Tag

cinema

The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

13 Marzo 2023
Commenti disabilitati su The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

Qualche settimana fa, in un cinema di Roma Nord sono riuscito a beccare l’ultimo film di Darren Aronofsky proiettato in lingua. La finestra temporale della proiezione era al solito un paio di giorni – succede sempre così con i film considerati meno mainstream, – dopodiché ti fai in culo e devi scaricarlo eventualmente online per riuscire a vederlo a casa, non devastato dal doppiaggio. Doppiaggio la cui gloriosa tradizione nel cinema di casa nostra sta perdendo sempre più fascino e professionalità di pari passo con la decadenza decennale del nostro teatro e lo slabbramento tanto del carattere che della profondità delle “voci”, di attorini oramai prostituiti a becere serie televisive, marchette pubblicitarie o ad altro genere di imbarazzanti reclame perbeniste mascherate da film impegnati.

Il soggetto di The Whale è un grande (e grosso) soggetto. Brendan Fraser giganteggia in tutti i sensi nella parte del protagonista Charlie, La Balena. Fraser, sulla scia di un attore mitologico come Lon Chaney (L’Alonzo The Unknown di Tod Browning su tutti) ha trascorso quattro ore al giorno indossando protesi che pesavano fino a 136 kg. Ha consultato la Obesity Action Coalition e ha lavorato con un istruttore di danza per mesi prima dell’inizio delle riprese in modo da determinare in dettaglio come si sarebbe mosso il suo personaggio con il peso in eccesso. Visti i tempi di sterile iper-criticismo del politicamente corretto, sono state mosse anche alcune critiche per l’uso della tuta protesica invece di scegliere un attore obeso, con l’accusa di “stigmatizzare e deridere le persone grasse”.

Charlie è un gay mostruosamente sovrappeso (grande lavoro i truccatori con le protesi), insegna scrittura creativa online dal divano di casa dove è arenato nell’oceano delle miserie quotidiane, con tutta la sua stazza inverosimile. I presupposti sono perfetti per simboleggiare lo spirito dei tempi in America dunque nel mondo tout court. La miseria della vita insignificante dalla culla alla tomba nel grigiore dei centri suburbani; il senso dilagante di fallimento sottopelle a una società come quella statunitense devastata dall’apparire sani e felici a tutti i costi, inondata dal cibo ultralavorato, ossessionata dal successo e dal denaro facile, sono le giuste premesse che però il regista non riesce a tenere salde, ben focalizzate fino in fondo.La sceneggiatura che appare fin troppo meccanica e ad orologeria, tradisce la sua natura di stampo teatrale. Alla fin fine The Whale non è Who’s Afraid of Virginia Woolf?, e tantomeno Samuel D. Hunter ha il talento, il livore drammaturgico, l’universalità di Edward Albee. Si perde nella costruzione dei personaggi che risultano vuoti di contenuto psichico o densità emotiva, con strizzatine d’occhio fastidiose a rassicurare il pubblico generico, suggerendo in un a parte maligno: “Vero, sembra una materia angosciosa da film indipendente nerd per i soliti, pochi pippaioli cinefili sfigati depressi, ma noi vinceremo gli Oscar per la regia raffinata a confronto con le stra-merdate hollywoodiane, per la sceneggiatura Apocalyptic Chic, per l’attore protagonista gne gne gne…”

Quasi tutti gli altri attori coinvolti nel film non reggono nella maniera più assoluta la bravura e la presenza effettivamente ingombrante di Brendan Fraser. Ellie, la figlia adolescente di Charlie si sforza di essere perfida ma è di un forzato fin troppo svelato, irritante. È di un cattivo puberale privo di dimensione interiore, prevedibilissimo, studiato a tavolino. Mary la madre di Ellie, ex moglie di Charlie lasciata da lui quando la bimba era piccola dopo essersi innamorato di un suo studente, si capisce fin troppo che è del tutto fuori parte. Appare quasi a metà film, farfuglia le sue battute, dovrebbe far credere di essere alcolizzata semplicemente perché lo sceneggiatore le fa chiedere dove sta una bottiglia di qualcosa d’alcolico. E poi esce definitivamente dalla porta e dal film. Pure in questo caso, come quello della figlia anche il carattere del personaggio della madre è di un piattume a dir poco goffo, sgradevole di una goffaggine e una sgradevolezza aliene alla logica interna della storia ma congenite alla infondata scrittura del film. Mary ed Ellie sono figurine monocordi appiccicate al film, personaggi riduttivi con trascorsi solo nominati dallo sceneggiatore ma di fatto senza un vero passato inciso sulla pelle, senza una vita propria che traspaia minimamente nell’interpretazione delle attrici sullo schermo perché manca del tutto all’origine nel disegno della sceneggiatura. So che suona arrogante ma questo difetto di scrittura si ritrova da anni ormai abbastanza ferocemente nel 90% delle robe che escono in sala e molto spesso sono film osannatissimi dalla critica, bah!

Anche l’utilizzo del tema portante, il commento ad una “noiosa” pagina del Moby Dick di Melville, sembra davvero troppa poca cosa, un esercizio inefficace e mal svolto di sceneggiatura cerebrale creativa, per imbastire una qualche vaga morale di fondo, per sciroppare alla gran parte degli spettatori illetterati, la sottotraccia filosofico-letteraria, la “sad story“, di un film da camera della durata di due ore.

Lo scambio di relazioni fisiche e psicologiche meno piatto (leggi: meno mal sceneggiato) avviene tra Charlie e la sua fraterna amica/badante Liz (una bravissima Hong Chau, la sola a reggere il confronto con Fraser), e con Thomas una specie di missionario cristiano della New Life Church. Ma anche qui, molti dei temi forti che avrebbero potuto essere trattati con maggior profondità e cattiveria da Aronofsky/Hunter: l’omofobia, l’anonimato, la solitudine, la letteratura, la denigrazione dell’obesità, il puritanesimo misticheggiante delle religioni americane e dello spiritualismo d’accatto diffusissimi in Nord America, sono trivializzati, resi innocui, smussati, rassicuranti, ad uso di un pubblico quanto più vasto cioè indifferente ma soprattutto a beneficio dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), l’istituzione che scodella gli Oscar.

Insomma a me è sembrata una grandissima occasione persa quella di Aronofsky che lontano dal realizzare un film autentico, potente, arrabbiato, onesto per una parte di pubblico di fruitori attenti seppur indistinti nelle masse, conclude un film incompiuto, scaltro, qualunquistico e ricattatorio per un pubblico di masse amorfe scialacquate nell’indistinto.

Volti nella folla nell’inferno di internet

12 Gennaio 2022
Commenti disabilitati su Volti nella folla nell’inferno di internet

Vivere la vita con coscienza è come guidare la macchina con i freni tirati.

Budd Schulberg, Perché corre Sammy?

 

Un volto nella folla

Volti nella folla nell’inferno di internet

Non serve scomodare Freud per capire che il disagio della nostra civiltà è arrivato alle stelle, ehm alle stalle. Se i social sono in qualche modo lo specchio distorto ma verosimile di cosa siamo diventati e del mondo in cui viviamo, è piuttosto evidente che siamo agli sgoccioli, tanto del disagio che della civiltà.

Budd Schulberg mitico scrittore di New York, nel 1955 ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale con Fronte del Porto (On the Waterfront) di Elia Kazan. D’accordo, nonostante l’immensità di Brando, Fronte del Porto è un film retorico, un film a tesi con cui regista e sceneggiatore, Kazan e Schulberg, in piena bufera maccartista tentano di giustificare goffamente la loro testimonianza alla HUAC House Committee on Un-American Activities (Commissione per le attività anti-americane), dove denunciano colleghi e collaboratori che finiscono sulla lista nera di Hollywood, costringendoli ad espatriare o alla prigione poiché accusati di tradimento. Ma qui non m’interessa entrare nel merito del collaborazionismo di Schulberg e Kazan che nel 1957 faranno Un volto nella folla, di cui sempre Budd Schulberg è autore del racconto-soggetto e della vigorosa sceneggiatura. Scriverà anche Perché corre Sammy?, una satira corrosiva su Hollywood pubblicata da Sellerio.

SchullbergUn volto nella folla non è semplicemente un durissimo atto d’accusa, un angosciato SOS in pellicola sulle possibilità di fabbricazione del consenso popolare acquisito dai media. L’onnipotenza dei media di trasformare un qualunque volto nella folla in un divo capace di stregare le masse e di manipolare l’opinione pubblica. Con questo film molto polemico per i tempi e ora attuale più che mai, splendidamente fotografato in bianco e nero da Harry Stradling e Gayne Rescher, i due grandi uomini di cinema desideravano illustrare il potere subdolo di radio/televisione, smascherando il falso mito populista della saggezza e bontà della gente comune. L’Academy Award dopo i troppi Oscar a On the Waterfront, ignorò del tutto A face in the crowd, troppo feroce e politicamente scorretto per vincere un Oscar, un film violento che distrugge e fa a pezzi “il sogno Americano” dal suo interno.Marlon Brando

Oggi quel volto nella folla isolato per poco dal film di Kazan si è propagato online in maniera esponenziale per miliardi d’individui attraverso canali youtube, video tiktok, live streaming su facebook e instagram. È totalizzante. È deprimente la supremazia digitale di chiunque su ognuno. Il predominio del singolo anonimo su milioni e milioni di altri anonimi che sgomitano come subumani impazziti per sovrastarsi l’uno sull’altro. La diffusione costruita ad arte di false notizie spacciate per vere così da far abboccare quanti più dementi all’amo. L’opinionismo sguaiato di tutti su tutto. L’aprire bocca a prescindere soprattutto da parte di chi ha più difficoltà anche solo ad articolare monosillabi semmai sappia scrivere il proprio nome. Il “postare” comunque senza il minimo scrupolo di approfondire il tema di cui si sta farneticando anche da parte di gente all’apparenza acculturata. Il commentare sullo scibile, dalla musica dodecafonica alla guida degli incrociatori navali da parte di masse d’analfabeti funzionali che non sanno neppure allacciarsi le scarpe da soli. Io che scrivo queste lamentazioni qualunquistiche ecco, è la rappresentazione dell’inferno sulla terra. L’inferno sono gli altri assieme a me, ad integrazione contemporanea e direi definitiva di Sartre.

Insomma tutto questo e molto altro che taccio per imbarazzo – si mi imbarazzo per loro quindi per me stesso – è la fase finale immagino in questo scempio di civiltà disagiata verso cui appunto siamo prossimi alla fine, speriamo quanto prima.

Fotografie del vecchio mondo nuovo

3 Novembre 2020
Commenti disabilitati su Fotografie del vecchio mondo nuovo

MV5BYTFjZWRmNjMtZTBiYi00YmQ2LThkNDQtNmE5YTU0ODM3OGMzXkEyXkFqcGdeQXVyMTc4MzI2NQ@@._V1_

Fotografie del vecchio mondo nuovo

Credo non sia mai uscita una versione di questo film nel nostro paese, ad ogni modo fino a ieri sera non avevo né sentito parlare né mai visto Pictures of the Old World (Obrazy starého sveta) di  Dušan Hanák, documentario slovacco del 1972 girato tra i sobborghi e i villaggi dei monti Tatra nelle regioni di Liptov e Orava. Questo vecchio film di Hanák in tutto il suo doloroso immaginario sull’umanità trascurata, brulicante ai bordi della civilizzazione e del progresso tecnologico, sarà apprezzato da molti, non solo da cinefili barbosi e autoreferenziali, come una singolare scoperta del cinema documentaristico dell’Europa orientale.

A distanza di quasi 50 anni dalla sua realizzazione è bello venir stimolati ancora da qualcosa di vecchio che tuttavia riesca a suscitare al presente un gioioso sentimento di novità. Un libro mai letto, un film mai visto, una musica mai ascoltata del passato in fondo sono come scintille di futuro che alimentano il fuoco necessario della curiosità sulle vite altrui, alla presenza attuale del nostro leggere vedere ascoltare il mondo. La potenza spontanea, l’espressività poetica/patetica, la crudezza naïf di questo film germogliano nell’aspro bianco e nero intonato alle fotografie dell’artista slovacco Martin Martinek; all’uso sperimentale del sonoro in chiave disturbante; alla decina di ritratti morbosi d’uomini e donne abbandonati a se stessi o ai propri animali, in un paesaggio di fango, sprofondati nel caos desolante delle proprie credenze, fissazioni e pietose solitudini. image-w1280

tumblr_p21b3rel0v1srl30mo1_400Queste “fotografie del vecchio mondo” da cui traspare in controluce anche il nostro “mondo nuovo” al suo tramonto, ritraggono con compassionevole spietatezza e sottile ironia venata di una certa bizzarria da Est Europa, un’umanità derelitta al culmine della propria vecchiaia. Una decrepitezza sdentata, folle, amara, poco rassicurante ma allo stesso tempo anche dolce, rassegnata, serena. La vecchiaia implacabile del mondo occidentale.

Il ricco, il povero, lo stupido, il saggio, finiamo tutti sottoterra! Cos’altro possiamo fare a questo mondo?

Questa è la risposta interrogativa di un vecchietto alla domanda imponderabile posta nel film su “Cosa c’è di più prezioso nella vita?” Un film che sono certo ha ispirato le visioni grandiose seppur senza speranza del regista magiaro Béla Tarr, tra i rarissimi geni viventi del cinema mondiale, autore di capolavori indimenticabili quali Sátántangó e Werckmeister Hármoniák.472394_article_photo_umxbvk8_900x

La terra del miele

15 Ottobre 2020
Commenti disabilitati su La terra del miele

Se si rimane abbastanza a lungo in un posto, ogni realtà diventa una grande finzione.

Tamara Kotevska & Ljubomir Stefanov

image4 2

La terra del miele

Gli esseri umani, il paesaggio balcanico, le api. Non capita troppo spesso di uscire dal cinema commossi da tanta realtà incarnata nel volto verissimo di Hatidže Muratova.

Honeyland è un film macedone potente che in poco meno di un’ora e mezza sintetizza quattrocento ore di girato e tre anni di riprese da parte dei registi Tamara Kotevska & Ljubomir Stefanov, avventurati con una troupe ridotta all’osso – 4 operatori in tutto contando i registi – nei paraggi di Lozovo nella regione circondata dal fiume Bregalnica nella Macedonia centro-settentrionale.

Un’apicoltrice che cura sua mamma ottantacinquenne Nazife, donna malata a letto nella loro casupola di pietra desolata senza acqua né elettricità a Bekirlija, un villaggio abbandonato dalla fine della II Guerra Mondiale, sui monti attorno a Skopje; una prolifica famiglia di nomadi allevatori turchi che compromette l’equilibrio naturale delle due donne e delle api; non serve tanto altro per realizzare un capolavoro così sincero e poetico che documenti al dettaglio l’inettitudine tutta umana di convivere in armonia con i ritmi vitali, i frutti e la preservazione della natura.

Hatidže quando smiela durante l’estrazione dei favi dall’apiario, una parte del miele la prende per sé e l’altra la lascia alle api per evitare che volino via ad attaccare e colonizzare un altro alveare innescando così una maggiore ondata di squilibrio e di caos nella propria parte di universo.

Honeyland è un film struggente di rara bellezza visiva. Immagini e sequenze narrative dal possente valore espressivo che, più della lingua macedone o di quella turca parlata dai soggetti filmati, raccontano silenziosamente allo sguardo una storia semplice e antica quanto il mondo che ci ospita: la storia conflittuale della nostra innata ingratitudine, disarmonia e inadeguatezza di stare al mondo.image1 2

Parassiti del cinema

30 Novembre 2019
Commenti disabilitati su Parassiti del cinema

D2513EDE-9A90-4EB5-AAEC-76A4996CC71A

Parassiti del cinema

Parasite di Bong Joon-ho (Palma d’Oro a Cannes 2019)

Qualche buon momento di cinema asiatico – la fuga sotto il diluvio, la scoperta dei “fantasmi” dentro al bunker anti-nucleare – per il resto i film coreani mi risultano essere sempre un po’ troppo sopra le righe, stoppacciosi.
Eccessivo nelle irrazionalità della sceneggiatura; truculento senza motivo fino al fumettone splatter; allungato come un brodo da concentrato chimico.
Tutto gira attorno a questa morale un po’ deboluccia per imbastirci un intero film, a maggior ragione in una commedia nera: del fare o non fare piani nella vita.
Il regista cerca ma non riesce affatto ad essere graffiante fino in fondo contro la società discriminatoria e classista della Corea del Sud, quella che fa i soldi facili e s’arricchisce con la tecnologia virtuale con cui ha rincoglionito il mondo intero. La pellicola gira un po’ troppo a vuoto su se stessa dimostrando l’ovvio, cioè che ricchi e poveri, servi e padroni, sono tutti di una stessa pasta e puzzano allo stesso modo.
Un finale troppo fiacco poi, moralistico e perciò appiccicaticcio: “Faccio i soldi, mi compro la casa da signori per papà e mamma invece di continuare a fare il parassita”, questo alla fine il sogno naif del protagonista… ma se proprio il film ha premesso fin dall’inizio che la società tutta è parassitaria, allora il protagonista sognatore dovrà pur sempre continuare ad essere parassita per raccattare i soldi e far campare a sua volta quei due genitori superstiti e parassitari altrettanto, uguali sputati ai loro figli.

Frase del film:

Se non hai un piano niente può andare storto!

CC28348C-3309-40ED-A536-F4030A9CAE1B