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L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia!

10 Luglio 2020
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Un mondo
Soltanto adesso, io ti guardo
Nel tuo silenzio io mi perdo
E sono niente accanto a te

Jimmy Fontana

L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia!

Scrivo questa nota a margine sulla scia del pandemonio generato dal precedente articolo sulla Liguria di Levante. Mi dicono che l’articolo non è stato ben compreso mentre ritengo sia stato capito fin troppo bene, perciò ha urtato i nervi e la suscettibilità a più di qualcuno. Avrò anche usato toni duri con accenti aspri perché è così che intendo l’attività di critico militante senza mai svaccare nella diffamazione o nella calunnia, sia chiaro. Tantomeno sono animato dal gusto sadico per le sparate a zero fini a se stesse. A quanto pare però ho toccato un nervo scoperto, forse per questo irrita e fa così male! Ho parlato tanto di territorio, mi pare pure con toni sinceramente encomiastici. Ad ogni modo non sopporto più di vedere vilipesa la nostra meravigliosa penisola dal grigiore dell’industrializzazione, dalla tracotanza parvenu, dalla volgarità diffusa, dall’ignoranza bestiale. Osservare la vertiginosa bellezza di vigne terrazzate sul mare per poi trovarsi nel bicchiere della robetta anonima senza un minimo d’imprevedibilità e senza guizzi, una bevanda al gusto d’Alka-Seltzer, lo trovo un sopruso immane, un’offesa al palato, un torto all’intelligenza delle persone. Non è più tempo di descrittori ipocriti da asili nido della degustazione dove si sfornano pinguini caca-aggettivi privi di nerbo. Basta con le sviolinate grottesche da circo equestre dei leccaculi. Fanculo con le piaggerie da filistei, con le manfrine piacione tra chi compra, chi racconta e chi vende. Bisogna avere la pompa di prendere il toro per le corna a rischio di raccattare abbagli per strada sia nelle cose che ci piacciono che in quelle che ci spiacciono. Pompei-Vintage-Poster-1955Consapevole con il detto di Lin-Chi che: “Non si critica un uovo perché non è un pollo“, colgo tuttavia qui l’occasione per rispondere ai produttori risentiti ricordando loro che sono stato invitato, non mi sono autoinvito, alla presentazione dei vini del Consorzio con la raccomandazione insistente di essere quanto più sincero nelle mie impressioni,  libero da pregiudizi di sorta. Io ritengo che il territorio di un consorzio possa crescere molto più davanti a critiche sferzanti ma costruttive che non a sviolinate marchettare come è d’uso da decenni nella pseudo-critica prezzolata la quale tiene assai più a rimpinguare le proprie tasche invece di stimolare alla ricerca, alla sperimentazione e alla libertà nelle denominazioni da cui è abituata a “scroccare” senza dare nulla in cambio se non premi fasulli tra grappoli, bicchieri, forchette, stelle, lumachine, bottiglie, scolapasta d’oro falso.

Sono pienamente consapevole che l’aspetto più urticante del mio pezzo sia l’assenza totale di critica indipendente nel nostro paese, da decenni. I tempi di Veronelli e Soldati sono stati mitizzati abbastanza in maniera mai del tutto disinteressata. Di loro persino i pubblicisti più beceri, i figuri più loschi e spregevoli dei nostri tempi grami se ne fanno paladini a spron battuto, questo giusto per dire che una volta morti ai vari Soldati, Monelli e Veronelli gli si può far dire tutto e il suo contrario, ma restano frasi fatte da Baci Perugina usate sempre a sproposito soprattutto, guarda un po’, da quelli che non li hanno mai letti. 2014_CSK_05638_0080_000(mario_puppo_finale_ligure)Difatti i produttori coccolati stucchevolmente dal pennivendolismo marchettaro nazionale, dai professionisti dell’industria del complimento come diceva Giuseppe Bonura, restano un bel po’ spaesati quando al posto di ricevere lodi sperticate e premi immeritati se la prendono sul personale davanti alle analisi critiche di qualcuno che scrive quel che pensa cioè pensa quel che scrive, con indipendenza intellettuale perché non deve dar conto ad alcuno sponsor né ad altre pressioni commerciali. Ricevono le critiche come una bastonata tra capo e collo per cui impermalositi come sono, il solo modo che hanno di difendersi è controbattere alle critiche svilendole a visioni talebane da paladino dei rettiliani che denigrano il lavoro altrui, accusandole di intemerate estremiste che offendono la dignità di chi si spacca la schiena in vigna e bla bla bla. Eppure la sostanza del mio pezzo, scritta forte e chiara, era proprio intesa a proteggere la dignità contadina di chi si fa il culo in vigna, una dignità purtroppo passata oggi di moda se non estinta del tutto, al confronto di chi invece, e sono la gran parte tra i produttori svenduti dell’intero paese, la dignità se l’è giocata da anni proprio nel barbatrucco delle tre carte in combutta con la critica trombona accomodante e un’enologia omologatrice proiettata ad azzerare l’identità dei luoghi, ad appiattire le caratteristiche dei vitigni, a manipolare il gusto dei consumatori71VJ+5ToVSL

Capisco l’orgoglio d’appartenenza a un territorio tanto unico ma io non credo di aver usato nessuna parola denigratoria o offensiva nei confronti di chi lavora – lavoro anch’io per la cronaca, perché la scrittura se intesa con serietà è un lavoro altrettanto duro, oltre a fare il ristoratore in centro a Roma, attività quest’ultima che mi permette di scrivere se, come e quando voglio. Ho solo fatto una disamina dei vini attraverso i raggi X del palato e della ragione affermando che un territorio tanto unico appunto dovrebbe rispecchiare vini altrettanto unici. Invece su 58 vini assaggiati ho trovato almeno 50 vini che sembravano un unico vino dalle maturazioni fenoliche acerbe e le malolattiche inibite, una monolitica concezione del vino esangue privo sia di sbavature quanto d’individualità.
915Q10aUyyL._AC_SY550_Io trovo molto più offensiva a questo punto l’ipocrisia della stragrande maggioranza della stampa di settore, assecondata dai produttori al seguito, che invece di esercitare una critica fondata su onestà intellettuale, conoscenza della materia, approfondimento di questioni tecnico-scientifiche, si limita solo a fare da cassa di risonanza propagandistica devolvendo premi ignobili, sorrisetti finti e contentini imbarazzanti, disabituando così nei decenni sia i produttori quanto il pubblico stesso tanto gli enotecnici all’esercizio dell’intelligenza autocritica, dell’indipendenza di pensiero, dell’autonomia di giudizio, dell’integrità di palato.

È tutto qui il motivo per cui ha fatto tanto scalpore quel che ho pensato e scritto in assoluta libertà di giudizio senza dover rendere conto a niente e a nessuno se non alla mia coscienza di scrittore/degustatore/ristoratore libertario. Non ho mai affermato che il 2% dei vini che salvavo fossero il modello da seguire ma semplicemente che si distinguevano – e menomale – da quel 98% di vini elaborati tutti allo stesso modo. Si distinguevano magari solo per un po’ di velatura o per qualche giorno di macerazione. Figurati poi se ritengo che bastano giusto questi due parametri tecnici a donare espressività e identità a un vino. Il vino è cosa ben più profonda, spiritualmente e culturalmente complessa da farsi ridurre a questioni formali, a freddi protocolli enologici o a brutali slogan da stadio tipo il trito “convenzionali” contro “naturali”.17140Ho parlato invece di un’identità e di una tradizione destoricizzate senza peraltro mitizzare i “good old times” con la retorica spiccia del “si stava meglio quando si stava peggio”, ma mi sono limitato piuttosto a mettere la pulce nell’orecchio domandando come erano fatti questi vini, da chi e perché; se c’è un legame profondo col passato oppure se il turismo commerciale e l’omologazione del gusto non abbiano definitivamente interrotto questo cordone ombelicale tra uomo-storia-paesaggio. Alcuni dei vini di quel 2% si distinguevano un po’ rispetto alla maggioranza dei vermentini anche se mi hanno dato l’impressione di vini con due piedi in una scarpa cioè vini un po’ rigidi col timore di lanciarsi senza paure di cadere, farsi male e rialzarsi, senza condizionamenti mercantili, irreggimentazioni e cosmesi enologiche. Io la degustazione l’ho fatta con i miei sensi liberi davanti ai bicchieri e l’informazione soggettiva che ne ho tratto, non universale ci mancherebbe fossi così presuntuoso, – piaccia o non piaccia – è quella di un’impostazione tra il monocorde andante e il piatto anemico perenne dove non si coglie nessunissima differenza tra un areale e l’altro, un produttore di una zona di collina o sul mare dal produttore di pianura, perché è tutto grevemente improntato ad una medesima, monolitica mano enologico-stregonesca.

Ho fatto poi un ragionamento generale sulle denominazioni di origine e le difficoltà dei
tanti attori in campo quando scrivevo:

“Tutela e protezione di un territorio vitivinicolo dovrebbero passare sempre dalle mani e dalla testa di chi lavora la vigna… Tutela e protezione riguardano la responsabilità concreta dei vignaioli pure se non è affatto semplice visto che il prezzo delle uve è determinato dal peso in campo delle grosse aziende, cooperative o cantine sociali, destinate a dettare legge imponendo il bello e il cattivo tempo alle realtà più inermi con nessuna voce in capitolo se non la costrizione di accodarsi alla legge spietata che il pesce grande mangia sempre il pesce piccolo. Purtroppo dalle denominazioni più prestigiose a quelle più oscure, il problema è sempre quello della convivenza irrealizzabile tra imbottigliatori, conferitori, produttori grossi e aziende medio-piccole quasi sempre sull’orlo della crisi di nervi.”Rapallo-Italy_Vintage Italian-Travel-Poster_JustPosters_mu1-1500x1500

È su questo punto fondamentale che avrei voluto sentire semmai il malcontento dei produttori, la loro verace indignazione, il loro sdegno feroce. Invece i produttori fanno i capricci, mostrano del risentimento da adolescenti perché qualcuno invitato da loro ad essere quanto più sincero e trasparente possibile piuttosto che ad elargire i soliti 3 bicchieri, 3 stelle, 3 baci al sedere, 3 quello che vi pare, dice pane al pane vermentino al vermentino, scrivendo a malincuore nero su bianco secondo il suo punto di vista – non secondo la Madonna di Lourdes o il Cristo Redentore -, che in un territorio tanto meraviglioso si fanno purtroppo vini snervati, vini sterili e snaturati nella sostanza.
In questi giorni di tempesta ideologica tra i vari messaggi di rimprovero e note d’approvazione, ho ricevuto la mail malinconica di un vignaiolo dei Colli di Luni. È lo sfogo amarissimo di un piccolo vignaiolo tipo David contro il gigante Golia dell’industria farmaco-enologica. La cosa è molto sconfortante ma potrebbero benissimo essere le parole avvilite d’un qualsiasi produttore di una qualsiasi zona vitivinicola d’Italia così come, a pensarci bene, se al mio pezzo sostituissi la Liguria del titolo con il Collio, il Roero, il Sannio, l’Etna, l’Alto Adige, la Gallura, Matelica, il Salento, San Gimignano etc. il succo del ragionamento non cambierebbe di una virgola, avrebbe avuto la medesima coerenza interna visto che le tristi logiche socio-economiche dei consorzi che vado a scalzare, la noia mortale dei giochi di potere tra i produttori con le solite invidie fratricide tra vicini sono ahimè le stesse ovunque, cambiano i vitigni ma il sistema d’appiattimento degli stessi è uguale per tutti e dappertutto. Da qui il titolo di questa nota a margine che estende il pezzo precedente sulla Liguria a tutta la nostra tanto bella ma quantomai disastrata terra madre Italia: L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia! 

Quanto segue in corsivo è un frammento di quel che mi scrive il produttore e mi auguro possa suonare come un monito drammatico per tanti, una chiamata alle armi culturali d’autodifesa. Sì, le sole armi efficaci sono proprio quelle culturali per difendersi dai soprusi dell’ignoranza e dal predominio del pensiero unico o gusto unico che sia. È uno sfogo che dovrebbe farci riflettere tutti, invece di fare i ragazzini offesi e continuare ad aizzare le guerre tra poveri di mente in una terra tanto ricca di civiltà, imprevedibilità, diversità:

<<Non imbottiglio come DOC perché la commissione è fatta sempre dalle stesse persone, quelle che mi trovano sempre da dire: “l’acidità dei tuoi vini è sbagliata”. Ma perché è sbagliata? io non acidifico mai (sono un pessimo cliente per chi vende prodotti enologici), questo vuol dire che l’acidità che ho è quella del Vermentino, delle mie uve. Non uso enzimi estrattori o altre cavolate perché l’uva ha già tutto quello che serve. Seguo solo il processo. E poi ancora “Il colore è troppo scuro, non rientra nei parametri”, ma quali sono questi parametri?, chi li ha scritti? Potrei continuare all’infinito.>>

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[I poster sono del grandissimo Mario Puppo quando l’illustrazione in Italia era affrontata come una vera e propria espressione artistica.]

 

Vignaioli su Facebook

22 Novembre 2019
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Vignaioli su Facebook

A Roma neppure la macchina della Scuola Guida mette la freccia, e sono quelli che dovrebbero insegnarti il codice stradale.

Ora, a quanto mi è dato di constatare, su feisbù imperversa un fottìo di produttori molto bravi a elargire spiegoni sulla teoria del quando, del dove e del come si fa o del perché dovrebbe essere fatto il vino buono, eppure poi, come mai alla prova del bicchiere tanti di loro non sono in grado di spiegare perché proprio il loro vino faccia così tanto cagare?

Sui social è tutto un infuriare di maestrini a chiacchiere sulla viticoltura del passato del presente e del futuro, ma sarebbe forse più opportuno che questi imparassero una cosa, cioè a ben fare in silenzio più che a sparlare ad alta voce.CD688F3B-E379-440B-B3AF-509080A47F04

Vignaioli su Facebook, cazzoni in vigna! Vengono in mente quei mentecatti che nelle bio sotto la voce formazione scrivono: Università della Vita.

Si possono fare tutte le cazzo di crociate dei poveri e sbraitare su tutti i social che si vuole in merito a come si coltiva la vite o su quando si fermenta l’uva e bla bla bla, ma alla fine della fiera sono sempre i vini a dire l’ultima parola e spesso dicono delle verità indiscutibili (imbarazzanti?) che sono in netto contrasto con le dissertazioni sterili, i bla bla bla mediatici e rancorosi di chi quei vini li ha fatti, con arroganza, senza la minima umiltà.

Zero umiltà e tanta arroganza che alcuni lettori di questo post non mancheranno di rilevare, a ragione, anche nell’autore dello stesso.
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Ansonaco del Giglio e Frittata d’Aglio di Campo

15 Ottobre 2016
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Sulla frittatina d’aglio selvatico (Allium ursinum*) raccolto sui campi e preparato in casa da mammà, ci berrei tanto l’Ansonaco della Famiglia Carfagna, vignaioli sull’isola del Giglio. È questo un vino d’Altura Vigneto – link: http://www.vignetoaltura.it/ – ed è superbo calice di luce liquida; mentre ne sorseggerei a litrate, voi provate solo a immaginare come scende giù facile-facile e disseti più d’un’acqua sorgente.
*Pianta bulbosa erbacea perenne, appartiene alla famiglia delle Liliaceae come il tulipano, il “giglio”, il mughetto..

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