Sono io, sono io caricato di immagini
Che mi dan le vertigini, sono io
Sento la mia vita che sta diventando un film
Sì, ma l’ho già visto e non mi piace questo filmPaolo Conte, Sandwich Man
Jeanne Dielman, la condizione della donna e il cinema del tempo radicale
Jeanne Dielman, 23, Quai Du Commerce, 1080 Bruxelles è un capolavoro di cinema radicale girato nel 1975 da Chantal Akerman regista belga, che ancora oggi dopo 45 anni appare fresco, moderno e originale a differenza delle tante puttanate Netflix che nascono già morte e datate.
La Akerman nel 1975 aveva 25 anni. Il film è girato in 35mm con Delphine Seyrig in stato di grazia ad interpretare Jeanne Dielman, che la stessa Akerman in questa breve intervista paragona ad una tragedia greca.
Al centro di Jeanne Dielman per quasi 3 ore e mezza, c’è il corpo di una donna smembrato tra la cucina, la camera da letto, il bagno e qualche scena d’esterno. Un corpo intrappolato in una raggelante cornice di silenzi grevi, azioni monotone innescate dalle mani iperattive: lucidare le scarpe, lavare i piatti, preparare il cibo e il caffè, lavorare la lana ai ferri, pelare le patate, pulire le mattonelle, spolverare i mobili, prendere i soldi dai clienti, usare le forbici…
Il film documenta tre giorni di una giovane vedova che cucina per sé e suo figlio, mostrando la sua minuziosa quotidianità casalinga fatta di gesti ripetitivi, pause espanse e dettagli meccanici tra cui il fatto che si prostituisce in casa.
Protagonista assoluto del film è il tempo, un tempo reale al cui ritmo implacabile avvengono le azioni minimali eppure azioni enormi che descrivono tutto l’universo domestico di Jeanne oltre ad esplicitare il suo angoscioso blocco interiore che diventa anche il nostro in un transfert d’empatia dolorosa nonostante siamo solo spettatori lontani dallo spazio e dal tempo in cui il film è stato girato da una troupe “femminista” quasi al completo composta da donne politicizzate. Un tempo ipnotico, monotono e claustrofobico quello del film bellissimo della Akerman, incastrato da un lavoro di montaggio straordinario che presenta senza fronzoli scenografici e senza trucchi di sceneggiatura, l’aspra condizione della donna nella società contemporanea, ieri come oggi. Un’opera di sublime poesia cinematografica racchiusa in sé che la sgroviglia dai lacci ideologici dell’epoca in cui è stata concepita e libera da qualsiasi interpretazione limitante che risulterebbe sempre troppo ottusa o datata in chiave politico-psicoanalitico-sociologica, come avviene troppo spesso per romanzi dischi film lavori d’arte opere teatrali invecchiati male perché talmente presi a descrivere l’ombelico dei propri tempi infimi da dimenticare di fissare il cielo stellato della poesia universale cui ogni scrittore artista musicista regista non dovrebbe mai dimenticare di tendere.
Da vedere e rivedere assieme a La Maman et la Putain (1973) di Jean Eustache altro regista tormentato, genio iperrealista morto suicida ancora troppo giovane.