La Diagnosi Medica come Letteratura

26 Novembre 2015
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Sarà che ho qualche frequentazione con i sacri testi di Paracelso, di Galeno, d’Ippocrite, de Il Regimen Sanitatis Salernitanum, del Thomas Browne, di Oliver Sacks. Sarà che mi son ritrovato con mia mamma ricoverata in un letto d’ospedale per una decina di giorni ed ho avuto quindi modo di rapportarmi all’approccio linguistico assai sterile, impiegatizio ed uniformato su parametri squallidamente “aziendali” di alcuni medici ed infermieri che ti riallineano d’ufficio e senza speranza all’amara, ministeriale verità di quanto siamo sempre più oggettivati in qualità/quantità di: cittadini-numero, pazienti, spettatori, contribuenti, acquirenti/consumatori; sarà che proprio in quei momenti vorticosi misti ad angoscia, confusione mentale e umore nero, leggevo a morsi e bocconi un prezioso libretto di memorie del fine letterato Ezio Raimondi:

“Una riflessione sentita è la storia segreta del nostro rapporto personale con il libro. Quando leggiamo ci portiamo dietro le nostre origini: queste origini danno un valore, una cadenza, aggiungono un significato. Un libro non è soltanto i significati che comunica, ma i significati che vi aggiungiamo, garantiti, se non dalla correttezza intellettuale, dall’intensità del sentimento, dell’emozione, dell’affetto. (…) il libro vero parla sempre al momento giusto. Lo inventa lui il momento giusto…”

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Fatto sta che nel Maelström di notifiche inarrestabili sui social mi ritrovo grazie a Twitter, catturato da questa recensione pubblicata dalla Los Angeles Review of Books che tratta un tema che mi pare quantomeno avvincente: l’uso della narrazione in contesti apparentemente estranei alla letteratura, in questo caso specifico storie di medici di diagnosi e d’ospedali. Così, rapito dall’emotività di circostanza e dal vissuto personale del momento, ho tradotto all’istante l’articolo di Brian Gittis che sottopongo subito all’attenzione di qualche sparuto ma fedelissimo trai miei lettori, sempre più pochi epperò sempre più giusti.

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Lo scorso anno Harper’s ha pubblicato un saggio molto brillante nel quale la narratrice e giornalista Heidi Julavits conduceva una sorta di investigazione medico-letteraria.
Convinta di aver subito una diagnosi errata dal proprio dottore, la Julavits decide di accollarsi tutto il materiale medico che la riguarda applicando ad esso la più flessibile abilità interpretativa da critico e da scrittore per affrontare i misteri dei malanni corporei.
Alla fine della fiera, in una sorta di spettacolo di magia, è stata in grado di venirne a capo, sciogliendo i nodi di quel che il suo dottore non era stato in grado di capire, rivelandoci così la sua convincente diagnosi di un  mondo medico troppo sclerotico, di un pensiero medico fossilizzato su una monocorde visione in bianco e nero.

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Durante lo svolgimento di questa sua investigazione la Julavits ha frequentato i corsi alla Columbia University Medical School tenuti dalla professoressa Rita Charon la quale pretende dai suoi studenti di affrontare letteratura, storia dell’arte, filosofia parallelamente ai loro specifici corsi di medicina. La Charon insegna ai dottori a non guardare esclusivamente ai sintomi ma a ragionare per racconti. I dottori, stando alle argomentazioni della Charon, sono degli interpreti e sviluppare le proprie “competenze narrative” potrebbe aiutarli a praticare la medicina con maggiore penetrazione ed empatia.

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L’autore e medico Terrence Holt l’ha messa sullo stesso piano in un’intervista radiofonica del 2005 con Lynn Neary alla National Public Radio: “La prima cosa che succede quando entra un paziente nuovo è che comincia a raccontare una storia, e tu cerchi di rappresentarti cosa questa storia significhi.”

Holt è approdato alla medicina relativamente tardi, dopo cioè aver insegnato scrittura creativa per oltre un decennio. Le storie venate di fantascienza ed horror del suo primo libro, una raccolta di racconti intitolata: Nella Valle dei Re – nonostante sia stato pubblicato mentre Holt era già medico alla University of North Carolina – non ha quasi niente a che vedere con la medicina; piuttosto questi racconti mostrano uno scrupoloso interesse su questioni di filosofia della narrazione. Sia se ambientate in un paesino del New England o in una navicella spaziale che sta approdando su Giove, queste storie esplorano tutte dei temi molto simili: le strane e più mistiche proprietà del linguaggio, il modo in cui usiamo la scrittura sia per creare senso che per trascendere il nostro mondo, i limiti della conoscenza umana. Holt è particolarmente bravo a drammatizzare l’inquietante maniera in cui il linguaggio scappa al controllo dei suoi autori, assumendo tutta una misteriosa vita per conto proprio. Nel racconto intitolato “O Logos” una parola che uccide i suoi lettori si diffonde come un microbo da una persona all’altra comparendo dalla fronte dei moribondi. Invece nel racconto che dà il titolo alla collezione un professore ricerca un’inafferrabile, antica “parola di potere” che crede possa concedergli l’immortalità. Velati di un’elegante ed austera prosa che richiama H. P. Lovecraft, Holt con i suoi astronauti, fantasmi ed egittologi maledetti dalle mummie, guida il lettore attraverso tali cerebrali quanto borgesiani labirinti.
Nel suo ultimo libro Medicina Interna, Holt continua a esplorare simili questioni d’ordine narrativo specialmente situazioni nelle quali il paziente si sforza d’approcciarsi al dottore. Appena ripubblicato in una collana tascabile economica della Liveright, Medicina Interna ci appare subito per quel che è, un memoriale dell’esperienza ospedaliera del dottor Holt il quale tuttavia chiarisce nella sua introduzione che si tratta anche di qualcosa di molto più complicato. L’obiettivo dichiarato di Holt è di rappresentare un “resoconto veritiero” di “quel che resta misterioso e molto spesso problematico circa il processo attraverso il quale si diventa medici” – eppure allo stesso tempo Holt dichiara ci sia anche qualcosa di non propriamente etico nel pubblicare storie di pazienti reali per quanto travestite da narrazione. Lasciando solo alla finzione narrativa il compito di rendere questo suo “resoconto veritiero” la soluzione di Holt è stata quella di crearsi un avatar, il Dr. Harper, lasciando agire lui, attraverso casi romanzati che cristallizzassero quali potevano essere, per lo stesso Holt, i dilemmi essenziali della sua professione di medico interno. Queste esperienze sono organizzate “secondo la logica non tanto del giornalismo quanto della parabola.” Il risultato è un libro esplicitamente etichettato come “autobiografia” che, cosa assai curiosa, dichiara nel colophon la familiare clausola editoriale: “I personaggi e le istituzioni in queste storie sono immaginari. Ogni somiglianza tra loro ed altre persone viventi o decedute, è pura coincidenza.”

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Quel che segue all’introduzione è abbastanza inequivocabilmente fin dalla prima lettura una raccolta di studi di casi medici. Molti racconti cominciano nella media come episodi di Dr. House: una paziente che il Dr. Harper ha preso in carica dal turno di notte ad esempio, con un’inesplicabile, elevata produzione di latte materno oppure mentre sta consumando una pizza che gli è appena stata consegnata, una giovane ricoverata nel reparto di psichiatria denuncia un misterioso malessere addominale che lascia nel dr. Harper un preoccupante presentimento.

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Harper è un dottore alacre e compassionevole con l’animo di un ufficiale inglese. Vede lampi di Dostoevsky e dell’Olandese Volante nelle difficili situazioni mediche e talvolta riflette sui suoi pazienti così come farebbe un critico letterario su un testo (“Era eccezionalmente ben pettinata, I suoi capelli puliti, la pelle liscia […] Tutto ciò era solo una messa-in-scena a favore di quella cosa disturbante che baluginava nelle profondità.”) Circostanze feroci sono a volte rese con intuizioni poetiche che hanno del sorprendente – un malato di cuore allo stadio terminale sta: “accerchiando lo scarico in anelli che sembravano, a quel punto, ancora così ampi che il vortice centrale era soltanto una fossetta all’orizzonte”.

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Eppure a dispetto di queste occasionali immagini poetiche, Medicina Interna, va letto più come una raccolta di saggi personali che di racconti, niente a che vedere con la prosa stilizzata e oscuramente intossicata di Nella Valle dei Re; qui la prosa è talmente più sobria e giudiziosa che è quasi facile dimenticarsi che Medicina Interna di fatto è un libro di “finzione” il che indica una certa responsabilità in questa specifica forma di libri. Il pericolo piuttosto in questo tipo di storie verosimili è che potrebbero terminare senza avere né l’astuzia della finzione né tantomeno il controllato trauma (o intrigo voyeuristico) dei fatti-più-strani-delle-stesse-finzioni. Parte di quel che generalmente rende queste storie mediche così interessanti, è quel fremito che ci da lo scrutare attraverso la tendina. Quando leggiamo di una storia medica che sfida ogni convinzione – come quando la donna al reparto psichiatrico che stava soffrendo di un misterioso dolore addominale si scopre all’analisi dei raggi X che s’era intenzionalmente punta con dozzine di siringhe attraverso le costole – siamo portati a riconciliare questi strani avvenimenti con il mondo nel quale viviamo e che può essere tanto elettrizzante, quanto può destabilizzarci o illuminarci. Proprio perché Medicina Interna sembra un libro di “saggistica”, evoca in noi questo tipo di sentimenti i quali perdono subito d’immediatezza quando però ricordiamo che niente per davvero in questo libro è mai avvenuto. Holt sembra offrirci con una mano uno stuzzicante accesso privilegiato a qualcosa che subito tende ad oscurare con l’altra. Siamo accompagnati dietro una tenda è vero, ma solo per trovare un’ulteriore tendina.

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Ad ogni modo Holt non sta qui solo a soddisfare la nostra curiosità voyeuristica riguardante gl’ospedali. Su Medicina Interna ci vuole offrire barlumi di cose attraverso il regno della medicina o addirittura della stessa realtà, quei momenti quando estreme situazioni mediche sembrano intersecarsi su un terreno più divino e spirituale. Mentre le storie mediche in genere seguono una traccia di ragionamenti portandoli a soluzione, Medicina Interna assai spesso lascia invece molto il lettore con più domande che risposte. Nel “Codice Perfetto” una rianimazione di routine appare improvvisamente come una faccenda ultraterrena quando Harper all’improvviso è fulmianato dal senso di sublime perfezione di quell’attimo – “l’inquietante” calma della stanza, la surreale “economia di gesti” delle infermiere, l’impeccabile incastro delle semplici e discrete mansioni d’ognuno. In “”Vergine di Ferro” due esami di routine nel reparto psichiatrico trasportano Harper verso un irrisolvibile paradosso nella relazione tra il corpo e la mente. In “Orfano” l’analisi di Harper sui dolori allo stomaco di una giovane produce in lui una sensazione nella quale la paziente le appare: “sospesa tra la vita e la morte […] sembrava occupasse entrambi gli stadi in una volta sola”.

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Nella storia finale che chiude il libro, “Il Grande Inquisitore” Holt affronta il mistero nell’atto stesso del raccontarlo. Una notte che si trova bloccato dalla neve in ospedale, il Dr. Hawley, un medico veterano noto a tutti per ammorbare il personale più giovane con storielle vecchie e noiose, racconta una storia d’ospedale intensamente toccante che poi alla fine risultata essere del tutto inventata. In altre parole il Dr. Hawley sta al Dr. Harper (o Holt) così come quest’ultimo sta a noi lettori per tutto lo svolgimento di Medicina Interna. Harper a questo punto si ritrova a chiedersi stupefatto circa i motivi di fondo ed il perché della storia raccontata da Hawley, la sua funzionalita non solo per l’edificazione dei giovani sottoposti del Dr. Hawley ma anche e soprattutto per lui stesso. Tutto questo porta Harper a singolari conclusioni che riguardano proprio la sua attitudine a raccontare storie la quale piuttosto che essere uno strumento di lavoro a sua disposizione risulta invece essere più un “errore” che si sente “condannato a ripetere ora e per sempre.” Così dopo aver esordito Medicina interna con una certa convinzione che le storie raccontate avrebbero potuto aiutarlo nel definire un senso positivo alla sua professione ospedaliera, Holt chiude la raccolta suggerendo che questa sua predisposizione a raccontare storie sia trascinata da una qualche strana ed oscura forza. È un’annotazione alquanto inquietante questa sulla quale terminare un libro che era tuttavia cominciato con propositi tanto più positivi e limpidi.16-700x500Ed eccoci allora riapprodare ancora una volta sui territori di Nella Valle dei Re. Il nostro narratore crede di essere lui a controllare le sue narrazioni fino a che queste non sfuggono al suo comando. In questa sua raccolta c’è un’eccezionale storia di fantasmi “Eurydike“, un uomo si risveglia dopo un’amnesia in una navicella spaziale reduce da un trauma sconosciuto. Sforzandosi di riacquistare un punto d’appoggio nella realtà, si siede di fronte a un computer e comincia a scrivere. Man mano che riordina le sue scombinate impressioni di chi possa essere e del perché si trovi lì, la storia che sta raccontando sembra assumere una vita propria, rivelando le circostanze del narratore a se stesso in una maniera quasi soprannaturale. Harper/Holt dunque a svariati milioni di miglia distante, lontano nel suo ospedale non è poi tanto diverso perche entrambi iniziano a far narrativa con lo scopo di dar senso ai propri mondi ma nel procedere su questa direzione si ritornavo condotti da forze più grandi che trattengono molto più di quanto sia possibile loro afferrare.

Presumibilmente l’idea dietro tutto ciò è di aiutare gli studenti di medicina a coltivare “competenza narrativa” è che le storie possano risultare utili ai medici come strumenti razionali, analitici e organizzativi. Le storie cioè ci aiutano a dare un senso alle cose. Ma per quanto possa assomigliare ad altre, è la grande sensibilità di Holt, la curiosità sui nostri tempi assai poco curiosi — e più in generale di questi tempi per cui la ragione sembra fallire il suo compito — a dare a Medicina Interna un sapore più insolito che altre memorie mediche più convenzionali non hanno. Come molte altre pubblicazioni dello stesso genere, anche questo è un libro avvincente, compassionevole, attraversato da una vera energia emotiva che muove a commozione. Ma, cosa assai meno comune — e forse nonostante le intenzioni iniziali del suo autore — è un libro anche molto inquietante. (Traduzione mia gae saccoccio)

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