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Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.

18 Maggio 2022
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Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.

Carlo Levi in Tutto il miele è finito (1964) scriveva: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.

Adoro guidare e perdermi di proposito, “andare e ritornare” per le strade della Sardegna. Il tragitto da Villasimius a Nurri è incantato. A un certo punto si costeggia il Lago di Mulargia che apre a panorami da Cornovaglia.

A Orroli poi c’è il nuraghe Arrubiu che è il più grande complesso nuragico della Sardegna e tra i maggiori monumenti protostorici di tutto l’occidente europeo.

A Orroli una vecchia vedova sarda da cui sono stato ospite, ricordando il marito che ci capiva di vini mi dirà: “prendeva sempre il Cagnulari sfuso buonissimo da un contadino che conosceva lui. Non ci mettevano niente se non l’uva, ma doveva essere lo sfuso perché quello etichettato non dura e non vale niente!”

Oggi con tutta la sovraesposizione dei social e le deformazioni della comunicazione mordi e fuggi di cui siamo un po’ tutti sia vittime che carnefici, il rischio di inflazionare le parole, di banalizzare i ragionamenti, di svalutare i pensieri propri e altrui, è sempre in agguato.

Quando si scrive di qualcosa o di qualcuno, specialmente in ambito di vini e vignaioli, la cosa più semplice che può succedere è quella di trasfigurare sia in positivo che in negativo, fino a mitizzare o a sminuire il soggetto o i temi di cui si scrive. L’oggettività nella scrittura è una specie di miracolo anche perché come si può pretendere di essere oggettivi in quanto soggetti che proprongono un proprio punto di vista per quanto neutro e distaccato? Poi oggi che i lettori sono sempre più distratti, sostanzialmente incapaci di concentrarsi sulla lettura, è gioco facile finire imbrigliati/imbrogliati nei tentacoli dell’analfabetismo funzionale dove chi scrive finisce per scrivere per sé e chi legge dopo un pò che capisce non c’è niente e nessuno da divinizzare o bastonare, smette di leggere e passa ad altro o meglio è il fottutissimo algoritmo della discordia a incanalarlo fra tanti, sul tema conflittuale del giorno.307A61C4-1538-4B52-9930-D4752EFDF870

Gianfranco Manca accoglie me e una coppia di assicuratori sardi. Arriviamo allo stesso momento. Deve esserci stato un disguido nella comunicazione telefonica tra loro perché quando si accorge che gli assicuratori vogliono piazzargli una consulenza lui con ironia molto fine li interrompe subito dicendo “qua adesso si parla di vino, avevo capito che eravate interessati al vino. Ormai sono vecchio e stanco. Riesco a fare una cosa per volta. Niente polizze né consulenze. Vino, solo il vino, ma soprattutto gli uomini e le donne che lo fanno.” Dopo pochi minuti di riflessioni bibliche implicite nel nome Panevino “sarò pane e sarò vino”, quando gli assicuratori capiscono che non c’è trippa per gatti se la danno a gambe levate.

Restiamo assieme io lui e sua moglie Elena, sotto il portico in ombra, affacciato su un mondo antico di sugheri frondosi, macchia mediterranea e sterminati campi da pascolo. Le Opere e i Giorni di una Sardegna quasi sospesa fuori dal tempo continentale. “A Nurri ci sono duemila cristiani e trentamila pecore.”6D64421E-2A74-4642-A20B-EF645C40ABAF

Oggi ci sono troppe interferenze e distorsioni tra chi fa il vino, chi lo vende, chi lo compra, chi ne parla e straparla. Sempre più intricato distinguere l’autenticità dall’artefatto, il personaggio genuino da chi si spara le pose e fa il personaggio. Oramai la tendenza dei nostri tempi è quella di enfatizzare ed amplificare i discorsi, i vini, i territori infiocchettati di retorica e intenzioni equivoche. Idealizzare il nulla a colpi di esagerazioni e luoghi comuni. Anche con tutte le buone intenzioni nel momento in cui inizio a scriverne il taglio narrativo sfugge di mano, può prendere la brutta piega della mitizzazzione del personaggio caratteristico o del vino unico da scoprire. Scrivere o parlare di determinate esperienze o incontri particolari fa sempre l’effetto del tradimento, come se si stesse rivelando un segreto intimo a degli estranei. Ci fa sentire sporchi, insinceri. La condivisione di un ricordo impalpabile e silenzioso in una gabbia piena di scimmie che abbaiano.

Gianfranco Manca fin da subito prende il caprone per le corna: “I vignaioli che lavorano la vigna e campano solo di vigna sono ben pochi.” I suoi riferimenti sostanziali e definitivi sono quelli di un mondo arcaico sulla soglia della civiltà contadina spazzata via dalla modernità quando lui era poco più che un ragazzino. Il “mondo parallelo” del nonno e dei suoi amici nel loggiato dove si entrava col prosciutto sotto al braccio e scorrevano litri di vino, il vino sincero di questi signori che rispecchiava fluidamente la trama interiore delle loro personalità: l’allegro il malinconico l’irruento. Era il vino frutto delle loro vigne, espressione intrinseca, profondissima del loro fare con le mani e pensare silenzioso, senza troppe chiacchiere, né sovrastrutture, né doppiezze mercantili. Un mondo magico da cui traluce la meraviglia amara di un’Italia perduta nel nulla, una civiltà del fare e della sopravvivenza che non c’è più. Certo però che questo è un taglio nostalgico-idilliaco dove dalla visione d’insieme si trascurano elementi più intollerabili quali il patriarcato maschilista, la miseria nera, l’analfabetismo, il truce, spesso sanguinoso scontro di concezioni opposte tra contadini e pastori. Tutto un complesso di contraddizioni inconciliabili che senza dubbio il progresso ha tramutato in altre forme di divergenza e nel disagio della modernità che se da una parte ha generato benessere, industrializzazione, lavoro, dall’altra ha scaturito devastazione ambientale, inquinamento, cibo di plastica, malattie del corpo e della psiche.9A0BF469-D87D-4873-965D-1C3ABE1150D6

Le vigne di Gianfranco, vigne ad alberello su pendenze piuttosto ripide, costituiscono un patrimonio vegetale di estrema bellezza in continuità con l’olivo, i mandorli, gli alberi da frutto, i fichi contorti, i boschi. Una vigna ultracentenaria promiscua presenta 40 varietà degli oltre 200 vitigni autoctoni sardi. Ogni pianta ha una sua propria identità specifica ed è a partire dalla gemma, dalle decisioni del taglio in potatura che viene suscitato il vino dell’annata in corso come frammenti psichedelici di una visione onirica. Il vino come sogno, visione recondita e astrazione di chi lo fa. Il vino collante spirituale tra gli esseri umani al di là del territorio, della storia e dei vitigni. Perché l’uomo e la donna possono anche vivere – vivono male ma vivono – senza vino, mentre il vino senza gli uomini e senza le donne non sarebbe esistito affatto.

All’imbrunire torniamo sotto al portico davanti ai sugheri e davanti a un fritto sublime di patatine e polpette di carne e finocchietto selvatico. Appare anche Hiroshi san di Hiroshima un giapponese taciturno che aiuta Gianfranco in vigna già da qualche tempo. Sorseggiamo alcuni rossi materici eppure lievi, digeribili. Rossi di profondità tridimensionale che è il riflesso della tridimensionalità dell’alberello da cui l’uva trasformata in vino trae spessore, tessuto e un balsamico effluvio d’erbe officinali e macchia mediterranea.DD15BCAD-31A6-436F-8DD7-3AC503D90906

Dopo questi rossi succosi e solari finiamo con l’Alvas, il bianco macerato, il Davide da 12.5% d’alcol contro il Golia dei rossi che raggiungevano, vedi lo Storm, anche 15.5% di gradazione alcolica. Eppure, masticandoci su un pecorino stagionato e piccantino, l’anima sottile di questo bianco ambrato riesce a sostenere i succhi gastrici e le aspettative del palato anzi ripulisce per bene la bocca, bilancia l’arsura in gola, predispone alla bevuta meditativa che sazia sia la sete che la fame.

Retallada, Vernaccia, Nuragus, Semidano, Vermentino, Malvasia, Nasco i sette vitigni vinificati nella stessa vasca in interrelazione, in lotta e integrazione reciproca tra loro perché le uve, i vitigni, le vigne sono esattamente come le comunità umane. Lo scontro delle differenze e delle specificità può generare astio, ribellione, intolleranze, blocchi ma il vignaiolo che non si limiti a schiacciare solo l’uva, il vignaiolo contadino che è animato dalla febbre di un progetto viscerale creativo, dallo scintillio di un sogno che guida la sua mano in campagna e in cantina, non c’è dubbio che farà un buon vino e un vino buono a sua volta genererà sempre intese, accordi, tolleranza, sintonia in chi lo beve e se ne nutre.

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Dettori o la serena rassegnazione della contadinità

11 Luglio 2019
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Il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini. 

Salvatore Satta

Dettori o la serena rassegnazione della contadinità

Dire Sardegna è pensare a infinite Sardegne! La Sardegna è un mosaico composto da migliaia di tessere dove ogni tessera è una rappresentazione singolare della Sardegna. Quindi la Sardegna non è una ma è la composizione vertiginosa d’una moltitudine di Sardegne, una accanto all’altra. Mille e più Sardegne, una dentro l’altra. Una con o contro l’altra.

Prendiamo la Romangia nel Nord-Ovest in Logudoro (Luogo d’oro), incastonata come un diamante di calcare tra Sassari e Castelsardo. Zona storica del Cannonau tra i comuni rivali di Sennori (dove si parla il sassarese) e Sorso (dove si parla il logudorese), con i vigneti che degradano verso gli sconfinamenti del mare nell’anfiteatro naturale che accoglie a sé l’Asinara a occidente e la Gallura a oriente. Terra di confine e senza limiti, come tutte queste Sardegne dentro la Sardegna, compenetrata di civiltà preistoriche testimoniate da Nuraghi, Menhir, pozzi sacri, pietre magiche e necropoli scavate nelle rocce affioranti (Domus de Janas di Abelazu e del Beneficio Parrocchiale, Tomba dei Giganti di Badde Nigolosu).

Terra assai fertile, difatti Porto Torres (la Turris Libissonis dei romani) poco distante sulla costa è stato un approdo di sicura economia agricola per gli antichi romani – olio, grano e vino in quantità – che l’hanno colonizzata/depredata pure se proprio in ragione di questa fertilità la Romangia è stata sempre abitata di modo che un’onda di civiltà passata veniva spazzata via dall’onda di civiltà successiva, lasciando così ben pochi resti del passaggio precedente.

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Qui in questo “unicum armonico” di terra e mare, oliveti, alberi da frutto, campi di cereali che è la Romangia, a dimostrazione della grande elezione territoriale e umana vocata alla coltivazione della vigna, pur senza l’esasperazione della monocoltura tipica dei nostri tempi, sorgeva la Cantina Sociale di Sorso – Sennori nata nel 1955 ma chiusa negli anni novanta. Leggiamo in proposito una notazione sul sito aziendale di Tenute Dettori:

In Romangia sono presenti centinaia di piccoli produttori di uva e di vino. I primi vendono ancora oggi l’uva a vinificatori sardi ed anche italiani. I secondi, vinificano ottimi vini che vendono sfusi entro sei mesi dalla vendemmia. Venditori di uva e di vino hanno ragionevoli ed immediati guadagni e non sentono la necessità di costituirsi in cooperativa.

Entriamo dunque in punta di piedi nella micro area di Badde Nigolosu per l’esattezza, dove si viene per incontrare uno dei più rigorosi e determinati “vignaioli naturali in Sardegna”: Alessandro Dettori.

So bene che lui per primo, a motivo della sua viscerale discrezione, detesta a ragion veduta quel genere di epica trombona che fa osannare a vuoto dalla critica certi fenomeni tendenziosi appena arrivati nel mondo del vino col rischio di creare dei mostri sacri all’ultima moda, hobbisti privi di cantina ma rapaci promotori di se stessi, correndo così il grave rischio di fomentare l’ennesimo maître à penser senza pensiero alcuno. Non me ne voglia perciò se in queste parole che seguono rinvenirà qualche traccia di epica – che non c’è, o se c’è non è neppure lontanamente fracassona -, ma ci tenevo molto a sottolineare una cosa, ovvero che a quanto ho potuto intuire, nella visione organica di Alessandro soprattutto in merito alla viticoltura, il perno centrale è un termine ereditato dal padre che a sua volta gli è stato trasmesso dal nonno pastore: la contadinità.

La contadinità è la fame, quindi la miseria millenaria dei padri e delle madri, che dovevano sudarsi il pane per sopravvivere un giorno in più. Certo può sembrare un termine un po’ desueto oggi, che oramai acquistiamo perfino il cibo su Amazon, ma la contadinità, ci ricorda Dettori, è un ideale etico interiore da tenere saldo a mente. Un sentimento religioso annodato di radici millenarie che si custodisce nel cuore quale dono paterno-matriarcale; un valore dello spirito; una pietra di paragone a confronto con cui considerare sempre e comunque, pur vivendo nel relativo benessere, tutto il futile attorno a noi, il disagio abissale, il chiacchiericcio vanesio, il vuoto ineluttabile legati al consumismo odierno in cui naufraghiamo.

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Immagino sia sempre questo presupposto quasi mistico della contadinità a far dire ad Alessandro Dettori di essere più interessato all’agricoltura e alla viticoltura che non al vino, tanto da fargli scrivere:

Io non seguo il mercato, produco vini che piacciono a me, vini del mio territorio, vini di Sennori.

Ed è proprio nella profonda prospettiva di vita radicata all’agricoltura e al “buon senso agronomico“, che Dettori esprime il fatalismo arcaico di una “serena rassegnazione“, il solo modo possibile per restare davvero umani in modo da affrontare il nostro presente appestato dai non-problemi (il cambiamento climatico), e risoluzioni fittizie (energie rinnovabili), quando invece, se si resta agricoltori di fatto cioè contadini nell’animo, le criticità si risolvono vis-à-vis alla fonte senza ricorrere a falsi espedienti o incatenarsi a contraffatte soluzioni di facciata. A maggior ragione che gli schemi mentali, i modelli economici degli ultimi trent’anni imposti con violenza sulle nostre vite da un’economia scellerata, andrebbero rimessi seriamente in discussione tornando alla gestione della vigna ad personam.

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Ci troviamo in collina, a circa 250 metri sul livello del mare. Lo si respira già nell’aria che qui, in Romangia, il vino è una faccenda plurisecolare, millenaria. Pure in questi primi giorni roventi di luglio, la brezza dal mare continua o il Dio Maestrale quando si degna di soffiare senza far danni, stemperano l’afa, refrigerano la terra, sanificano le foglie delle viti ad alberello che non verranno affatto cimate per condensare in sé quanta più linfa e proteggere così con l’ombra i grappoli dall’insidia del sole corrosivo, mentre risplende implacabile sul terreno bianco come neve.

La composizione del suolo friabile, drenante e ben strutturato, impreziosito di humus, è essenzialmente calcarea (calcari organogeni, calcareniti, arenarie, marne e conglomerati sabbiosi del Miocene), da cui quel bianco quasi innevato, a 35 gradi all’ombra. Un bianco accecante che rispecchia i raggi del sole inondando le vigne di una luce sovrumana anzi pre-umana, tersissima, resa ancora più metafisica dal frinire impazzito delle cicale. Luce meridiana marittima d’incontaminata finezza che distilla nell’uva tutte le fragranze della macchia mediterranea punteggiata da arbusti o piccoli alberi sempreverdi e sclerofilli (a foglie coriacee). Carrubi, lecci, oleastri, allori, lentischi, mirti, filliree, corbezzoli, alaterni, pungitopi, fichi, figu morischi cioè i fichi d’India, di cui una parte è stata estirpata poiché durante le lavorazioni in campo, ricorda ghignando con bonarietà Alessandro, col vento forte trafiggeva i lavoranti della vigna, come un vespaio di spine volanti invisibili .
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Integralmente prodotto ed imbottigliato all’origine nella zona di produzione dalle Tenute Dettori – Società Agricola Semplice, Sennori (SS), Sardegna. Italia.

Questa è l’intestazione fondamentale in etichetta a partire da cui Alessandro Dettori ha propagato, quasi fosse un modello di riscontro sicuro, un banco di prova fiscale attraverso il quale ognuno in vigna e in cantina può controprovare nella pratica la propria onestà intellettuale di vignaioli rispettosi e integri. Suggerendo così una limpidissima, più che legittima idea del vino, del dove lo si fa, di chi lo fa e come lo si fa, indicando con schietta intransigenza direttamente sulla bottiglia, una esplicita direzione anche politica-commerciale se vogliamo, a tutti i vignaioli che producono il vino da uve di provenienza delle proprie vigne e imbottigliato nelle loro stesse cantine di proprietà.IMG_2331 2

Restando sul vino, la contadinità che dicevamo prima è l’impronta del terroir sul vignaiolo il quale a sua volta imprime la sua mano al terroir che non è niente se prima non c’è una comunità di uomini e donne impegnati in un qualche mestiere artigianale che si intraprende con lo stesso fervore impetuoso di una professione di fede. La contadinità è la filigrana rupestre che valorizza in quanto bene inestimabile gl’acini sanguigni del Cannonau, del Vermentino, del Moscato, della Monica, del Pascale di Dettori, raccolti alla giusta maturazione fenolica e selezionati grappolo a grappolo così da farli macerare in svariate vasche in cemento nella cantina splendidamente essenziale, di concezione spartana e impostazione razionale.IMG_2028

La cantina essendo interrata è a coibentazione naturale. Le pareti, spesse due metri, regolano una ponderata umidità, ritmano il respiro sotterraneo di questo luogo vivente basilare alla maturazione, all’incistamento alcolico e alla mineralizzazione che salvaguardano l’anima del vino in bottiglia.

Macerazioni corte, residui zuccherini e tannino sono la cifra stilistica, la personalità dei vini di Dettori perché tannino, zuccheri residui e macerazioni corte sono anche il monogramma inciso a fuoco dal territorio su questi vini, a prescindere dallo stile personale del vignaiolo. Tuttavia sono molto determinate e assai precise le intenzioni programmatiche a casa Dettori, di far vini granitici, orgogliosamente in contrasto con l’enologia convenzionale. Il cemento poi, onnipresente/onnipotente in cantina, acutizza le cadenze ossidative, che a differenza dell’acciaio, donano al vino grande profondità espressiva, franchezza di beva, tensione aromatica, spessore tannico, persistenza, nerbo, succulenza.A82122C0-6AD9-4C99-A9AC-2B3FFCB439EF

Alcuni anni fa, assieme ad Alessandro Dettori, in una suggestiva villa Leopoldina della Valdichiana, avevamo organizzato un incontro pubblico sui suoi vini e la sua visione agricola del mondo. Fu una giornata magnetica. Il pubblico rapito all’ascolto su temi di botanica, fotosintesi, composizione dei suoli, malattia delle piante, trasformazione delle uve in vino. Un incontro cominciato il pomeriggio e finito dopo cena alle ore piccole, satolli fino alla beatitudine terrestre sorseggiando Vermentino, Cannonau, Moscato. All’indomani avevo chiesto ad Alessandro di mandarmi una breve sintesi del suo rapporto con il vino, così l’avrei potuto utilizzare ad integrazione di un pezzo che ero intenzionato a scrivere sulla giornata di assaggi appena trascorsa, dialoghi e ragionamenti fatti assieme, ma che poi non ho più scritto. Non l’ho più scritto per inconstanza; per la solita ansia primordiale che provo quando comincio a scrivere e subito mi paralizza l’anima. Un’angoscia dell’inutilità congenita alla scrittura, connessa all’idea fissa che scrivere è banalizzare la realtà, semplificando ciò che è troppo articolato e complesso per essere ridotto a parole, dette o scritte che siano.

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A distanza di alcuni anni quindi, i giorni scorsi sono stato a trovarlo in cantina. Abbiamo passeggiato assieme tra le sue vigne centenarie ad alberello sardo “sotto il sole giaguaro”. Ci siamo rinfrescati all’ombra di un lentisco di almeno trecento anni. Adesso che ne scrivo penso – forse mi autogiustifico? – che se non ne avevo più scritto allora, è perché le cose vere, le cose intense, le cose belle della vita vanno lasciate decantare nell’attesa a distanza, si mineralizzano nel tempo come i vini genuini autentici accuditi alla fresca semioscurità della cantina. Le cose importanti vanno sapute aspettare con la “serena rassegnazione” nella psiche, perché anche la scrittura è a suo modo una forma di agricoltura. Esercizi di austerità e distacco che insegnano a vivere con meno apprensioni. Perché scrivere è seminare parole, dissodare segni d’interpunzione, solcare righe, tracciare frasi, mietere silenzi, raccogliere sentimenti.

Ecco quanto mi aveva scritto Alessandro Dettori quella volta in Toscana:

“Sognavo di viaggiare, scoprire luoghi ed i suoi popoli. Studiare filosofia o fisica, magari entrambi. Un tempo volevo anche fare il missionario laico. Ecco perché il vino, la sua genesi, è per me amore ed odio.
Odio perché non mi fa andar via, non mi fa oziare. Odio perché non mi perdona mai. Amore perché è la mia unica vita nonostante qualsiasi altra cosa desideri fare.
Pertanto posso sembrare apatico? Per niente. Non voglio sbilanciarmi, non voglio perdere la testa per questa donna che non mi ama, non è mai stata lì per amare ma farsi solo amare. Ed io allora mi proteggo tenendola a distanza. Perché ho sbagliato tante volte anche in amore per non riconoscere questo tipo di relazione.”

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Mamoiada e alcuni dei suoi Cannonau urlanti di luce

28 Febbraio 2018
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You can depend on the stars and planets yeah
They’ll always tell you the truth.

Gil Scott-Heron, The Train From Washington

Mamoiada e alcuni dei suoi Cannonau urlanti di luce

La Sardegna non è un’isola ma è un continente straboccante di bellezza, luce e bontà. La Sardegna è una costellazione pulviscolare di interi mondi e pianeti gastronomici. Esempio virtuoso per tanto grigiore produttivo e tanta omologazione enologica in circolazione, di come una microzona vitivinicola circostanziata – Mamoiada appunto – possa invece esprimere un patrimonio tale di diversità, ricchezza e unicità, una infinita tavolozza di sapori distinti da una vigna all’altra cioè da un vino all’altro, nonostante all’origine ci sia uno stesso vitigno di base.

Questa stupefacente orizzontale di 14 cannonau da 14 piccoli produttori artigiani del vino a Mamoiadal’abbiamo messa in piedi il 22 gennaio scorso alla Rimessa Roscioli con il contributo sostanziale di Dario Cappelloni (Doctor Wine e vice-curatore della “Guida Essenziale ai Vini d’Italia).IMG_0742Mamoiada è un piccolo centro della Barbagia, neanche 3000 abitanti, dove si producono tra i vini più “identitari” della Sardegna. Negli ultimi anni in particolare il numero di produttori che hanno deciso di imbottigliare il proprio vino si sono moltiplicati: da tre che erano fino a 3 anni fa, arriveranno ad una ventina nel corso del 2018. La cosa davvero notevole è che la quasi totalità è composta da giovani e giovanissimi. La cena/degustazione alla Rimessa si è proposta proprio di far conoscere quasta nuova realtà con le sue diverse interpretazioni del territorio. In molti casi assaggiando vini alla loro prima uscita in bottiglia, vere e proprie anteprime, dal produttore al consumatore.
IMG_0740Questa la lista di alcuni dei vini bevuti durante la cena:

Cantina Canneddu

Cantina Vikevike di Simone Sedilesu
Cantina Luca Gungui
Cantina Francesco Cadinu
Cantina Pub Agricolo
Cantina Muzzanu
Cantina Eminas
Cantina Gaia
Cantina Montisci vitzizzai

Tenuta Bonamici
Cantina fratelli Mele
Cantina Giovanni Ladu
Cantina Osvaldo Soddu

IMG_0747Di seguito, in verde, leggiamo il resoconto vibrante in prima persona esposto dal nostro “testimone auricolare” Bruno Frisini che ha partecipato alla serata seduto a uno dei tavoli sociali che hanno visto avvicendarsi un bel pubblico di degustatori smaliziati, bevitori cioè aperti di sguardo, di mente e palato.

g.s.

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Grida di gioia a Mamoiada26733930_1503491243081375_4756239078788689504_n

Tutto è cominciato con un caffè espresso, a esser precisi si trattava di uno specialty monorigine brasiliano della regione dell’Espirito Santo. Ma questo poco importa.

Davanti il calice a tulipano con dentro lo scuro liquido, caldo, odoroso, apparentemente fuori dal proprio habitat-tazzina, ma non senza ragione privato di quest’ultima, riflettevo, con alcuni compagni di eno-scarrozzate, su ciò che ci aspettava quella sera.
Mi fu chiesto: “Mamoiada… Ma dove ci stai portando? E cosa andiamo a bere?” Spiazzato da una domanda così semplice e al contempo decisamente complessa da esaurire in poche parole, provai a unire tra loro quei pochi, anzi pochissimi pezzi che custodivo in mente di una vera e propria mappa del tesoro.Zandomeneghi, Paesaggio [3] Sapevo che Mamoiada: è un comune in provincia di Nuoro, situato nell’entroterra Sardo della Barbagia; si pratica viticoltura ad altitudini elevate; vi erano, fino a pochissimi anni orsono, tre viticoltori che imbottigliavano vino, ad oggi se ne contano ventuno; i vigneti poggiano su terreno granitico in disfacimento; il vitigno simbolo è il Cannonau; e, tanto per completare l’idea di quanto fossero frastagliate e disomogenee le informazioni in mio possesso, è terra e regno dei Mamuthones (maschere-protagoniste di un noto rito apotropaico, scandito dal ritmo di sonagli, utile ad allontanare il male e propiziare raccolti abbondanti).

set-di-mamuthonesLa risposta alla domanda fu quindi un’evidente conseguenza di come un degustatore “scafato” provi a interpretare tutti gli indizi a propria disposizione, seppur pochi e raffazzonati: “Prepariamoci a bere dei Cannonau affilati, taglienti, lame pronte a sorprendere il nostro palato, colpevole di non averli presi prima in considerazione. Creature forse ancora un po’ scontrose, ruvide, ma senza ombra di dubbio celanti verità assolute e indiscutibili, figlie di una terra per troppo tempo dimenticata da Dioniso.”426B3987 La premessa era stata formulata, bisognava solo accendere il motore dell’automobile e raggiungere il luogo dell’incontro.
“Rimessa Roscioli nasce dall’idea che i migliori cibi e vini vengano da materie prime semplici e di qualità, dalla passione e dall’eredità culturale tramandataci nel tempo.” Non poteva esserci luogo migliore per presentare al mondo un territorio così rispondente a queste poche norme utili all’orientamento del buon consumatore.
Arrivati con un cospicuo anticipo, talmente grande era la voglia di fare nuove scoperte, veniamo accolti dal padrone di casa, nonché amico fraterno, Gae Saccoccio, definito nel corso della serata vero e proprio “cane da tartufo” per la fenomenale capacità di scovare, scandagliare e dissezionare realtà tanto piccole quanto immaginifiche.sassu-centauro-2-556x600 Facciamo immediatamente la conoscenza anche di chi avrebbe mantenuto in mano il timone che ci avrebbe guidato lungo tutto l’arco della serata-traversata delle “coste” (intese ovviamente come collinari) Mamoiadine.

“Piacere, sono Dario!” Stretta la mano, notai subito una scintilla nei suoi occhi. Non sbagliai. Non fu un’impressione e di questo ne ebbi la conferma. Dario Cappelloni, firma giornalistica di spessore, passione e professionalità, si presenta a noi invitandoci ad avvinare da subito i nostri pensieri con vere e proprie campionature di esperimenti enologici (?) del Beaujolais da poco arrivati in Rimessa, sicuro che tutto ciò che da quel momento in poi sarebbe seguito, partiva da un paio di gradini più in alto (a esser buoni).

Telemaco_Signorini_001Terminato un aperitivo caratterizzato da racconti e statistiche sull’incredibile consumo procapite Sardo di birra e da qualche breve anticipazione di ciò che da lì a poco avrebbe preso forma, fanno il loro ingresso due rappresentati dei quattordici protagonisti della serata: Luca Gungui dell’omonima azienda e Pasquale Bonamici a rappresentare la Tenuta Bonamici. Due ragazzi, due coraggiosi viticoltori che ben sanno cosa vogliono dalla propria vita e di conseguenza dalla propria terra (esistono ancora luoghi dove entrambe le cose formano un’unica e inscindibile forza).IMG_0744 La serata può avere inizio.
I ritmi sono cadenzati fin da subito, ma di contro risultava impossibile tenere a bada le emozioni già dal primo istante, troppa la materia umana e vitale presente in quei bicchieri: assaggi di luce e genuinità.
Il tavolo a cui siamo seduti sembrava andare e tornare in quelle terre. Un continuo perdere lo sguardo in quel rosso che tanto ricordava la polpa del frutto, simbolo d’amore che alterna pallore e rossore come il viso degli amanti. Un amore terreno, profano, erotico, ma anche venereo, puro e sacro. Un rosso di profondità sanguigne, autentiche, terragne, un rosso che brilla della luce materna del sole, che da’ forza e inturgidisce e rassoda i propri figli.
Pareva di vedere quegli alberelli, fieri delle loro antiche pieghe, orgogliosi simboli del paradiso, stretti con le loro radici in un abbraccio voluttuoso, sotterraneo, nascosto agli occhi di chi veramente non voglia vedere. Abili cacciatori dei sensi.
Una geometria agricola che parte dal piccolo, dal dettaglio anche insignificante, per poi permettere lo sviluppo di una conoscenza autentica e sincera del paesaggio.IMG_0745 Scriveva Camporesi di una <<convergenza sinergica tra operosità creativa e visualizzazione della realtà>>.
L’ambiente sottintende l’esserci, il viverci, mentre il paesaggio altro non è che la manifestazione sensibile dell’ambiente, la realtà spaziale, sentita, una scatola comunque vuota al proprio interno. L’amenità dei campi non avrebbe alcun senso se sprovvista del rumore del trattore, del muggire dei buoi che trainano l’aratro, del profumo del mosto e della puzza degli escrementi d’animali.683951_345683 Ciò che ci circonda, ciò che da sempre ci emoziona, osservato con una prospettiva diversa. Non solo incontro tra bellezza, proporzioni, colori e forme. Piuttosto la visualizzazione della realtà attraverso un’operosità creativa.
Quello che ne vien fuori è quindi un affollato scorcio di umanità, non è solo la vista a essere mobilitata ma tutti e cinque i sensi, <<è un po’ come smarrirsi e ritrovarsi in un mondo trascorso che, inaspettato e inalterabile, è ancora all’opera accanto a noi. E ci attende, dietro l’angolo del tempo.>>

Macchiaioli-news-1024x683-1024x480La serata scorre via veloce, decisa sempre di più a marchiare indelebilmente il nostro animo. Tutto comincia a essere più chiaro. I Cannonau sono agili, vivaci, promettenti, giocano a rincorrersi e a lanciare grida di gioia. Ognuno è portatore del messaggio di chi, sporcandosi le mani tutto l’anno, li ha potuti mettere in bottiglia.
Un bicchiere dopo l’altro sfilano tutti sotto il mio naso, c’è la macchia mediterranea, l’integrità e la succulenza del frutto, la spinta dirompente di una freschezza d’alta quota accarezzata da un soffio di sale marino, una vitalità che lascia esterrefatti.
Non sembrava più arrivare la fine, non per la quantità di vino bevuta, ma per la sensazione netta, fissa e definitiva che tutto ciò non poteva non essere che un grande inizio.
I saluti sono di prassi, gli arrivederci d’obbligo.
Mai manchede una tassa e vinu!
Viva Mamoiada! Viva il Cannonau!

Bruno Frisini

Malvasia di Bosa Riserva 2011 G. Battista Columbu

8 Aprile 2017
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Malvasia di Bosa Riserva 2011 Cantina Giovanni Battista Columbu

Granuli del polline d’ape bottinatrice impastati con grumi di sale marino integrale… tutta la Sardegna in questo nettare salmastro, dense gocce d’energia solare dal fondo del bicchiere fino alle soglie del cuore e ancora oltre.

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