
Il sorriso del filosofo universale
Democrito, che ‘l mondo a caso pone.
(Dante, Inferno, IV,136)
L’autoritratto giovanile di Rembrandt come Democrito, il filosofo sorridente (1629), ritrae il grandissimo pittore ventenne la cui cera rimanda ad un incarnato livido, cadaverico addirittura. Rembrandt nei panni di se stesso giovane che assume il sorriso di Democrito d’Abdera sembra osservarci dalla quinta temporale di un teatrino d’ombre sprofondate nei mulinelli del tempo tumefatto. Le labbra socchiuse scoprono la fila superiore dei denti. Dallo sguardo disincantato, rivolgendosi inconsapevolmente ai fantasmi degli osservatori passati presenti e futuri, traluce fuori baricentro una fiammella d’ironia amara che travalica lo stesso disincanto. È una piena consapevolezza di sé; una apparente, spensierata coscienza del proprio genio pittorico, della propria missione d’artista: raffigurare il mondo degli uomini e della natura infondendo in essi una vita più vera della stessa vita, un respiro così potente e animato quasi come il miracolo della creazione racchiuso in un processo biochimico.
C’è una dossografia piuttosto nutrita sulla vita di Democrito (460-370 circa a. C.) che lo vorrebbe morto oltre i cent’anni, indifferente ai successi e alla gloria mundi. Il filosofo greco esortava alla vita contemplativa (bíos theôrêtikós) incentrata sui valori della libertà, della temperanza, della giusta misura. I titoli delle sue opere, tutte perdute nei vortici della storia, sono Grande cosmologia (attribuita da Teofrasto a Leucippo), la Piccola cosmologia (sulla fisica) e il Della serenità dell’animo (sull’etica). Di lui purtroppo ci restano solo alcuni frammenti.
Democrito, allievo di Leucippo, è tra i fondatori dell’atomismo per cui ogni cosa, dalla cenere all’anima, è composta di atomi. Nella sua cosmologia atomistica, che prevede una prospettiva materialista costituita dagli atomi e dal vuoto, tutto il resto che rientra nell’ambito delle sensazioni appartiene alla sfera soggettiva e ai capricci dell’opinione: «opinione è il colore, opinione il dolce, opinione l’amaro…».
Dalla voragine dei secoli che ci separa dal contesto vitale di Democrito, il flusso spumeggiante delle opinioni/sensazioni umane si è stratificato sempre più in una mucillagine vischiosa troppo spessa che separa la nostra identità dallo strapotere di condizionamento delle società post-industriali in cui viviamo alla ricerca strenua di temperanza, libertà e giusta misura. Il colore il dolce l’amaro, manipolati a proprio piacimento nella stanza dei bottoni dall’industria alimentare come è il caso dell’enologia, ad esempio, da opinioni puramente soggettive sono state tramutate con artifici farmacologici in caratteristiche oggettive, in valori organolettici determinati, in funzioni ritenute intrinseche a un vino specifico. Il consumatore medio sovrastato da questa oggettività artefatta si adegua inerme, incapace di distinguere con il proprio gusto personale condizionato all’origine perché il palato degli umani nell’ultimo secolo è proprietà diretta delle stesse multinazionali alimentari: manipolatrici del gusto. Maledettissime industrie della nutrizione di massa che con la scusa di sfamarci padroneggiano le nostre tendenze capricciose al dolce al salato al grasso all’amaro, all’acido, da quando siamo in fasce fino al letto di morte.
«Se cerchi la tranquillità, fai di meno» afferma un frammento folgorante del pensatore atomista. Il caso del vino naturale fatto dai vignaioli, il far meno, l’aggiungere zero ingredienti estranei se non l’uva, rappresenta un approdo ideale di larvata tranquillità. Il vino naturale ha segnato una rottura rilevante della massiccia tendenza normativa disumana e disumanizzante all’omologazione del gusto, un conato di libertà fuori dalla gabbia del banale e dell’appiattimento, dove i cosiddetti “difetti” se armonizzati al resto accrescono in complessità invece di sottrarne. Anche se di controcanto il rischio a cui può incorrere anzi in cui sta incorrendo tutto il movimento ahimè è quello di omologarsi a sua volta su atteggiamenti ripetitivi, su protocolli banalizzanti, altrettanto grigi, studiati a tavolino, convenzionali: la convenzione del naturale.
Ora la riflessione che volevo proporre a partire da Democrito, relativa all’opinionismo d’accatto che ai nostri giorni è moneta corrente più che mai in ambienti correlati alla gastronomia, dal giornalismo di settore all’ultimo dei coatti semi-analfabeti su Facebook, è di assumere un’attitudine più scanzonata nei confronti delle nostre opinioni, su noi stessi, sugli altri e sul mondo in generale. Sarebbe utile oltre che necessario, prendersi meno sul serio. Sorridere di se stessi innanzitutto senza accanirsi su posizioni rigide che non tengano conto del relativismo di fondo sotteso ad ogni percezione soggettiva. Entusiasmarsi invece di spaurirsi dinanzi alla complessità polifonica del mondo sdoppiata tra scienza e sentimento. Una complessità multiforme e spesso insondabile ai nostri sensi smarriti sulla superficie delle cose mentre, come ricorda sempre Democrito «la verità è nel profondo». Le percezioni soggettive non sono che un miraggio, una distorsione dei sensi, un’opinione arbitraria che la nostra arroganza inerpicata di parole e piagnistei ci fa presumere quali verità assolute, senza mai sondare per davvero i fondali in questo immane abisso di verità pre-umane. È bene quindi mantenere un animo virtuoso che non si restringa al chiuso orticello delle nostre opinioni ricevute, che non si sclerotizzi al tran-tran delle convinzioni indotte dall’esterno. È essenziale ispirarsi ad una visione cosmica quanto più aperta alle variabili, bendisposta ai cambi di rotta, tesa alle possibilità irregolari e alle fluttuazioni strambe perché «la patria dell’animo virtuoso è l’intero universo».
Il filosofo universale col bicchiere di vino schietto in mano sostiene un bicchiere il cui contenuto rispecchia l’universo intero. Meglio poi se è vino sfuso in un bicchiere da osteria modello Amalfi per non soggiogare all’intimidazione delle etichette. Il pensatore universale sorride soprattutto di se stesso ed è un barlume vertiginoso di consapevolezza priva di fondo che in quell’attimo in cui sorride di sé diviene più empatico anche alla coscienza del dolore o della gioia altrui. Il filosofo universale, l’uomo microcosmo dell’universo per ribadire la concezione cosmica di Democrito, sorride senza reticenze poiché realizza infine che è meno influenzabile a differenza di quanto sono suggestionabili i troppi automi umani attorno a lui proni alle opinioni di seconda mano, sacrificati alle mode del momento, ai cibi precotti, alle fake news, ai gusti farlocchi, alle sensazioni scopiazzate, alle copie migliori degli originali, ai sapori contraffatti, ai sentori codificati, agli odori truccati, ai colori insinceri, alle vinificazioni depauperate, ai bocconi rimasticati, alle spremute sterili…
«Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta»
Platone, Apologia di Socrate
Apologia dell’Eugè. Dalla parte di Eugenio Barbieri
Sabato 4 Luglio 2020.
Rivanazzano Terme, la Riva per gli oltrepadani.
Eugè: Hai presente la scena dell’uccisione del maiale in L’Albero degli Zoccoli?
Gae: Si certo! Rivedo un fuoco, la pioggia, i contadini, il freddo, il maiale destinato al suo sacrificio.
Eugè: Se ricordi bene, il maiale si spaventa per il presentimento della fine, allora entra la donna a carezzarlo, a rassicurarlo. Nella civiltà contadina il mestiere di nutrire e custodire il maiale era cura della donna. L’uomo aveva il compito di ammazzarlo. L’etimologia di “destino” non fa riferimento ad alcunché di trascendente; indica il restare fermo, sulle proprie posizioni. Nulla di più immanente!
In macchina con Eugenio Barbieri, dalla stazione di Voghera a Sanguignano, frazione di Montesegale nella valle del torrente Ardivestra, affluente della Staffora. Leggo su Uicchipèdie ‘A ‘ngeglopedije libbere: “Montesegale éte ‘nu comune tagliáne de 319 crestiáne.”
Il frammento di dialogo riportato su riflette in parte il tenore dei discorsi con l’Eugè durante la traversata in macchina. Mi racconta poi di quando faceva salami, e siamo in prossimità di Varzi la patria perduta del salame, anzi no, la patria del salame perduto.
Eugè: Fare un salame serio è molto più complesso che fare un buon vino. Bisogna smontare il porco pezzo a pezzo e ricomporlo chirurgicamente selezionando i tagli appropriati di grasso, muscolo, magro. Ancora oggi quando entro in una cantina l’olfatto mi rileva subito un’indicazione di muffe giuste e se c’è un angolino ideale per affinare i salami.
Si prosegue sull’ordine di questi ragionamenti di cultura materiale relativa ai maiali, alla millenaria civiltà contadina scomparsa quasi del tutto col boom economico. Una civiltà millenaria deturpata per sempre dall’industrializzazione degli anni ’60 del secolo scorso.
Le sere che precedevano l’uccisione del maiale erano punteggiate da notti insonni, visioni febbrili e lacrime. Un’uccisione antica come un mito di popoli senza ancora l’invenzione della scrittura. Un atto di sacrificio consustanziale al ritmo della vita contadina. Una necessità terrestre che rinnova un rito di sangue attinente alla sopravvivenza umana lungo il vortice dei secoli costellati di fame, disperazione e abbondanza.
Eugè: Il gesto feroce del norcino, la sua maestria taciturna si regge tutta nell’impugnatura del coltello, nella presa disinvolta del manico, nella autorità sacrale con cui brandisce la lama.
L’Eugè con parole asciutte e un groppo in gola qua rievocava l’ebbrezza, la sofferenza interiore di quando ammazzava otto, nove maiali l’anno. Il senso di fusione sacrificale del boia con la bestia. Una gioia ebbra intrisa di sofferenza arcaica. Un dolore graffiante pervaso anche di una specie di gioia ravvivata dai cicli cosmici delle stagioni agricole. L’uomo e l’animale. L’animale e l’uomo. L’uomo animale. L’Eugè in questo scambio di battute ritmato anche di pause riflessive, mi si manifesta davanti come un animale uomo in fuga perenne dallo spettro del passato eppure proiettato solo verso il passato, ostile al presente, impassibile rispetto al futuro.
“I sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi (…) è un’arte rara, che si tramanda di padre in figlio. L’uomo rosso si ergeva possente in mezzo allo spiazzo, e affilava il coltello. Teneva in bocca, per aver libere le mani, un grosso ago da materassaio; uno spago, infilato nella cruna, gli pendeva sul petto; e aspettava la prossima vittima. (…)Il sanaporcelle, rapido come il vento, fece un taglio col suo coltello nel fianco dell’animale: un taglio sicuro e profondo, fino alla cavità dell’addome. Il sangue sprizzò fuori, mescolandosi al fango e alla neve: ma l’uomo rosso non perse tempo: ficcò la mano fino al polso nella ferita, afferrò l’ovaia e la trasse fuori. L’ovaia delle scrofe è attaccata con un legamento all’intestino: trovata l’ovaia sinistra, si trattava di estrarre anche la destra, senza fare una seconda ferita.Il sanaporcelle non tagliò la prima ovaia, ma la fissò con il suo grosso ago, alla pelle del ventre della scrofa; e, assicuratosi cosi che non sfuggisse, cominciò con le due mani a estrarre l’intestino, dipanandolo come una matassa. Metri e metri di budella uscivano dalla ferita, rosate viola e grige, con le vene azzurre e i bioccoli di grasso giallo, all’inserzione dell’omento: ce n’era sempre ancora, pareva non dovesse finir più. Finché a un certo punto, attaccata all’intestino, compariva l’altra ovaia, quella di destra. Allora, senza usare il coltello, con uno strattone, l’uomo strappò via la ghiandola che era uscita allora, e quella che aveva appuntata alla pelle; e le buttò, senza voltarsi, dietro a sé, ai suoi cani. Erano quattro enormi maremmani bianchi, con le grandi code a pennacchio, i rossi occhi feroci, e i collari a punte di ferro, che li proteggono dai morsi dei lupi. I cani aspettavano il lancio, e prendevano al volo, nelle loro bocche, le ovaie sanguinanti e poi si chinavano a leccare il sangue sparso per terra. L’uomo non si interrompeva. Strappate le ghiandole, rificcò, pezzo a pezzo, spingendolo con le dita, l’intestino dentro il ventre, ricacciandolo a forza quando quello, gonfio d’aria come un pneumatico, stentava a rientrare. Quando tutto fu rimesso a posto, l’uomo rosso si cavò di bocca, di sotto i gran baffi, l’ago infilato, e con un punto, e un nodo da chirurgo, chiuse la ferita.”
“Non voglio scappare, non bisogna mai commettere un’ingiustizia nemmeno quando la si riceve.”
“Teofrasto, il discepolo di Aristotele considerato uno dei padri della botanica antica e della tassonomia, fu autore di uno dei primi trattati di vitivinicoltura e nella sua analisi scientifica sulla fisiologia della pianta e sui metodi di potatura, non manca di puntualizzare la peculiarità tutta greca di tenere le vigne basse.
Plinio distingue l’arbustum gallicum dall’arbustum italicum, rispetto al quale era tenuto un po’ più basso, specificando che i tralci delle viti passavano da un albero, a cui erano maritate, all’altro, formando dei festoni e disponendosi in veri e propri filari. La circostanza, nei dettagli tecnologici dell’impianto viticolo, è confermata da Varrone che, a proposito del territorio attorno a Mediolanum, ne fornisce una descrizione
praticamente uguale.Columella inoltre, propone suggerimenti su come alleggerire il peso dei tralci, nel pieno della maturità dei grappoli, sorreggendoli con appositi paletti. Le fonti si soffermano volentieri anche sul tipo di pianta madre a cui venivano consuetamente maritate le viti. Tra le preferite spiccano l’olmo, l’acero campestre, il frassino e il fico, specialmente a sud del Po, mentre in transpadana si usavano anche il tiglio, il carpino, la quercia e il corniolo. La forma di coltivazione della vite su tutore vivo, cioè il sistema detto “piantata” o “alberata”, è considerata come un’espressione della cultura vitivinicola paleo ligure e celtica nella Padania etruschizzata, in cui fu a lungo un elemento caratterizzante del paesaggio agricolo. È probabilmente a impianti di questo tipo che riconduce la presenza di vigneti, documentata in Emilia nel VII sec. a.C., dove i vinaccioli emersi dallo scavo di Via D’Azeglio a Bologna, per esempio, databili a partire da questo periodo, sono in gran parte attribuibili alla subspecie vinifera.”
Questa invece l’utilità del vino secondo Galeno, medico sommo:
“Tuttavia negli adulti è molto utile per temperare ed evacuare i residui biliari; e lo è non meno contro quella secchezza che si produce negli organi solidi nel vivente a causa di sforzi eccessivi e anche del temperamento proprio di questa età, dal momento che inumidisce e nutre ciò che è eccessivamente disseccato, e inoltre mitiga l’acredine della bile amara e la evacua attraverso il sudore e le urine.
La Salute. De sanitate tuenda – Libro I
Un mondo
Soltanto adesso, io ti guardo
Nel tuo silenzio io mi perdo
E sono niente accanto a teJimmy Fontana
L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia!
Scrivo questa nota a margine sulla scia del pandemonio generato dal precedente articolo sulla Liguria di Levante. Mi dicono che l’articolo non è stato ben compreso mentre ritengo sia stato capito fin troppo bene, perciò ha urtato i nervi e la suscettibilità a più di qualcuno. Avrò anche usato toni duri con accenti aspri perché è così che intendo l’attività di critico militante senza mai svaccare nella diffamazione o nella calunnia, sia chiaro. Tantomeno sono animato dal gusto sadico per le sparate a zero fini a se stesse. A quanto pare però ho toccato un nervo scoperto, forse per questo irrita e fa così male! Ho parlato tanto di territorio, mi pare pure con toni sinceramente encomiastici. Ad ogni modo non sopporto più di vedere vilipesa la nostra meravigliosa penisola dal grigiore dell’industrializzazione, dalla tracotanza parvenu, dalla volgarità diffusa, dall’ignoranza bestiale. Osservare la vertiginosa bellezza di vigne terrazzate sul mare per poi trovarsi nel bicchiere della robetta anonima senza un minimo d’imprevedibilità e senza guizzi, una bevanda al gusto d’Alka-Seltzer, lo trovo un sopruso immane, un’offesa al palato, un torto all’intelligenza delle persone. Non è più tempo di descrittori ipocriti da asili nido della degustazione dove si sfornano pinguini caca-aggettivi privi di nerbo. Basta con le sviolinate grottesche da circo equestre dei leccaculi. Fanculo con le piaggerie da filistei, con le manfrine piacione tra chi compra, chi racconta e chi vende. Bisogna avere la pompa di prendere il toro per le corna a rischio di raccattare abbagli per strada sia nelle cose che ci piacciono che in quelle che ci spiacciono. Consapevole con il detto di Lin-Chi che: “Non si critica un uovo perché non è un pollo“, colgo tuttavia qui l’occasione per rispondere ai produttori risentiti ricordando loro che sono stato invitato, non mi sono autoinvito, alla presentazione dei vini del Consorzio con la raccomandazione insistente di essere quanto più sincero nelle mie impressioni, libero da pregiudizi di sorta. Io ritengo che il territorio di un consorzio possa crescere molto più davanti a critiche sferzanti ma costruttive che non a sviolinate marchettare come è d’uso da decenni nella pseudo-critica prezzolata la quale tiene assai più a rimpinguare le proprie tasche invece di stimolare alla ricerca, alla sperimentazione e alla libertà nelle denominazioni da cui è abituata a “scroccare” senza dare nulla in cambio se non premi fasulli tra grappoli, bicchieri, forchette, stelle, lumachine, bottiglie, scolapasta d’oro falso.
Sono pienamente consapevole che l’aspetto più urticante del mio pezzo sia l’assenza totale di critica indipendente nel nostro paese, da decenni. I tempi di Veronelli e Soldati sono stati mitizzati abbastanza in maniera mai del tutto disinteressata. Di loro persino i pubblicisti più beceri, i figuri più loschi e spregevoli dei nostri tempi grami se ne fanno paladini a spron battuto, questo giusto per dire che una volta morti ai vari Soldati, Monelli e Veronelli gli si può far dire tutto e il suo contrario, ma restano frasi fatte da Baci Perugina usate sempre a sproposito soprattutto, guarda un po’, da quelli che non li hanno mai letti. Difatti i produttori coccolati stucchevolmente dal pennivendolismo marchettaro nazionale, dai professionisti dell’industria del complimento come diceva Giuseppe Bonura, restano un bel po’ spaesati quando al posto di ricevere lodi sperticate e premi immeritati se la prendono sul personale davanti alle analisi critiche di qualcuno che scrive quel che pensa cioè pensa quel che scrive, con indipendenza intellettuale perché non deve dar conto ad alcuno sponsor né ad altre pressioni commerciali. Ricevono le critiche come una bastonata tra capo e collo per cui impermalositi come sono, il solo modo che hanno di difendersi è controbattere alle critiche svilendole a visioni talebane da paladino dei rettiliani che denigrano il lavoro altrui, accusandole di intemerate estremiste che offendono la dignità di chi si spacca la schiena in vigna e bla bla bla. Eppure la sostanza del mio pezzo, scritta forte e chiara, era proprio intesa a proteggere la dignità contadina di chi si fa il culo in vigna, una dignità purtroppo passata oggi di moda se non estinta del tutto, al confronto di chi invece, e sono la gran parte tra i produttori svenduti dell’intero paese, la dignità se l’è giocata da anni proprio nel barbatrucco delle tre carte in combutta con la critica trombona accomodante e un’enologia omologatrice proiettata ad azzerare l’identità dei luoghi, ad appiattire le caratteristiche dei vitigni, a manipolare il gusto dei consumatori
Capisco l’orgoglio d’appartenenza a un territorio tanto unico ma io non credo di aver usato nessuna parola denigratoria o offensiva nei confronti di chi lavora – lavoro anch’io per la cronaca, perché la scrittura se intesa con serietà è un lavoro altrettanto duro, oltre a fare il ristoratore in centro a Roma, attività quest’ultima che mi permette di scrivere se, come e quando voglio. Ho solo fatto una disamina dei vini attraverso i raggi X del palato e della ragione affermando che un territorio tanto unico appunto dovrebbe rispecchiare vini altrettanto unici. Invece su 58 vini assaggiati ho trovato almeno 50 vini che sembravano un unico vino dalle maturazioni fenoliche acerbe e le malolattiche inibite, una monolitica concezione del vino esangue privo sia di sbavature quanto d’individualità.
Io trovo molto più offensiva a questo punto l’ipocrisia della stragrande maggioranza della stampa di settore, assecondata dai produttori al seguito, che invece di esercitare una critica fondata su onestà intellettuale, conoscenza della materia, approfondimento di questioni tecnico-scientifiche, si limita solo a fare da cassa di risonanza propagandistica devolvendo premi ignobili, sorrisetti finti e contentini imbarazzanti, disabituando così nei decenni sia i produttori quanto il pubblico stesso tanto gli enotecnici all’esercizio dell’intelligenza autocritica, dell’indipendenza di pensiero, dell’autonomia di giudizio, dell’integrità di palato.
È tutto qui il motivo per cui ha fatto tanto scalpore quel che ho pensato e scritto in assoluta libertà di giudizio senza dover rendere conto a niente e a nessuno se non alla mia coscienza di scrittore/degustatore/ristoratore libertario. Non ho mai affermato che il 2% dei vini che salvavo fossero il modello da seguire ma semplicemente che si distinguevano – e menomale – da quel 98% di vini elaborati tutti allo stesso modo. Si distinguevano magari solo per un po’ di velatura o per qualche giorno di macerazione. Figurati poi se ritengo che bastano giusto questi due parametri tecnici a donare espressività e identità a un vino. Il vino è cosa ben più profonda, spiritualmente e culturalmente complessa da farsi ridurre a questioni formali, a freddi protocolli enologici o a brutali slogan da stadio tipo il trito “convenzionali” contro “naturali”.Ho parlato invece di un’identità e di una tradizione destoricizzate senza peraltro mitizzare i “good old times” con la retorica spiccia del “si stava meglio quando si stava peggio”, ma mi sono limitato piuttosto a mettere la pulce nell’orecchio domandando come erano fatti questi vini, da chi e perché; se c’è un legame profondo col passato oppure se il turismo commerciale e l’omologazione del gusto non abbiano definitivamente interrotto questo cordone ombelicale tra uomo-storia-paesaggio. Alcuni dei vini di quel 2% si distinguevano un po’ rispetto alla maggioranza dei vermentini anche se mi hanno dato l’impressione di vini con due piedi in una scarpa cioè vini un po’ rigidi col timore di lanciarsi senza paure di cadere, farsi male e rialzarsi, senza condizionamenti mercantili, irreggimentazioni e cosmesi enologiche. Io la degustazione l’ho fatta con i miei sensi liberi davanti ai bicchieri e l’informazione soggettiva che ne ho tratto, non universale ci mancherebbe fossi così presuntuoso, – piaccia o non piaccia – è quella di un’impostazione tra il monocorde andante e il piatto anemico perenne dove non si coglie nessunissima differenza tra un areale e l’altro, un produttore di una zona di collina o sul mare dal produttore di pianura, perché è tutto grevemente improntato ad una medesima, monolitica mano enologico-stregonesca.
Ho fatto poi un ragionamento generale sulle denominazioni di origine e le difficoltà dei
tanti attori in campo quando scrivevo:
“Tutela e protezione di un territorio vitivinicolo dovrebbero passare sempre dalle mani e dalla testa di chi lavora la vigna… Tutela e protezione riguardano la responsabilità concreta dei vignaioli pure se non è affatto semplice visto che il prezzo delle uve è determinato dal peso in campo delle grosse aziende, cooperative o cantine sociali, destinate a dettare legge imponendo il bello e il cattivo tempo alle realtà più inermi con nessuna voce in capitolo se non la costrizione di accodarsi alla legge spietata che il pesce grande mangia sempre il pesce piccolo. Purtroppo dalle denominazioni più prestigiose a quelle più oscure, il problema è sempre quello della convivenza irrealizzabile tra imbottigliatori, conferitori, produttori grossi e aziende medio-piccole quasi sempre sull’orlo della crisi di nervi.”
È su questo punto fondamentale che avrei voluto sentire semmai il malcontento dei produttori, la loro verace indignazione, il loro sdegno feroce. Invece i produttori fanno i capricci, mostrano del risentimento da adolescenti perché qualcuno invitato da loro ad essere quanto più sincero e trasparente possibile piuttosto che ad elargire i soliti 3 bicchieri, 3 stelle, 3 baci al sedere, 3 quello che vi pare, dice pane al pane vermentino al vermentino, scrivendo a malincuore nero su bianco secondo il suo punto di vista – non secondo la Madonna di Lourdes o il Cristo Redentore -, che in un territorio tanto meraviglioso si fanno purtroppo vini snervati, vini sterili e snaturati nella sostanza.
In questi giorni di tempesta ideologica tra i vari messaggi di rimprovero e note d’approvazione, ho ricevuto la mail malinconica di un vignaiolo dei Colli di Luni. È lo sfogo amarissimo di un piccolo vignaiolo tipo David contro il gigante Golia dell’industria farmaco-enologica. La cosa è molto sconfortante ma potrebbero benissimo essere le parole avvilite d’un qualsiasi produttore di una qualsiasi zona vitivinicola d’Italia così come, a pensarci bene, se al mio pezzo sostituissi la Liguria del titolo con il Collio, il Roero, il Sannio, l’Etna, l’Alto Adige, la Gallura, Matelica, il Salento, San Gimignano etc. il succo del ragionamento non cambierebbe di una virgola, avrebbe avuto la medesima coerenza interna visto che le tristi logiche socio-economiche dei consorzi che vado a scalzare, la noia mortale dei giochi di potere tra i produttori con le solite invidie fratricide tra vicini sono ahimè le stesse ovunque, cambiano i vitigni ma il sistema d’appiattimento degli stessi è uguale per tutti e dappertutto. Da qui il titolo di questa nota a margine che estende il pezzo precedente sulla Liguria a tutta la nostra tanto bella ma quantomai disastrata terra madre Italia: L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia!
Quanto segue in corsivo è un frammento di quel che mi scrive il produttore e mi auguro possa suonare come un monito drammatico per tanti, una chiamata alle armi culturali d’autodifesa. Sì, le sole armi efficaci sono proprio quelle culturali per difendersi dai soprusi dell’ignoranza e dal predominio del pensiero unico o gusto unico che sia. È uno sfogo che dovrebbe farci riflettere tutti, invece di fare i ragazzini offesi e continuare ad aizzare le guerre tra poveri di mente in una terra tanto ricca di civiltà, imprevedibilità, diversità:
<<Non imbottiglio come DOC perché la commissione è fatta sempre dalle stesse persone, quelle che mi trovano sempre da dire: “l’acidità dei tuoi vini è sbagliata”. Ma perché è sbagliata? io non acidifico mai (sono un pessimo cliente per chi vende prodotti enologici), questo vuol dire che l’acidità che ho è quella del Vermentino, delle mie uve. Non uso enzimi estrattori o altre cavolate perché l’uva ha già tutto quello che serve. Seguo solo il processo. E poi ancora “Il colore è troppo scuro, non rientra nei parametri”, ma quali sono questi parametri?, chi li ha scritti? Potrei continuare all’infinito.>>
[I poster sono del grandissimo Mario Puppo quando l’illustrazione in Italia era affrontata come una vera e propria espressione artistica.]
La Liguria ai vignaioli, i vignaioli alla Liguria!
La prima uscita post-covid l’ho intrapresa il 2 Luglio scorso in Lunigiana. L’occasione è stata offerta dall’invito ad una presentazione ufficiale di vini liguri organizzata dal Consorzio Volontario di Tutela e Protezione vini DOC e IGT che accomuna i produttori dei Colli di Luni delle Cinque Terre delle Colline di Levanto della Liguria di Levante.
Il Frecciargento da Roma a Firenze era quasi vuoto, sterilizzatissimo. In pochi quali eravamo, smistati nei vagoni, le bocche e le narici tappate dalle mascherine, ci si adocchiava come bestiole smarrite in un sogno ammutolito. Mi è sembrato di viaggiare in una dimensione spazio-temporale alterata rispetto alla quotidianità ammassata, caciarona e iper-cinetica dei giorni pre-covid.
La degustazione si è tenuta nella sala del ristorante Da Fiorella nel borgo di Nicola. I vini in assaggio erano 58 delle annate 2018/2019 di cui ben oltre la metà a base Vermentino. Le zone di provenienza sono state suddivise tra i territori di: Luni, Castelnuovo Magra, Fosdinovo, Sarzana, Santo Stefano di Magra, Arcola, Carro, Ameglia, Sesta Godano, Bonassola, Levanto, Corniglia, Vernazza, Cinque Terre, Manarola, Monterosso, Volastra, Riomaggiore, Campiglia, Corniglia. Se i vini in assaggio erano circa 60, i produttori presenti con le loro etichette in questo elenco superavano la quarantina, un numero cospicuo non facile da tenere a bada sotto uno stesso cappello produttivo-amministrativo.
Non devo essere certo io a romanzare la bellezza mozzafiato della riviera ligure soprattutto quest’angolo magico della costa di levante. Un paesaggio che resta pur sempre un microcosmo sublime nonostante gli sforzi immani del progresso industriale, delle velleità portuali e del turismo barbarico ce l’abbiano messa tutta per devastarlo, vandalizzarlo così come è avvenuto dal secondo dopoguerra in tutta la penisola italica, isole comprese. Un promontorio collinare morfologicamente impervio composto da vertiginose lingue di terra che sprofondano nel Tirreno creando un intrico di fiordi, terrazzamenti costieri, isolette collegate al mare da dorsali di terra piantate a vigna su entrambi i lati. Un territorio strappato alle piogge scroscianti, alle scogliere ripide, incoronato dalle alpi che temperano il clima con brezze di montagna alitanti verso il mare del golfo. Unghie di terra quasi impossibili da lavorare eppure come nella migliore tradizione mediterraea vocata alla viticoltura eroica su queste dorsali aspre prosperano i vigneti, vitigni di Vermentino, Albarola o Bianchetta, Bosco, Ciliegiolo, Granaccia.
Man mano che ci si concentra con tutti i sensi nel bicchiere, il sentimento predominante sarà purtroppo sempre più qualificato da disagio, tedio, delusione. In particolar modo una domanda ossessiva mi ha perseguitato per tutta la durata della degustazione: come può essere possibile che il 98% dei vini presenti si somigliassero tutti in negativo cioè per sottrazione di buccia, di colore, di polpa, di mineralità, di spessore, di energia vitale, di personalità, a favore di una soluzione idroalcolica anonima, trasparente, giallopaglierina, sterile, piatta, indistinta?
Si sbandierano tanto le caratteristiche e le tipicità del vitigno: “il Vermentino contiene un alto grado di polifenoli quindi rischia molto l’ossidazione”, è quanto snocciolava l’enologo del Consorzio come a giustificare con frigidità professionale un uso impattante di solforosa – seppure a lui dovesse sembrare poca roba “solo tra gli 80 e i 120 mg/l” – anzi quasi scoraggiandosi al fatto che la stragrande maggioranza dei produttori non fosse industriale “mentre qui purtroppo siamo nell’artigianalità”, di certo un lapsus linguistico quel “purtroppo”, ma molto rivelatorio di una mentalità di casta, quella degli enotecnici, improntata più alle scorciatoie che ai percorsi irregolari, dove irregoralità per me è sinonimo di libertà. All’eroico assaggio di questa batteria tanto impegnativa, si escludono un 2% di vini – tra cui gli Sciacchetrà – meno irreggimentati a un’enologia tecnocratica e difatti sono proprio quei vermentini con una lieve patina di velo perché non hanno subito la falciatura delle filtrazioni sterili, vini dal colore dorato più denso da macerazione prolungata e con maggiore complessità organolettica (vedi il Lunatico della Carrecia, il Lunatica de Il Torchio, La Felce col suo Monte dei Frati e Bianco In Origine).
A fine degustazione, la magia romanzesca delle vigne a strapiombo sul mare o la poesia della viticultura eroica, lasciano miseramente il posto alla retorica stagnante dell’identità e della tradizione, in veste di vinelli annacquati e smorti, uno uguale all’altro. Imperterrito, rimango focalizzato con lo sguardo, l’olfatto e il gusto sui bicchieri, da cui ricavo che pare trattarsi piuttosto di una tradizione e un’identità destoricizzate. Un’identità e una tradizione da campagna pubblicitaria costruita ad hoc a partire dagli imbellettamenti dell’industria enologica confidente nelle pulsioni massificate di un turismo da crociera riversato sugli hotel della riviera. Parliamone eccome di identità/tradizione però bisognerebbe soprattutto chiedersi come erano questi vini, da chi erano fatti e perché, prima che arrivassero i diserbanti, i lieviti selezionati, le vigne meccanizzate, le solfitazioni spinte e le ruspe del turismo internazionale a condizionare senza pietà la produzione razionalizzata e la commercializzazione massiccia degli stessi vini da parte di enologi, proprietari terrieri, imbottigliatori, grossisti, intermediari d’uve e mosti concentrati i quali incarnano per la maggior parte di loro il proverbio che dice: “Attacca l’asino dove vuole il padrone.”
Conversando con Alessandro e Gilda de Il Torchio assieme a Walter de Battè, un vignaiolo appartato che ha deciso di restare fuori dal consorzio, Walter ci raccontava che il Vermentino, trasportato nei millenni scorsi in Liguria dai navigatori spericolati del mondo antico, lui lo interpreta come ritiene debba essere stato fatto per secoli il vino costiero mediterraneo – così ad esempio a me è capitato di assaggiarne al Giglio da uve Ansonaco – estraendone colore, sapidità, sostanza, tridimensionalità, mantenendo il pigiato sulle bucce per qualche settimana durante la fase fermentativa.
Tutela e protezione di un territorio vitivinicolo dovrebbero passare sempre dalle mani e dalla testa di chi lavora la vigna come Walter. Tutela e protezione riguardano la responsabilità concreta dei vignaioli pure se non è affatto semplice visto che il prezzo delle uve è determinato dal peso in campo delle grosse aziende, cooperative o cantine sociali, destinate a dettare legge imponendo il bello e il cattivo tempo alle realtà più inermi con nessuna voce in capitolo se non la costrizione di accodarsi alla legge spietata che il pesce grande mangia sempre il pesce piccolo. Purtroppo dalle denominazioni più prestigiose a quelle più oscure, il problema è sempre quello della convivenza irrealizzabile tra imbottigliatori, conferitori, produttori grossi e aziende medio-piccole quasi sempre sull’orlo della crisi di nervi.
Il rischio di questa sorta di monopolio strisciante da parte dei pesci più grossi è l’omologazione anche di quelli piccoli che si intruppano alla concezione del vino inespressivo fatta passare per “
tradizione” ma che in verità è solo un tradimento dell’unicità, una banalizzazione della singolarità e indipendenza di chi interpreta un’uva trasformata in vino non solo a seconda della zona specifica ma anche in base alla propria libertà espressiva, al proprio estro imbevuto di consapevolezza, esperienza e gioia sperimentale. È evidente che di vino piatto in giro per il mondo se ne produca fin troppo e molte cantine pur facendo delle bevande sconfortanti e ruffiane che fanno l’occhiolino al consumatore meno avveduto, il vino alla fin fine resta invenduto a migliaia di bottiglie. Tanto vale sentirsi liberi di fare e provare a vendere il proprio vino allora, che dovrebbe sempre essere il riflesso di chi lo fa e dove lo si fa. Un vino meritevole cioè di concedergli il tempo giusto di affinarsi senza alcuna intermediazione invasiva tra tecnici aridi o consulenti vari che progettano a tavolino vini da profitto mordi e fuggi dell’annata, in modo da liberare le cantine quanto prima possibile per far spazio senza sosta all’annata successiva e così via, a catena di montaggio.In terrazza affacciati sul borgo medioevale Nicola di Ortonovo con gli ulivi che digradano verso la Val di Magra, per ritrovare finalmente un’acidità tagliente che aprisse lo stomaco e predisponesse ai succhi gastrici durante il pranzo che intervallava la degustazione dei sessanta vini, abbiamo stappato una Cantillon palpitante di 5 anni, ed è stata una vera e propria festa per il palato che a quel punto necessitava solo di essere rinfrescata con una boccata di tensione, succulenza, vibrazione, ossigeno. E sorseggiando birra acida, ripensavo con mestizia al fatto che di questa quarantina di produttori, quelli più propensi ad una concezione di vino davvero territoriale si contavano sulle dita di una mano: Il Torchio, La Felce, Possa e due fuori dal coro: Prima Terra e Terra della Luna.
C’è da dire che la questione della viticoltura in Liguria così come nelle zone vertiginose di alta montagna non è facilitata per nulla dalla lavorazione in vigna per cui tanti giovani sanno bene che riescono ad ottenere guadagni più immediati e senza troppi sacrifici con gli affitti degli appartamenti e delle case ereditate dai nonni alle Cinque Terre, gli stessi nonni che magari hanno sgobbato tutta una vita su quegli appezzamenti faticosi, strappando le zolle all’erosione di vento e pioggia. È gioco facile da qui l’abbandono alla malora delle terre o l’affitto a qualche azienda rapace con tanti capitali da investire ma con nessuna vera idea di vino autentico se non le cantine gigantesche iper-tecnologiche innalzate in pianura nelle zone industriali contigue alle città. E talvolta sono vigne incredibili che strapiombano sul mare da cui verrebbero fuori senza dubbio dei vini singolari, se solo ci fossero dietro vignaioli cazzuti con una visione unica e il manico appropriato per incarnare in un vino unico fatto in vigna, la propria visione mediterranea della vite ovvero della vita.
Come spesso accade in questo tipo di presentazioni con batterie infinite di vini, ci si fossilizza tutti al solito sulla degustazione organolettica, spesso velleitaria, monopolizzata dalla tediosa manciata di descrittori grotteschi da corso AIS, senza soffermarsi neanche un secondo sulle questioni davvero fondamentali: le lavorazioni manuali in vigna, l’approccio sostenibile ad un’agricoltura olistica non invasiva, la fertilità dei suoli, l’armonia vegetale delle viti, l’integrità uomo-terra, gli equilibri instabili dell’ecosistema, il surriscaldamento del pianeta con tutte le conseguenze politiche, economiche e sociali che questo si trascina dietro. Non era un caso infine che la tipologia di vino più espressiva di tutta la batteria fosse rappresentata dagli Sciacchetrà fluttuanti tra il dolce e il salmastro, l’ossidazione e la densità, proprio per questa fatica nella lavorazione che si portano dietro fatta di raccolte accuratamente scelte a mano, d’appassimento e d’attesa mansueta.
Alla fine della fiera non si può credere contemporaneamente che la terra sia piatta e sferica, così come non si può brandire ai quattro venti lo slogan della territorialità se i vitigni di una zona produttiva trasformati in grigia soluzione idroalcolica per bieche ragioni commerciali si somigliano tutti senza lontanamente manifestare né personalità né espressività né profondità né complessità né verità. Il vino politico che mette tutti d’amore e d’accordo è un’illusione. Così come è una cagata pazzesca la questione della terra piatta. Il vino semmai è lotta per la conferma dell’identità del vignaiolo che l’ha prodotto il quale a sua volta riflette l’affermazione del territorio sul vino e su lui vignaiolo fusi in una perfetta coesistenza di antropologia vegetale. Il rischio deleterio che un solo enologo faccia il medesimo vino preciso sputato a tutte le aziende di una denominazione è invece quanto di più lontano dall’identità di un terroir e dalla imprevedibilità del gusto, un’imprevedibilità che per me è il segreto finale della fermentazione alcolica, la sfuggente/struggente bellezza interiore del gusto.
Per come la vedo io quindi senza vignaioli di carattere non c’è e non ci sarà mai nessun vino davvero caratteristico ovvero territoriale. Senza vignaioli c’è solo un prodotto finito col nome “vino” scritto in etichetta utile a rappresentare una forma vuota, votata all’utilitarismo spiccio ma che non è affatto vino nella sostanza tanto è impostato su protocolli preconfezionati, dosaggi di ingredienti farmaco-enologici, schematismi da piccoli chimici prestati all’inferno dell’industrializzazione del sapore e alla manipolazione del palato.
Mercoledì 19 Febbraio da Porthos ho partecipato al primo di due seminari dedicati alla “fermentazione spontanea: competenza nell’imprevedibilità”.
Bordeaux segreta, il segreto di Bordeaux
Prima del Natale appena trascorso (13 dicembre 2019), in collaborazione con Matteo Targhini & Roberto Venuta, alla Rimessa Roscioli abbiamo organizzato una serata tra pochi intimi: Bordeaux segreta il segreto di Bordeaux, focalizzata su una sola annata, la 1975. Si è stappata un’orizzontale di alcuni Petit Bordeaux che a dispetto dell’aggettivo “petit” si sono dimostrati invece alla prova del bicchiere o del decanter, vini di “grandissima” stoffa, persistenza gloriosa, complessità progressiva man mano che passavano le ore, nonostante cioè i 44 anni di separazione temporale tra le bottiglie e i nostri palati contemporanei.
Il focus della serata, con una puntatina a Graves (Château Haut Bailly, Pessac Leognan), era il Médoc, un’area di lagune costiere, dune di sabbia, foreste di pini dove l’oceano entra nella terra o la terra si fa oceano di vigne con le prestigiose denominazioni di Pauillac, Margaux, Saint-Estèphe e Saint-Julien.
Tra la costa atlantica e l’ampio estuario della Gironda, il Médoc si presenta a tutti gli effetti con la conformazione di una penisola. Si estende per 80 chilometri a nord-ovest dalla città di Bordeaux fino alla Pointe de Grave. Con Graves e Pessac-Léognan – a sud della città – costituisce la cosiddetta Riva Sinistra della regione di Bordeaux.
Nel corso dei millenni, i fiumi Garonna e Dordogna (fusi nell’estuario della Gironda) hanno trasportato grandi quantità di limo e ghiaia ricchi di minerali dalle loro rispettive fonti nei Pirenei e nel Massiccio Centrale. Questi depositi si sono accumulati sul lato occidentale dell’estuario della Gironda (in cui convergono i due fiumi), formando la penisola che da un punto di vista geologico sostanzia vini di mineralità fluviale e oceanica così come mostrato alla prova del bicchiere da questa illuminante orizzontale di vini del 1975È stata una degustazione memorabile assieme ai dipnosofisti Matteo & Roberto. Una serata in cui abbiamo bevuto 7 vini per 7 che fa 49 vini diversi. 49 prospettive differenti sulla capacità d’invecchiamento, maturazione e vitalità espressiva del Bordeaux prima scaraffato e poi messo nel bicchiere. Vini nobili in abbinamento alla cucina povera romana: trippa, rigatoni con la pajata, pancia di maiale con la polenta. È proprio questo il segreto di Bordeaux che, senza necessariamente riempirsi la bocca e svuotare il conto in banca con nomi di Châteaux altisonanti e senza, ça va sans dire, marmellatoni parkeriano/zabaionici, con poca spesa e tanta resa si può bere alla grande, e grandi, grandissimi Petit Bordeaux. Evviva i Dipnosofisti!
• Château Roquegrave 1975 (Medoc)
• Château Haut Bailly 1975 (Pessac Leognan)
• Château Tour Haut Caussan 1975 (Medoc) Magnum
• Château Siran 1975 (Margaux)
• Château Les Ormes de Pez 1975 (Saint Estephe)
• Châteaux Poujeaux 1975 (Moulis-en-Médoc)
• Château Saint Pierre Sevaistre 1975 (Saint Julien)
Château Roquegrave 1975 (Medoc)
Le vigne dello Château sono situate nel punto più alto del comune di Valeyrac da dove si domina la Gironda. Suoli rocciosi così come indica il nome dello Château di proprietà di Pierre-Yves Joannon.
Château Haut Bailly 1975 (Pessac Leognan)
Con Château Haut-Bailly siamo nel cuore della regione storica del Graves. Archivi antichi documentano già nel 1461 queste terre erano considerate eccellenti per la coltivazione della vite. Il vigneto di Haut-Bailly come lo conosciamo noi oggi iniziò a prendere forma con la famiglia Daitze dal 1530. La tenuta rimase alla famiglia Daitze per cento anni fino al 1630, quando fu acquistata da Firmin Le Bailly e Nicolas de Leuvarde, ricchi banchieri parigini e amanti dei vini di Graves. Nel 1736, fu l’irlandese Thomas Barton a diventarne il proprietario. La sua forte rete mercantile gli ha permesso di creare il mito commerciale sulla qualità di Château Haut-Bailly in un momento in cui il “claret” francese stava cominciando a diventare famoso in Inghilterra e in Irlanda. Nel corso del XVIII secolo i proprietari potenti, ben collegati e ambiziosi hanno portato Haut-Bailly a nuove vette, tra cui Christophe Lafaurie de Monbadon e suo figlio Laurent che nel 1805 diventarono Sindaci di Bordeaux. Nel 1872, Alcide Bellot des Minières acquistò la tenuta e costruì l’imponente castello di pietra che c’è ancora adesso. Lui ha aperto la strada a un approccio preciso e guidato dalla scienza alla viticoltura, diventando una figura leggendaria ampiamente conosciuta come il “Re dei viticoltori”. Grazie all’incredibile spinta di Alcide, Haut-Bailly ha vissuto un notevole periodo d’oro alla pari di Lafite, Latour, Margaux e Haut-Brion. Dopo la morte di Alcide, Haut-Bailly ha avuto un periodo di forte instabilità fino 1955 quando è stata acquistata da Daniel Sanders che assieme al figlio hanno riportato Haut-Bailly agli antichi splendori. Nel 1953 la proprietà è stata classificata come “Cru Classé de Graves”.
Château Tour Haut Caussan 1975 (Medoc)
Una Magnum. Siamo nell’Haut Medoc, lo Chateau del mulino a vento. Situata nella parte più settentrionale del Medoc lo Château appartiene alla stessa famiglia i Courrian fin dal 1877 le cui origini sono attestate nella regione di Bordeaux già dal 1634. 17 ettari sulla Riva Sinistra, i vigneti sono al 50% Cabernet Sauvignon e al 50% Merlot. Il suolo è costituito da terreni argillosi, calcarei e ghiaiosi. Possiamo dividere i vigneti in due blocchi ideali con la parte migliore localizzata non troppo lontano da Chateau Potensac.
Château Siran 1975 (Margaux)
Il 14 settembre 1428, Guilhem de Siran prestò giuramento feudale nella chiesa di Macau all’abate di Sainte-Croix de Bordeaux, a cui era attaccata la parrocchia. Alla fine del XVII secolo, l’azienda stava già producendo vino e avrebbe goduto di un’ottima reputazione nel XVIII secolo, in un momento in cui la famiglia Miailhe si stabilì a Bordeaux come mediatori di vino, un titolo attribuito loro da concessione reale. Fu nel XIX secolo, il 14 gennaio 1859 per l’esattezza, che il castello fu acquisito dall’attuale famiglia. Il loro antenato, Léo Barbier, acquistò la proprietà per 100.000 franchi dal conte e dalla contessa de Toulouse-Lautrec, i bisnonni del grande pittore Henri de Toulouse-Lautrec. Da quel momento, generazioni della stessa famiglia si sono succedute in uno spirito di rispetto per la tradizione vitivinicola della famiglia. Château Siran è una delle rare proprietà vinicole di Bordeaux che appartengono alla stessa famiglia per oltre 150 anni. Siamo nell’appellation Margaux, qui, i suoli sono costituiti principalmente da ghiaia e ciottoli, che trattengono pochissima acqua piovana. Le radici delle viti scavano molto nel sottosuolo per trovare il loro nutrimento, facendo sì che le viti subiscano il necessario “stress idrico”, essenziale alla produzione di vini dal grande carattere. Si pratica una viticoltura ecologicamente responsabile fin dagli anni 2000 e si utilizzano prodotti biologici allo scopo di ridurre drasticamente l’uso di prodotti fitosanitari, ora limitati alla sola lotta contro l’oidio. Siran consiste di 88 ettari, un ecosistema inteso alla biodiversità favorito da un ambiente di boschi, prati e stagni, insieme a un frutteto confinante con un vigneto di 25 ettari.
Château Les Ormes de Pez 1975 (Saint Estephe)
Il castello e gli edifici risalgono al 1792, costruito dopo la divisione e la vendita del castello di Pez a seguito della rivoluzione francese. Nel corso del XIX secolo fu di proprietà di Marcel Alibert, anche proprietario di Château Belgrave, fino a quando non fu venduto nel 1927 alla Société Civile du Haut Médoc. Problemi finanziari costrinsero la proprietà a essere venduta a Jean-Charles Cazes nel 1930, che la passò a suo figlio André Cazes. Ad oggi la tenuta è di proprietà della famiglia Cazes, proprietaria anche di Château Lynch-Bages. Per molti anni fino al 1981 le vinificazioni sono state fatte presso Lynch-Bages.
Châteaux Poujeaux 1975 (Moulis-en-Médoc)
Chateau Poujeaux ha una storia interessante che può essere fatta risalire al XVI secolo. All’epoca, il signore di Château Latour a Pauillac, Gaston De L’Isle, era proprietario della zona. È stato sempre lui anche il responsabile della costruzione del classico Château de la Riviere a Fronsac. Durante il mandato di De L’Isle, la tenuta Moulis era conosciuta come La Salle de Poujeaux. Nel corso dei secoli, a Chateau Poujeaux, come in numerose tenute di Bordeaux, si sono avvicendati una moltitudine di proprietari.
Solo nel 1921 la famiglia Theil ha riportato a razionalità la proprietà per arrivare alla attuale famiglia Cuvelier che sostiene pratiche di viticoltura sostenibile. Hanno anche adottato un approccio di gestione dei vigneti in biologico e stanno prendendo in considerazione anche l’agricoltura biodinamica come nel Clos Fourtet. Moulis di Chateau Poujeaux consiste in 68 ettari ed è coltivato al 50% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 5% Cabernet Franc e 5% Petit Verdot.
Château Saint Pierre Sevaistre 1975 (Saint Julien)
Lo Château Sevaistre ha una storia che origina nel XVII secolo, il primo impianto è del 1693. A quel tempo la famiglia De Cheverry possedeva i vigneti sulla Riva Sinistra che un secolo dopo si chiamerà Saint Pierre dal nome omonimo del barone che nel 1767 acquisterà la proprietà. Fino alla sua morte nel 1832 la proprietà è stata divisa in due vigneti separati di Saint Julien per i figli del barone da cui sono nati Chateau Saint-Pierre Bontemps e Chateau Saint Pierre Sevaistre fino al 1920 quando l’olandese Van Den Bussche ha acquistato entrambi riunendoli sotto un unico nome. Dal 1982 la proprietà è finita nelle mani della famiglia Martin già proprietari sempre a Saint Julien di Chateau Gloria fino ad arrivare ai giorni nostri che vede Jean-Louis Triaud quale proprietario sia di Chateau Sevaistre che di Chateau Gloria, tra i primi produttori nel Medoc ad utilizzare immagini satellitari per identificare la maturità di raccolta dell’uva nelle parcelle di vigna.
Ora lascio la parola a Targhini a Venuta a Desideri a Paparello, che hanno partecipato alla serata, allegando qui di seguito le loro note di degustazione e impressioni varie.
Federico Desideri
Un viaggio nel tempo, nel Bordeaux che non ti aspetti, annata 1975.
Dico che non ti aspetti perché la realtà odierna è molto lontana da quello che abbiamo trovato nei calici di questa sera alla Rimessa.
Il filo conduttore in tutti i 7 assaggi è ben delineato, ovvero ci siamo trovati davanti tutti vini liberi di esprimere il proprio territorio.
Non può essere un caso che tutti i vini dei piccoli Château in assaggio, si siano concessi in maniera incredibilmente mutevole minuto dopo minuto.
In particolare nel Tour Haut Caussan.
Appena versato sembra chiuso e invaso dai tipici sentori di Brett come Straccio bagnato, stalla e fumo ma è il tempo e l’ossigeno a ribaltare completamente in positivo l’assaggio.
Il vino rinasce e perde, incredibilmente, i sentori iniziali per dare sfogo ad un continuo e piacevole mutamento; sentori di bosco d’autunno pieno di humus, castagne e muschio cedono il posto prima a piacevoli note ematiche e poi al frutto rosso, fresco, grazie all’incredibile acidità che ancora ha questo 1975.
Passano i minuti e il vino ricomincia da dove siamo partiti, come una giostra ripropone in sequenza tutti i suoi 7 forse 8 volti.
Roberto Venuta
Château Roquegrave:
Shock all’apertura… poi sappiamo com’è andata.
Spadaccino verticale tutto in acidità, sopravanza un tannino in papillon.
Haut Bailly:
La bottiglia più femminile. Colore leggermente più pallido. Foglioline di menta fresca, tannino da Pessac, quindi puttanello…
La Tour Haut Cassan:
La bottiglia del cuore insieme all’ultimo vino in degustazione.
Leggere note di cassis. Colpisce la straordinaria eleganza del frutto come per Poujeaux, acidità e tannino si fondono perfettamente in un abbraccio che rimane tale anche in deglutizione dopo una decina ed oltre di secondi.
Siran e De Pez:
Non ricordo molto poiché pure se in grande forma, sono le 2 bottiglie che hanno colpito meno il mio cuore.
Château Poujeax:
Leggerissima nota di terra cruda, legno di cedro. È il vino che mantiene meglio lo status di Bordeaux, rispetto agli altri che borgogneggiavano dopo 40 anni (e lo dico da amante di Burgundy, per cui mi pare un’investitura eccezionale.)
Château San PIerre Sevaistre:
Considerato non troppo per l’affaticamento dei partecipanti ormai all’ultimo vino, mi è sembrato un Bordeaux straordinario: acidità pazzesca, eleganza idem, le componenti vegetali erano perfette. Nota leggerissima di funghi terrosi.
Conclusioni con cui rappresentare al meglio la degustazione:
a) 1975 = annata eccellente
b) ha colpito la freschezza assoluta della batteria
c) il colore come per l’acidità hanno mostrato una forma straordinaria
d) il dentro/fuori indicato da Matteo Targhini, assoluta novità nel panorama delle degustazioni, è stato sorprendente.
Contrariamente a quanto pensassi,” il fuori” ha abbassato l’acidità a favore di un frutto che saliva prepotentemente croccante e trasformava i borgogneggianti bordeaux del “dentro” in classici Bordeaux.
Matteo Targhini
1975 è il millesimo Highlander di Bordeaux: le creature nate a Bordeaux in Rive Gauche nel 1975 sono nette, nitide, pochi fronzoli, dirette, senza giri di parole. È una danza tra le calde e rassicuranti note di Mamma Merlot (ciliegia, caramello, rose, viole e liquirizia) e le vibranti e rustiche note di Papà Cabernet Sauvignon (cassis, mallo di noce e cedri verdi), con le fresche note di Nonno Cabernet Franc ad accompagnare (menta di campo, eucalipto). Basta saper ascoltare per capire il “perché” del blend: questa è la straordinaria Famiglia di Bordeaux. Al termine del ballo tutti in salotto ad ascoltare le storie di famiglia tra un sigaro e un diafano infuso di caffè di arabica tostato, quasi verde con una spolverata di cacao, tra straordinari terziari fume’ che ricordano i falò agresti: la barrique a Bordeaux accompagna, come la batteria nel jazz.
I Petit Château: sono l’inizio e la fine, sempre in punta di piedi, sempre a chiedere “permesso”. Solo per anime delicate. La profonda e delicata leggerezza.
Château Roquegrave 1975 (Médoc): sull’uscio una Madame, la quota di Mamma Merlot è alta, l’abbraccio è dolce, le ciliegie, le amarene e le marasche, ed è “sofisticato” da travolgenti note di caramello, bergamotto e chiodi di garofano. Il frutto è caramellato con lo sguardo rivolto al di là del fiume, a Pomerol. Più respira e più ringiovanisce, è arrivato il momento di Mago Merlino, quasi ritorna in vigna. In un batter d’ali (non di insetto impollinatore ossessivo-compulsivo, ma di gabbiano). Mamma Merlot lascia il palcoscenico a Papà Cab. Il frutto si trasforma, domina il cassis, con una trama eterea e finemente vegetale, con lo sguardo rivolto alla finitima Saint Estephe. Uno nell’Uno.
Château Haut Bailly 1975 (Pessac Leognan): l’entrata è fiabesca, una Madame sinuosa e sofisticata che passeggia tra frutti, fiori e spezie, le ciliegie accarezzate dai petali di rose e viole impreziosite dai chiodi di garofano. Le ammalianti carezze fruttate e le flessuose note speziate ti seducono e ti travolgono. A Pessac Leognan le speziature sono orientali, il suadente lascito della principessa Mihrimah Sultan: La Belle Dame Sans Regrets.
Château Tour Haut Caussan 1975 (Médoc): un Monsieur Caussan versione Magnum in forma olimpica. Straordinario, all’entrata floreale au Chateau con le note di rose e viole di Mamma Merlot, segue una passeggiata a cavallo sul bagnasciuga dell’Oceano Atlantico. Lo sguardo è sempre rivolto alle profondità oceaniche di Pauillac, Uno nell’Uno. Accompagnano delicate note fruttate e minerali. Al commiato balsamico fresche note speziate di rosmarino, nonché l’immancabile, adorabile, menta di campo. In fine, carezzevoli note caramellate e di liquirizia. Caramelle al malto d’orzo.
Château Siran 1975 (Margaux): benché Margaux rappresenti a Bordeaux la quintessenza della femminile e nobile eleganza, in alcuni Châteaux sovente nascono raffinati Monsieur, Siran 1975 è tra questi. La trama è fitta, il frutto è fresco, primaverile e croccante, ciliegie e cassis con qualche chicco quasi verde, la tensione vegetale è vibrante grazie alla formula Anti-Age del Médoc ®, i gerani di zia Verdot: “Dans le Médoc, le Petit Verdot est la clé”.
Château Les Ormes de Pez 1975 (Saint Estephe): Monsieur de Pez il più rustico della serata, molto vegetale, ancora indietro nell’affinamento, ma quando a tratti riesce ad aprirsi ti stupisce con una consistenza ed una persistenza energica. Rimane comunque uno Château poco rappresentativo dell’eterea Saint Estephe, con lo sguardo rivolto più al frutto borghese dell’Haut-Médoc e alle speziature orientali di Pessac Leognan.
Château Poujeaux 1975 (Moulis en Médoc): All’apertura tanta frutta rossa e un sacco da 5 kg di caffè tostato e macinato “alla Troplong-Mondot 78 e Magdelaine 70”. Marino, un 1975 assolutamente marino. Ma dove han pescato le radici di questa splendida creatura? Direttamente nell’oceano? Il tutto con una finezza… è una brezza marina… In bocca fresco e fruttato, il finale è freschissimo. Al naso la passeggiata è balsamica. A cavallo, tra erbe di campo e bagnasciuga marino. Note ferrose e prugna nera su un letto di lievi note balsamiche. Poi il fumé accompagnato dal fil rouge della frutta. A seguire la passeggiata si sposta nel sottobosco: funghi, tartufo, formaggi erborinati, fieno, pure una nota caramellata ad accompagnare il sottofondo fruttato, poi tabacco e cioccolato bianco. La prugna scura sempre ad accompagnare in sottofondo. Un magico sottobosco autunnale, la brezza oceanica, ricorda la borsa di Mary Poppins. Poujeaux è come un punto di riferimento intorno al quale ci si può avventurare con serenità sapendo che, al ritorno, lui ci sarà sempre, “tra cielo e terra”, un luogo di protezione. Poujeaux è la sintesi, la completa espressione, l’emblema di Bordeaux. In casa ostriche, oceano, un pò di eucalipto… passati in giardino, dopo 5 secondi all’aria aperta, un’esplosione di ciliegie, amarene e caffè: la magia di Mago Merlino. Sono creature “messianiche”, ti indicano il cammino enologico da seguire.
Château Saint Pierre Sevaistre 1975 (Saint Julien): Mamma mia che naso! Frutta scura, cuoio, tabacco, note balsamiche in qua e in là. Ora entrano le note ferrose e il pomodoro dell’orto di Monsieur Sevaistre. Poi le note animali, cavalline, si fa un giro nelle scuderie, fai fatica ad imbrigliare questa splendida creatura nello Château, ha bisogno di galoppare nel sottobosco e nel bagnasciuga, un purosangue rustico e indomabile, vibrante. A tratti la crème de cassis fa capolino, l’irruento ed esuberante Monsieur Sevaistre si ricorda dei suoi studi classici a Saint Julien, delle ore passate a studiare greco e latino. Poi ancora il sottobosco, i funghi: splendido sottobosco! E via, cambio, altro giro, altro regalo, le note balsamiche, che passeggiata memorabile tra Château e sottobosco. Usciti dal sottobosco la passeggiata si sposta in un folto prato bagnato, tra erbe selvatiche e menta di campo. Stasera niente sale… stasera eucalipto e menta di campo per aprire naso e polmoni, al galoppo, hop, hop. A tratti ti coccola con note affumicate, nel salotto dello Château, camino acceso, seduti sull’antico divano di pelle di famiglia, ti offre un sigaro. La particella di Saint-Pierre Sevaistre è esistita singolarmente fino all’inizio degli anni 80, dopo è stata assorbita dal Saint Pierre attuale. Il Terroir del Sevaistre era considerato al livello di un Secondo Grand Cru. Ora arriva la brezza oceanica e la lieve nota salata. Eucalipto, menta e sale, “Le Terroir, Le Terroir” vous dis-je. Ora note caramellate e salate, non si ferma più. All’aria aperta cosa combina questo prestigiatore? Istantaneo, come ho varcato la soglia di Rimessa Roscioli, alta pasticceria, amarena, ciliegie scure, panna montata, cioccolato bianco. Il tutto con note fumè e tenui terziari di cannella. “Soudain l’horizon changea”. Ora la passeggiata in limonaia… e le note balsamiche… una passeggiata tra menta di campo e i cedri di Saint Julien. Tocca l’anima e cura il corpo: “un bel respiro”. Docteur Sevaistre: la particella delle meraviglie!
Maurizio Paparello (Salumeria Roscioli), su Matteo Targhini:
Grazie Gae, era da un po’ che non ascoltavo uno che sa di vino… ha da ripetersi!
Octavin ad Arezzo: esperienza culinaria selvaggia
Una domenica di fine gennaio per un pranzo ad Arezzo da Octavin dove lo chef Luca Fracassi ha proposto un percorso culinario temerario a base di selvaggina e vini naturali illustrati con cura da Filippo Calabresi do.t.e. vini e alcuni altri della selezione do.t.e. altrivini.
Luca Fracassi è un cuoco adeguatamente ambizioso che già da un po’ di anni è determinato a farsi strada in un contesto per nulla benevolo come è l’ambiente antropologico aretino ostile come è ostile quasi tutta la Toscana, (fatte salve rare eccezioni), a una cucina non necessariamente d’avanguardia ma quantomeno imbastita su ingredienti, materie prime e ricerca delle filiere. Basti solo pensare a luoghi mitici come Siena o Montalcino che non hanno nella maniera più assoluta una ristorazione degna delle bontà agricole del territorio alla stregua cioè della produzione del vino ad esempio, tra le più rinomate – almeno sulla carta – del nostro paese. Per tacere del deserto culinario di Firenze una città tanto ricca in meraviglie artistiche da fare invidia al mondo intero, eppure con una scena eno-gastronomica a dir poco imbarazzante per non dire grottesca, ancora ostaggio dei soliti Principi & Marchesi del vino farmaco-enologico fabbricato sempre dagli stessi quattro enologi à la page.
Arezzo oggi invece ha un cuoco che forse non si merita. Un cuoco che aveva iniziato conciliatorio e disponibile all’apertura su tonalità più dolci verso un pubblico potenziale poco avvezzo all’alta cucina. Un cuoco che però oggi, con personalità e stile, ha agguantato finalmente il toro per le corna dell’acidità, delle asprezze ben gestite e dell’amaro nelle preparazioni in equilibrio instabile della sua cucina. Un cuoco che non si limita a starsene isolato in cucina focalizzato solo sulle nature morte delle vivande da trasformare ai fuochi. Un cuoco aperto di mente e curiosissimo circa tutto quello che succede anche al di là del cibo. Un cuoco di mentalità elastica – mosca bianca tra i colleghi – con un occhio esplorativo sempre rivolto al mondo del vino naturale che poi è lo specchio di un’agricoltura consapevole armonizzata al resto in senso olistico. Un posto alla periferia dell’Impero come Octavin sta a significare che non è più possibile oggi, nel 2020, ritrovarsi in un ristorante dove la carta dei vini è completamente sconnessa dal cibo elaborato in cucina e proposto in tavola, a maggior ragione se dietro quel cibo c’è una ricerca fatta con tutti i crismi, una ricerca rispettosa della filiera ittica o agricola che sia. Tutti i ristoranti e i ristoratori invece di bruciarsi il cervello con stelle e stellette, dovrebbero ambire ad una ricerca sul cibo parallela alla ricerca sul vino così come la intende Luca Fracassi.
So che può risuonare paradossale o irriverente parlare di rispetto della filiera in merito ad un menu che ruota tutto attorno alla selvaggina – capriolo, beccaccia, tordo, lepre, fagiano, colombaccio, daino, cinghiale… – eppure c’è o dovrebbe esserci tutta un’etica di caccia che prevede l’addestramento dei cani e la simbiosi uomo/animale tra cacciatore e preda per cui ad esempio le beccacce non andrebbero mai sparate al suolo quando sono più esposte e cercano gli insetti che le nutrono, ma vanno stanate dai cani per poterle colpire eventualmente in volo.
Poi sulla selvaggina scatta anche l’effetto madeleine proustiana. Il mio ricordo è a casa di uno zio cacciatore nel quartiere vecchio del paesotto, a glu Stracc’, davanti al camino: tordi e altri uccelletti al sugo con la polenta. Avrò avuto cinque o sei anni, ma ancora riporto incancellabile nella memoria dei sensi, quegli odori forti e delicati assieme, quelle pungenze, quei sapori acuminati di selvatico; sapori non riproducibili meccanicamente poiché quello selvaggio, come certi vini da lieviti indigeni e fermentazioni spontanee o certi ossidativi miracolosi, rimandano a gusti unici, autentici, irriproducibili.
Un menu del genere può senza dubbio ingenerare critiche feroci da parte di chi è contro la caccia pur non essendo necessariamente vegano, non sto certo qui a celebrare la carneficina di frodo degli animali del bosco per soddisfare il gusto d’alcuni privilegiati occidentali borghesotti con il pallino del cibo selvaggio e la ricerca esasperata del gusto più estremo. Dico solo che mangiare una volta l’anno questa categoria di cibi ci riporta indietro alle nostre radici carnivore pre-medioevali, quando, abitatori di foreste e montagne eravamo anche noi senza distinzione di continuità sia predatori che predati. Spolpare gli ossicini del cranio e le cartilagini di un tordo è un atto crudo, un gesto crudele se vogliamo che però è connaturato al patrimonio genetico della nostra specie. Deglutire le interiora sublimi della beccaccia, assorbire la cremosità voluttuosa del cervello di daino, dissetarsi con un brodo di fagiano le rare volte che può capitare, ci riportano davanti allo specchio della bestia zoofaga e sanguinaria che siamo ricordandoci che forse decenni di industrializzazione alimentare e cibo ingegneristico hanno snaturato i nostri istinti più animaleschi. Vero, è un atto tragico, ma un atto che se compiuto con devozione e coscienza ci rammenta che le multinazionali degli aromi, dello zucchero e del cibo preconfezionato hanno sterilizzato per sempre la nostra mente se nella vita di tutti i giorni siamo nutriti e ci nutriamo soltanto di mangime chimico in scatola, di cibi processati o altre sostanze precotte, di animali giustiziati a catena di montaggio nei mattatoi, di bevande di sintesi ed altra immondizia sotto cellophane spacciata per generi alimentari. Questa è la cosa che dovrebbe scatenare molto di più la nostra indignazione etica e consapevolezza sociale alimentare ma invece ci ritrova tutti mansueti, proni e muti, rassegnati in fila al primo Discount alimentare per nutrire noi e i nostri familiari con farinacei di cui non conosciamo l’origine, con fettine di carne anonima sotto vuoto pompata ad anabolizzanti, con crostacei surgelati pescati chissà come o dove, con ortaggi e frutta proveniente da campi disseminati di pesticidi e così via.
Anne & Jean François Ganevat, J’ai soif 2017
Tartare di capriolo con brodo di licheni
Pierre Beauger, Rotten Highway 2015
Beccaccia, testa, paté, interiora
Philippe Jambon, Jambon Blan… chard 2010
Tordo come un ortolano
La Grapperie, La Désirée 2008
Lepre sugo d’umido e alloro
Domaine de l’Octavin, Corvées de Trousseau 2017
Fagiano in brodo
Frédéric Cossard, Saint Romain “Sous la Velle” 2015
Colombaccio in salmí dentro la sfoglia
Ratapoil, Vin Jaune 2011
Daino cervello fritto al limone
Els Jelipins, Red 2015
Cinghiale il musetto
La Sorga, béa… titube 2010
Pre-dessert gelato con prezzemolo e crumble di funghi porcini
Sanguinaccio di maiale cioccolato amaro e rosmarino
Olio EVO Il Bioselvatico
Finanziare quale ricerca?
Angelo Gaja su Millevigne (pubblicazione del
A pensarci bene questa retorica sciropposa del sovvenzionare la ricerca con i contributi della Comunità Europea la percepisco un po’ ambivalente e per niente disinteressata visto che un paio di precetti sono sollecitazioni spinte, suggerimenti alquanto espliciti al business redditizio del vivaismo e alle new frontiers/new deal dei vitigni resistenti su cui già da un po’ di tempo stanno calcando la mano in tanti degli “addetti ai lavori” cioè i professoroni ex cathedra, gli enologi più o meno di fama, i tecnici di cantina e i consulenti agricoli vari ed eventuali con l’attenuazione di colpa del “cambiamento climatico.”
Non entro nel merito delle “migliori intenzioni” di Angelo Gaja sull’utilizzo dei finanziamenti pubblici al settore vinicolo ma mi fa molto riflettere in negativo sul fatto che i punti salienti da lui riportati siano tutti condizionati da un fattore comune preoccupante che definisce un paradosso bello e buono cioè l’uso di metodologie agronomiche ed enologiche per “combattere” le stesse metodologie agronomiche ed enologiche così da innescare un effetto domino dove la terapia d’urto fa più danni dello stesso male.
Come leggere altrimenti:
– Individuazione di lieviti dal minore potere alcoligeno.
– Metodi “puliti” di contrasto dei batteri inquinanti che possono alterare la qualità organolettica del vino.
Come leggerli se non quali ammaestramenti politici, imperativi categorici, indirizzi di sistema rivolti non tanto alla Ricerca in sé quanto alla programmazione omogenea dell’Industria farmaco-enologica? Un’industria agguerrita che addomestica la Ricerca ai propri fini cioè agli interessi economici più redditizi. Un’industria lanciata sul mercato come uno Shinkansen senza freni a cui non basta aver scatenato la malattia dell’appiattimento del gusto, lo tsunami dell’omologazione del palato, ma pretende anche d’imporre la cura della “qualità organolettica”. Qualità organolettica stabilita secondo parametri e protocolli ferocemente normalizzanti. Qualità organolettica standard da laboratorio che non è più qualità ma è piattume sterile, è grigiore alimentare, è azzeramento delle differenze, è massificazione delle singolarità anche “sporche”, “anomale”, “indisciplinate”, “difettose” le quali non si fanno “pulire” o “raffinare” a comando per regime d’impresa. Per come la vedo io poi, lo ”sporco”, l’ “indisciplinato”, il “difettoso” l’ “anomalia” sono un male necessario attraverso cui dovrà pur passare la rivoluzione del gusto. Il ribaltamento del “giudizio estetico” è proprio questo passaggio obbligato che deve attraversare per non farsi imbottigliare dall’ingegneria enologica, per non farsi banalizzare dalle nanotecnologie applicate alla scomposizione e alla ricomposizione molecolare degli ingredienti alimentari tra cui anche il vino. È l’applicazione diabolica di queste sofisticate tecnologie d’ultima generazione il vero focus su cui concentrerei oggi tutte le nostre energie intellettuali volte ad arginarle, su cui punterei tutti i nostri sforzi d’approfondimento culturale, scientifico, economico per non farci algoritmizzare la psiche e uniformare il palato.
“La ricerca deve essere sostenuta, non va temuta. I risultati che sarà in grado di fornire dovranno essere disponibili per tutti, alle stesse condizioni.”
Continua così perentorio verso il finale del suo ragionamento Angelo Gaja. Eppure per me non si tratta di temere o stigmatizzare la ricerca, anche perché senza la ricerca noi oggi non eravamo certo qua a spippolare su questi marchingegni d’inferno ma stavamo ancora a giocare a ping-pong con le clave e i sassi o a soffiare nel culo delle rane (ah, bei tempi quelli, che nostalgia!)
La ricerca però andrebbe sostenuta e incentivata a parer mio, contro il logorio della monocoltura moderna, a deterrenza dell’omologazione delle coscienze perché parlare solo di vino senza approfondire/studiare/ricercare la biodiversità, il contesto agricolo da cui genera anche il vino, rischia di diventare sterile esercizio di stile dai produttori ai degustatori autoriferiti della domenica al circolo dell’uncinetto sotto casa. È tempo che i fondi pubblici per la ricerca in viticoltura/enologia siano destinati alla permacultura, all’agricoltura rigenerativa, alla coltura promiscua in policoltura, alla fitosociologia, allo studio dell’intelligenza delle piante, alla vitalità dei suoli, alla gestione delle acque piovane in difesa dell’erosione del suolo, alla cura dei boschi e dei muretti a secco, alla costruzione dei forni in terra cruda, all’architettura ambientale e alle abitazioni umane con materiali naturali di riciclo etc. Altrimenti intesa, cioè come la intende il signor Gaja, la ricerca resta uno specchietto per le allodole, una fonte ormai prosciugata che fornirà i soliti quattro dati preconfezionati e risultati inermi se non irreali, sconnessi. Risultati utili solo al tornaconto d’immagine autocelebrativo di chi foraggia e di chi è foraggiato con l’illusione imprenditoriale delle “stesse condizioni” che sono uguali solo per quei pochi eletti che già ce l’hanno per privilegio di nascita o di reddito, quelle “stesse condizioni” di cui si vaneggia. Gli happy few cioè che se prima andavano a vendere il loro marchio in Cina a spese dell’Europa oggi si dedicano agli “stress climatici” o alla selezione in vitro di “varietà atte a produrre vini DOP ed IGP che possano essere coltivate con zero-bassissimo impiego di fitofarmaci.” Dico io, ma i fitofarmaci a loro tempo quando non rappresentavano un problema, non sono sempre stati sovvenzionati da una ricerca più o meno seria, rigorosa, approssimativa, falsata? L’autore dell’articolo questo lo sa o dissimula di non saperlo?In chiusa, all’improvviso, Gaja si concede anche questa virata acidula tra il sornione snob e il tagliente :
“Ai produttori, che non intenderanno attingervi, resteranno maggiori possibilità di differenziazione dei propri vini”,
che pare suggerire tra le righe, alla sua avvantaggiata community dei dritti, di quelli che sanno, quelli cioè del “grande vino italiano nel mondo”:
<<Noi (plurale maiestatis?) così come prima abbiamo venduto il vino all’estero consolidando il nostro brand attraverso il marketing, adesso facciamo studi e ricerche sempre sovvenzionati dalla Comunità Europea, se poi alcuni scemi tra voi non aderiscono peggio eehm meglio per loro visto che i loro vini saranno differenti dai nostri ovvero saranno “non puliti” e meno ricercati, meno ricercati in tutti i sensi, dei nostri (sempre plurale maiestatis!).>>
Aggiungo in coda una citazione che trovo appropriata da un testo classico di filosofia della scienza cioè La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Thomas S. Kuhn:
<<La scoperta comincia con la presa di coscienza di una anomalia, ossia col riconoscimento che la natura ha in un certo modo violato le aspettative suscitate dal paradigma che regola la scienza normale; continua poi con una esplorazione, più o meno estesa, dell’area dell’anomalia, e termina solo quando la teoria paradigmatica è stata riadattata, in modo che ciò che appariva anomalo diventi ciò che ci si aspetta.>>
La vita breve ma intensa del panettone artigianale
Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divineFranco Battiato
Quella del panettone artigianale è di fatto una vita breve. Breve nell’arco dei 30/45 giorni di scadenza dichiarata in etichetta, dopodiché tende a rinsecchirsi a differenza del panettone industriale la cui shelf-life va oltre i 10 mesi poiché è composto da un mix di farine (semilavorati), aromi artificiali di sintesi, lievito di birra. Dolce natalizio “gonfiato” di mono- e digliceridi degli acidi grassi, proteine del latte in polvere, miglioratori, additivi, coloranti e altri emulsionanti intesi a conservarlo “umido” e “piacevole” nel tempo.
Non tutto quel che proviene dall’industria alimentare è negativo, intendiamoci. Basti pensare al pirottino o lo stampo professionale per panettoni alto in carta ondulata rinforzata che permette di cuocere l’impasto del panettone direttamente in forno che è facile utilizzarlo anche durante la fase di lievitazione. Quella del pirottino è un’invenzione che si attribuisce ad Angelo Motta il capostipite dei panettoni da Supermercato e da Grande Distribuzione Organizzata, una trovata fondamentale nella produzione dei panettoni, l’unica invenzione che conti davvero nella preparazione degli stessi e difatti è un apporto tecnico non commestibile.
Il panettone artigianale della tradizione natalizia tra arte della panificazione e scienza pasticciera, è una cartina tornasole su cui valutare il rigore scientifico, l’integrità artistica delle preparazioni sia da forno che da pasticceria. Parliamo di un prodotto dolciario da forno a lievitazione naturale. Alta qualità degli ingredienti esclusivamente naturali con una filiera restrittiva delle farine e frumenti. Autenticità del lievito madre naturale, bontà del burro, delle uova fresche, delle bacche di vaniglia e dei canditi su tutto. Tempi di produzione molto lunghi dalle 36 alle 48 ore di lavorazione. Doppio impasto. Lievito madre vivo. Controllo minuzioso delle temperature e dell’umidità d’impasto sia in lievitazione che in cottura. Nessun utilizzo di conservanti, addensanti o emulsionanti (monodigliceridi, fosfolipidi) come invece praticato dall’industria alimentare per “mantenere in vita” – manco fosse un malato terminale – e sempre un po’ umido il prodotto finito anche dopo svariati mesi, tanto quando lo si scarta esala l’odorino nauseante o meglio la puzzetta tipici delle merendine confezionate industriali.Il panettone artigianale così realizzato avrà una scadenza di massimo 30/40 giorni dopo i quali perde giustamente in fragranza e in freschezza. Ha senz’altro un costo più elevato rispetto ai panettoni dell’industria moltiplicati a catena di montaggio perché elevati sono i costi della lavorazione manuale e degli ingredienti giusti, però la differenza con gli artefatti lievitati industriali è abissale. Dopo la data di scadenza il panettone artigianale è da considerarsi sicuro anche se non avrà preservato le stesse caratteristiche organolettiche di quando era fresco, difatti il prodotto potrà risultare più asciutto.
Assieme ad Alberto Buemi in collaborazione con Christian Nicita di Acquamadre, eroica sala da te in stile Gong fu Cha con cucina halai dolce e salata in centro a Catania, abbiamo proposto anche quest’anno il contest amatoriale d’assaggio dei panettoni coinvolgendo un pubblico di dissociati peggio di noi. Eravamo quasi trenta persone. Sedici erano i panettoni degustati e valutati alla cieca. Una scheda anonima da compilare secondo i parametri del colore, della qualità degli ingredienti, del profumo, della sofficità/fragranza, dell’alveolatura, dell’uniformità di distribuzione della frutta, della cottura, del gusto.
Il signor Sakamoto di MidorItaly ha messo a disposizione la sua sapienza sul tè verde offrendo a tutti i partecipanti una tazza di Sencha preparata dalle sue mani nei ritmi rigidissimi e dilatati del cerimoniale giapponese del tè, correndo il rischio di venir linciato a furor di popolo poiché lui è ancora là che sta preparando il te’ nella sua calma serafica, incurante che l’evento è terminato oramai da qualche giorno, mentre noi stiamo già preparando l’edizione de La Vita del Panettone 2020.
Capirete bene come le variabili in gioco siano complesse e stratificate. Quale dovrà essere la temperatura di servizio dei panettoni? Molti artigiani consigliano di lasciar temperare il prodotto per 24 ore a 20-22 gradi in modo da far esaltare meglio tutti gli aromi; o di lasciare il panettone davanti una fonte di calore (camino, termosifone, forno) così da ammorbidirlo per bene. Poi se si volesse avere un parametro più razionale di riscontro all’assaggio, andrebbero tagliate fette uguali per ciascuno dei panettoni degustati ma soprattutto, ognuno dei panettoni, per maggior equità di giudizio, dovrebbe avere come lotto uniforme lo stesso giorno di produzione segnalato in etichetta, altrimenti come è successo con uno dei panettoni arrivato il giorno dell’evento, risultava avere “una marcia in più” rispetto agli altri, essendo stato sfornato la mattina e difatti è sembrato essere molto più piacevole proprio perché percepito a ragione più fresco e fragrante.
Noi si organizza da anni ormai questa degustazione con spirito giocoso ed epicureo certo, senza però dimenticare un’attitudine sperimentale, una propensione didattica al piacere di assaporare, all’urgenza conoscitiva di studiare il palato nostro e dei nostri simili con tutti i condizionamenti culturali, economici e sociali di contorno. Siamo perciò motivati a capire l’origine degli ingredienti alla base della materia prima, in special modo su un prodotto di così profonda elaborazione quale il panettone tradizionale, pur consapevoli dei limiti intrinseci, delle variazioni sul tema e delle variabili infinite come appena sottolineato.
Tanto per fare qualche esempio di complessità, pensiamo alle tre fasi di impasto e le tre lunghe lievitazioni nel panettone di Vincenzo Tiri; oppure all’utilizzo atipico della farina di grano tenero di tipo 1 in quello dei Severance; o l’uvetta passa di Pantelleria con i semini bruscati dal sole che scrocchiano in bocca nel panettone tradizionale dei Fratelli Longoni, cosa che ha destato meraviglia nel pubblico incuriosito degli assaggiatori. Così come, sempre i Severance, Angelo De Vita & Paola Tomasiello, ci tengono molto a dichiarare con orgoglio campano in etichetta che: “Nonostante l’alta percentuale di tuorli, la colorazione tenue dell’impasto è dovuta esclusivamente al colore molto chiaro dei tuorli, questo ne denota un pregio non un difetto: le galline si nutrono di mangimi biologici e di germogli e semi che trovano all’aperto e non di mangimi addizionati di capsantina o cantaxantina, né soltanto di mais.”
Come negli anni scorsi comunque, il panettone industriale inserito nella selezione alla traditora, non si è piazzato affatto all’ultimo posto. Secondo noi la ragione di ciò non è affatto il tipico qualunquismo da “perché la gente non capisce niente”, ma piuttosto perché il comparto degli aromi, l’ingegneria dei semi-lavorati sono più potenti di tutti noi e conoscono bene i loro polli, cioè la massa dei consumatori medi che non siamo altro, per infinocchiarli, per infinocchiarci a dovere, producendo alimenti e bevande popolari a prezzi sottocosto che ci sarebbe da domandarsi come fanno. Sempre alla cieca c’era il panettone di uno chef di cui non farò nome che si è piazzato ultimo, quindi forse la gente comune capisce ancora qualcosa. Al naso questo panettone a me sapeva di pan carré San Carlo aperto da mesi, rancido e con la muffa. Me lo ha confermato pure il piccolo, sveglissimo Duccio alle cui narici innocenti ho sottoposto una metà di quel panettone decisamente sgradevole.
Voglio dire – per traslare l’esempio sulle pizze – che il nemico da combattere alla fine è senz’altro Domino’s Pizza che rinnega per statuto l’artigianalità della pizza, ma anche tanta artigianalità fasulla ahimè, pure tra i pizzaioli affermati, che abusano di farine industriali, ecco anche questa pratica diffusa andrebbe osteggiata a brutto muso. Detta in francese: bisogna dare i premi, sostenere e supportare quei pochi eroi sottopagati che producono il grano, i cereali e le farine con serietà. Bisogna cioè sfanculare una volta per sempre i Master Chef, i Super Pizzaioli, i Pasticcieri Star solo chiacchiere e distintivo, per premiare i contadini, il comparto agricolo e chi, al di là dei riflettori spenti, lavora di fatto a fatica le materie prime fondamentali (grano, latte, uva, uova, olive etc.)
Una delle giustificazioni più tipiche e ridondanti che sento sbandierare spesso nei discorsi sul cibo o il vino industriale è una spiegazione tanto ingannevole quanto strisciante:
“Non tutti possono permettersi di mangiare e bere i prodotti costosi, le specialità di nicchia.”
Che presa così non fa una piega come generico ragionamento politico-economico visto che siamo tutti chi più chi meno, schiavizzati dal Tempo, condizionati dal Denaro. Abbiamo a malapena gli intervalli di tempo per respirare, aria inquinata oltretutto, figuriamoci se riusciamo a trovare la concentrazione giusta per leggere le retroetichette dei cibi, gli ingredienti o i processi produttivi delle bevande con cui pretendiamo nutrirci. Ma quello che io contesto con forza è l’analfabetismo diffuso nei confronti del cibo e del vino. Non c’è nessuna educazione alla gastronomia che per me dovrebbe partire fin dall’asilo nido. Invece la maggioranza della gente, già dall’infanzia, è abbandonata a se stessa o meglio è immessa in un gigantesco laboratorio di cavie umane il cui gusto è adulterato, condizionato violentemente a partire dall’allattamento artificiale agli omogeneizzati, ai vini zuccherati o edulcorati ad hoc, mentre nel frattempo la farmaco-ingegneria degli aromi, la fabbricazione seriale degli alimenti assieme ai burattinai della Pubblicità si strusciano le mani e gonfiano a dismisura le loro pance e i loro conti in banca.
L’inciviltà gastronomica è un’inciviltà innanzitutto sociale, una barbarie culturale diffusa. Fossimo tutti più civili, educati al cibo – è esattamente questo il cuore del mio ragionamento utopico -, avremmo un sistema salariale meno ingiusto, dei costi più equi, una sanità pubblica meno devastata, una qualità media dell’offerta alimentare non così bestiale a prezzi folli, sia perché troppo elevati che al ribasso, con una discrepanza vertiginosa tra qualità infima o altissima, quale riscontriamo appunto noi oggi nella nostra sempre più grigia irrealtà quotidiana.
Più civiltà gastronomica per tutti, maggiore coscienza critica dei consumatori terrestri, significa meno ingiustizia quindi più cura di se stessi, degli altri e del mondo in cui si è, finché dura!
Bruna Ferro Carussin dalle sue splendide vigne a San Marzano Oliveto (Sud Monferrato Astigiano) come negli anni scorsi, nello spirito festivo di gioia condivisa, ha partecipato alla buona riuscita dell’iniziativa con il suo moscato Filari Corti 2018 da uve Moscato Bianco di Canelli al 100%. Atto d’amore per il suo territorio e per la civiltà contadina a cui Bruna appartiene. Vino di grande equilibrio della componente aromatica senza stucchevolezze, vibrante contrasto tra la dolcezza del frutto e la freschezza minerale della bollicina, sostenuti entrambi da un’acidità ben tesa e la maturazione croccante dell’uva; abbinamento a dir poco perfetto sui panettoni artigianali… artigianali eccetto uno!
Questi a seguire i panettoni in ordine sparso assaggiati e valutati alla cieca da un pubblico amatoriale di appassionati il giorno 15 dicembre 2019 a Catania. Mancava all’appello un fenomeno assoluto e rigoroso come Maurizio Bonanomi della Pasticceria Il Merlo (Pioltello Milano) a causa di una consegna rovinosa con i panettoni arrivati a destinazione sì, ma spappolati.
Una riflessione generale che viene subito in mente a caldo è l’osservazione di quanti bravi pasticcieri stanno via via emergendo dal sud Italia nonostante la tradizione milanese del panettone, vedi Pietro Cardillo A Maidda (Trapani) e Valerio Vullo Pasticceria Sauvage (Catania).
Panificio A Maidda di Pietro Cardillo (Trapani)
Infermentum (Verona)
Pasticceria Marisa Lucca Cantarin (Padova)
Eurospin (Duca Moscati)
Denis Dianin (Padova)
Posillipo Dolce Officina Arduini/Falcione Gabicce Mare (Pesaro Urbino)
Lillo Freni Pasticceria Freni (Messina)
Severance Angelo de Vita e Paola Tomasiello (Roma)
Vincenzo Tiri (Acerenza, Potenza)
Canepa 1862 (Rapallo)
Fratelli Longoni (Carate Brianza MB)
Antonio Colombo Ristorante VotaVota (Marina di Ragusa)
Renato Bosco Saporè (Verona)
Fornai Ricci (Isernia)
Pasticceria De Vivo (Pompei)
Pasticceria Sauvage Valerio Vullo (Catania)
Questo nostro non ha nessunissimo intento classificatorio ribadisco, ma è solo un modo conviviale di approfondire assieme ad altri appassionati che condividono la nostra stessa fissazione gastronomica. Lo consideriamo insomma un approccio giocoso e amatoriale di approfondire un mondo tanto vasto e complesso come quello dell’alta pasticceria. Dalle schede raccolte alla fine dell’assaggio dei 16 panettoni in forma anonima, facendo una media dei punteggi raggranellati, questi che seguono sono risultati essere i 5 panettoni che il pubblico ha maggiormente apprezzato:
• Andrea Zino – CANEPA 1862 caffe pasticceria Rapallo-Genova
• Vincenzo Tiri – Tiri Bakery & Caffè – Potenza
• Francesco Borioli – Infermentum, Stallavena – Verona
• Lillo Freni – PASTICCERIA BAR GELATERIA FRENI – Messina
• Renato Bosco – Saporè, San Martino Buon Albergo – Verona
EX AEQUO con
• Valerio Vullo – Café Sauvage – Catania
Sabir o l’equazione del gusto
Dirò una cosa forse un pò impopolare, ma la cucina d’impostazione gourmet, le cucine stellate in genere non sono luoghi che frequento con particolare gioia. Sarà l’atmosfera talvolta funesta, quell’aria greve e tendenziosa da competizione perenne che ti porta ad allarmarti per lo stato di salute mentale della brigata in cucina, che ti fa stare in pena per le condizioni cardiovascolari del cuoco invasato dalle esalazioni vaporose in cucina, quando non è a fare la prima donna in TV. Saranno certi décor pretenziosi, gli orpelli kitsch, gli ambienti asettici e i camerieri imbalsamati. Sarà l’impostazione velleitaria di tutti a voler stupire il prossimo a tutti i costi con effetti speciali hollywoodiani. Dallo chef con pose da artista concettuale incompreso al maître ingegnere aerospaziale al sommelier oncologo… sono teatrini imbarazzanti che molto spesso mi risultano essere solo delle stupefacenti, per quanto inutili, bolle di sapone e vederle scoppiare nell’aria è uno spettacolo decadente che lascia attanagliati da un sentimento di spleen inconsolabile in fase digestiva.
Ecco perché, a rischio di sembrare retorico, preferisco di gran lunga le osterie di campagna, le fiaschetterie lungomare, i rifugi di montagna, le Osmize nel Carso, i ristorantini fuori zona, le trattorie tipiche con annessi magari l’orto, l’aia, la stalla dalle pungenti ma familiari fragranze di letame nell’aria. Anche perché molto spesso nella ristorazione testosteronica ad alta tensione emotiva le ambizioni megalomani sono sempre disattese. Aspettative oltremisura generate dalle pretese di arrivare costi quel che costi dalle stalle alle stelle. Trovo assurdo cioè che in questo tipo di ristorazione altolocata per altospendenti ci si concentra più sull’apparenza di un cibo tecnico, creativo o provocatorio che sempre inganna ma quasi mai ci si focalizza anima e corpo sulla sostanza alimentare, sulla filiera produttiva delle materie prime, sul rispetto sacro degli ingredienti crudi o cotti, che difficilmente mascherano inconsistenze, vuotaggine e frottole.
L’amico Giancarlo Limoni, pittore romano dai gusti culturali raffinatissimi, mi ha sempre detto: “La cucina al 90% è tradizione al 10% invenzione!”
Sere fa a Zafferana Etnea sono stato a cena da Sabir dove ho conosciuto Seby Sorbello che propugna una cucina di lucida concretezza ed amorevole coscienza territoriale sostenuta sì da una visione gourmet ma con i piedi ben piantati per terra però e soprattutto con le mani sui fornelli della tradizione. Il “capriccio” del ristorante gourmet è senza dubbio sostenuto dalla dignità popolare del ristorante principale di famiglia dove si realizza banchettistica da grandi numeri proponendo una cucina più accessibile per una clientela meno esigente che si riversa numerosa dall’hinterland etneo-catanese. Non si può pretendere di scalare la montagna partendo dalla cima, si ascende sempre dal fondovalle in basso, armati d’umile pazienza, spirito di sacrificio e forza di volontà. È questo il messaggio in codice più autentico che ho interpretato prima dalle preparazioni del cuoco, poi a fine cena dalla conversazione amabile a tavola assieme a lui.
Non è un caso infatti che Seby Sorbello, con la complicità di Susanna Cutini & Alex Revelli Sorini, abbia pubblicato un libro dal titolo programmatico: Equazione del gusto (Ali&No Editrice) dove il tentativo arduo di codificazione del gusto risuona plausibile, senza renderlo troppo matematico-ingegneristico anche perché a renderlo tale c’ha già pensato fin troppo l’industria alimentare da decenni ormai. Il libro ruota attorno alle parole magiche che sono sapere fare buono bello. Parole abracadabra che ho in qualche modo ritrovato, vivaddio, espresse nella presentazione dei piatti serviti. Nel piacere di guardarli, nella goduria di masticarli, nella leggerezza di digerirli, nella magia di assaporarli.
Questo il menù
Il riccio nello scoglio
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Crudo di pesce
Lo scampo si veste d’autunno
Tataky di pesce spada
Gambero rosso, miele e caffè
Cernia “futura memoria”
Ostrica, sedano e porcini
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Insalata tiepida di mare
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Gambero rosso di Mazara
con dadolata d’ortaggi profumata al timo
e fonduta di Ragusano DOP al tartufo dell’Etna
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Ricotta e broccoli
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Omaggio all’Etna
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Suino nero dei Nebrodi
con porcini e nocciole
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Granita di carote d’Ispica con buccia di pepe rosa ed olio EVO
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Degustazione desserts
Piccola pasticceria
Gli abbinamenti con il vino sono stati studiati per l’occasione dal mitico Sal Di Bella che qui saluto e abbraccio.
Metodo Classico Terzavia De Bartoli
Pietramarina Benanti 2015
Marcel Deisss Gewurztraminer 2015
Franchetti Contrada “C” 2016
Poderi Aldo Conterno Barolo Bussia 2015
Moscato passito di Noto
(…) aveva l’aria di una persona estremamente precisa e pulita, solo che quella pulizia poteva anche essere sporca…
“(…) poi qualcuno scoprì un ingegnoso (e supponiamo, redditizio) sistema per invecchiarlo artificialmente. Il fumo delle caldaie dei bagni e dei fornelli della cucina era convogliato in una camera, molto ben esposta, spesso sovrastante il locale dei bagni stessi, in cui erano sistemate le anfore. Fumo e calore <<affrettavano>> l’invecchiamento; il calore, soprattutto, accelerava le reazioni chimiche. Il vino così affumicato e riscaldato era dunque divenuto <<vecchio>> pur essendo giovane. E, come anche oggi spesso accade, il vino trattato così artificialmente incontrò il favore dei consumatori al punto che, nell’epoca imperiale, di vino ad invecchiamento naturale era ben difficile trovarne. Si osservò con molta meraviglia che il vino così trattato non inacidiva più: gli antichi enotecnici avevano scoperto la pastorizzazione.”Oberto Spinola, Il Museo Martini di Storia dell’Enologia (Contessa Editore, Torino)
Nei fatti che riguardano le impressioni puramente personali come nella critica d’arte, nella letteratura, così nella descrizione del vino, rimaniamo pur sempre invischiati nell’alone di giudizi/pregiudizi soggettivi che pretendono assai spesso d’assurgere a statuto d’oggettività scientifica evidente, valida per tutti gli altri, indiscutibile. Basta osservare la gran parte della cricca critica dei tromboni sfiatati, i quali continuano imperterriti ad attribuire a parcella di contropartita: stellette, bicchierozzi e faccioni da ciolla. Tuttavia, nel nostro piccolo mondo antico di “assaggiatori militanti” che provano a non essere collusi con tornaconti personali e conflitti d’interesse troppo smaccati, tendiamo a valorizzare le sgrammaticature quando sono, come dire, intenzionali, consapevoli d’esserlo, quando cioè “i difetti” o le “puzzette” non sono insomma attitudini modaiole e pose naïf. Anche perché a furia di essere sommersi dai vini artificiosi fabbricati in cantina con abuso di ingredienti farmaco-enologici ed edulcoranti vari, quasi quasi preferiamo annasare gl’aceti di vino, gorgheggiare, sbicchierare e sputacchiare il vino che sa d’aceto, fanculo ai vini di pregio sterilizzati sul nascere già a partire dall’uva in vigna!
Nessun assaggiatore però, militante o meno che sia, dovrebbe mostrare d’avere la tracotanza di stabilire niente di Supremo, che non sia già in qualche modo inscritto nel suo palato sempre in fieri che è – ci si augura – volubile, fluttuante, in continua trasformazione, così come in perenne mutamento, inafferrabile è il vino vivente nella metamorfosi del suo farsi, darsi e disfarsi. L’intenzione di cui io parlo è solo nel bicchiere mezzo pieno infatti, in relazione a noi che lo gustiamo, non nelle chiacchiere di chi lo ha fatto; eventualmente nello sguardo del vignaiolo che al limite suggerisce più cose oggettive delle stesse parole dette ma subito svaporate nell’aria.
“Rimasto un mistero fino a Pasteur, il processo di fermentazione del vino non è tuttavia stato ancora chiarito del tutto. L’enologia moderna si crogiola nell’illusione che un rigoroso controllo delle temperature e l’impiego di lieviti selezionati e clonati siano sufficienti a evitare i capricci e le esuberanze della vita.Essi riescono solo a creare dei vini tecnologici, senz’anima, privi di ogni seduzione. La grande arte dei buoni vignaioli è di saper restituire nel loro vino il genio del terreno e dell’annata. Oggi sappiamo che i fermenti naturali possono dare i risultati più complessi e più sfumati. Il talento, la prudenza e la saggezza dei viticoltori si uniscono così allo stupore dei credenti che perpetuano i culti della vita.”
Jean-Robert Pitte, Il vino e il divino (Palermo, Sellerio 2012)