Antonioni descrive una condizione di disagio esistenziale e l’ambienta dentro uno spazio che schiaccia l’individuo con il suo caos tecnologico e neocapitalistico, finendo per raccontare solo le vaghezze e le ambiguità di uno sconcerto esistenziale incapace di trasformarsi in vera coscienza critica.”

Approfondimenti

Ettore Sottsass, Bacterio Manufacturer Abet Laminati – designed 1978, manufactured 2017

Bacterio è solo uno dei tanti pattern che Sottsass ha sviluppato per Abet Laminati, produttore italiano di laminati plastici. Sottsass ha iniziato a sperimentare il materiale sui suoi Superbox nel 1966, progettando stand fieristici per Abet nel 1970.

Ettore Sottsass jr.– Disegno per i Superbox

I laminati sono diventati la tavolozza principale da cui i designer di Memphis hanno basato le loro impiallacciature di mobili e tessuti. Il motivo deriva da materiali e oggetti comuni e quotidiani: terrazzo, maglie di catena, spugne. Per Bacterio, Sottsass ha dettagliato la trama superficiale e la forma di un tempio buddista a Madurai, in India, che ha poi astratto in un campo di scarabocchi neri.

Stella/Riley – Minimalismi fluttuanti della variazione-ripetizione

30 Gennaio 2023
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Frank Stella (1936), The Marriage of Reason and Squalor II (1959)
Frank Stella, Black Study I (1968)
Frank Stella, from Black Series I (1958-1960)

Stella/Riley – Minimalismi fluttuanti della variazione-ripetizione

Terry Riley (1935) influenzato da musicisti leggendari come Coltrane e Cage, matura sempre più un’attrazione verso la musica d’avanguardia e l’improvvisazione musicale pura. Si appassiona al misticismo indiano e alle musiche orientali sotto la guida del maestro Pandit Pran Nath.

Il suo primo disco del 1960-1962 gli anni della collaborazione con Richard Maxfield, si intitola Mescalin Mix ispirato dagli esperimenti di Riley con la mescalina, in linea con “Fontana Mix” di John Cage, un’Aria per voce e nastro magnetico (1958), dedicata a Cathy Berberian. Il testo dell’Aria di Cage utilizza vocali e consonanti, parole dall’armeno, dal russo, dall’italiano, francese e inglese. La notazione consiste fondamentalmente di linee ondulate in diversi colori e 16 quadrati neri che denotano rumori vocali “non musicali”. I colori indicano diversi stili di canto, determinati nell’interpretazione del cantante. Anche qui è utile far risaltare la sinestesia di colori e suoni/rumori, una prassi filosofico-magico-poetica che rimarca il gioco plurisensoriale a fondamento della compilazione e scrittura di queste mie pagine virtuali. È nota la definizione di Cage sullo scopo spirituale della musica:

Rendere sobria e calmare la mente, così da avvicinarla all’influenza divina“.

Lo stesso Riley considerava il proprio pezzo di “musica” Mescalin Mix, il più strano che avesse mai creato, utilizzato poi dalla leggendaria coreografa Anna Halprin.

Bizzarra ma con una sua logica interna la scelta di alcuni titoli tipo Alba del collezionista di sogni planetari (1981) scritto per il Kronos Quartet.

I titoli sono complementari alla musica, anzi sono parte di essa, perché fanno parte dell’ispirazione.” Terry Riley

Del 1964 è il suo In C (per qualsiasi strumento a tastiera), che contribuisce a rendere popolare il musicista, tra gli esponenti di punta del minimalismo americano.

La particolarità del brano derivava dai 53 fraseggi musicali di cui è composto che possono essere ripetuti ad arbitrio e arrangiati a discrezione di qualsiasi musicista si assuma l’interpretazione del brano, il cui numero può variare da una performance all’altra. Basandosi sulla pulsazione continua di una singola nota, costruisce una trama di variazioni-ripetizioni, creando un flusso sonoro perpetuo.

Le indicazioni di esecuzione prescrivono anche che i componenti dell’ensemble cerchino per quanto possibile di non sfasarsi di più di due-tre frasi fra loro. I principi aleatori evidenti nella libertà affidata agli interpreti in fase d’esecuzione e nell’utilizzo dell’elettronica saranno applicati anche in A Rainbow in Curved Air (1968), Persian Surgery Dervished (1972), e in The Harp of New Albion (1986). La composizione nasce quindi con l’intento di prospettare infinite possibilità interpretative e si conferma come una pietra miliare del repertorio minimalista.

Annuncia così un nuovo stile musicale composto da frasi miste e ripetute a loop come in un mantra eterofonico della durata variabile di 45 minuti o di un’ora e mezza. L’eterofonia è una particolare forma di polifonia nella quale più musicisti eseguono contemporaneamente la stessa melodia, uno di loro rispettandone la forma originale e gli altri introducendovi piccole variazioni e ornamentazioni. Tali variazioni possono essere sia codificate che improvvisate.

Si tratta di un procedimento tipico delle civiltà musicali extraeuropee, per esempio quelle est-asiatiche o del mondo arabo, ma già in uso nell’antica Grecia. Vedi il gamelan giavanese e il gagaku giapponese.

Sempre nel 1964, l’anno di In C, Elliott Carter aveva composto il suo Concerto per pianoforte, un’opera che Stravinsky considerava un capolavoro. Nel 1965 Berio presentava Laborinthus II, e avrebbe presto iniziato la Sinfonia ultimata nel 1969 per orchestra e otto voci amplificate, un’opera classica post-seriale innovativa, con più cantanti che commentano argomenti musicali (e altri) mentre il pezzo si snoda attraverso un viaggio apparentemente nevrotico di citazioni e passaggi dissonanti. Le otto voci non sono usate in modo classico tradizionale; spesso non cantano affatto, ma parlano, sussurrano e gridano parole di Claude Lévi-Strauss, il cui Le cru et le cuit fornisce gran parte del testo, estratti dal romanzo di Samuel Beckett L’innominabile, istruzioni dagli spartiti di Gustav Mahler e altri scritti.

Karlheinz Stockhausen invece nel 1965 aveva appena finito di comporre Momente per soprano, 4 gruppi vocali e 13 strumenti (ascoltalo qua). Nel contesto di questi altri lavori e della miriade di stili e tendenze compositive che li hanno preceduti, In C stravolge l’intera idea di “progresso” musicale.

Nel 1990, in occasione del 25° anniversario della sua prima pubblicazione, Riley decide di mettere in scena una performance celebrativa di “In C” .

Nel 2015 per il 50° anniversario nasce In C Mali un album in collaborazione con Africa Express un ensemble di 17 musicisti africani che reinterpretano la storica composizione di Riley.

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