Nothing was born;
Nothing will die;
All things will change.Alfred Lord Tennyson (1809 – 1892)
The Elephant Man (1980)
A distanza di quarant’anni possiamo tornare in sala a rivedere, meglio, a farci vedere da The Elephant Man (1980) nella versione restaurata da StudioCanal a partire dal negativo originale con la supervisione di David Lynch. Il regista del Montana era qui al suo secondo lungometraggio dopo Eraserhead (1977), e imbastisce una storia patetica di ispirazione dickensiana ambientata in una Londra cupa, industriale, intrisa di miseria e redenzione vittoriane, fotografata dal bianco e nero magnifico del grande Freddie Francis. Il film, prodotto da Mel Brooks e Jonathan Sanger, è un adattamento dal libro di memorie del dottor sir Frederick Treves, The Elephant Man and Other Reminiscences e dallo studio dell’antropologo Ashley Montagu, The Elephant Man: A Study in Human Dignity. Qui la sceneggiatura originale di The Elephant Man a cura di Christopher De Vore, Eric Bergren e dello stesso David Lynch.
La cosa che più colpisce del film è il lavoro sul suono in senso visionario a cui ha contribuito ancora una volta lo stesso Lynch che mette in risalto il rombo inarrestabile e ossessivo della metropoli ottocentesca a far da contrappeso alla difficoltà respiratoria dell’Uomo Elefante pervaso com’è di neurofibromatosi sul cranio e lungo tutto il corpo che non gli permettono di dormire steso, in modo da respirare normalmente. Difatti è una Londra purulenta, cancerosa, pulsante, perennemente in cantiere. È un meccanismo infernale di città rapace, un polmone asfittico di ferro, fumo e piombo. Pubs straripanti d’alcolizzati, orfani, puttane. Tubi d’acciaio, ciminiere, smog e polvere tra strade in costruzione, caldaie a carbone sotterranee, vicoli malfamati dove scorre acqua fuori campo, presumibilmente una perdita di fogna (la scena verso la fine quando Treves ritorna nell’East End a cercare Bytes che si è riappropriato di Merrick e trova il luogo abbandonato, poiché loro sono scappati in Belgio in cerca di altri spettatori e poca fortuna). La bellissima colonna sonora composta e condotta da John Morris rimanda a sonorità equestri malinconiche da circo Barnum, richiama sgangherate fiere di paese sperse nelle piazze fangose d’un lontano passato tra prepotenze da incubo, disumanità gratuita, soprusi immani e squallore senza fine.
Lynch, pervaso d’ironia nerissima, per tutta la durata del film sembra quasi divertirsi sadicamente a manifestare linee di fuga insistenti su registri espressivi che vanno dal sentimentalismo più smielato, al grottesco, al patetico di matrice vittoriana facendo come il gatto col topo, nel suo caso giocando a torturare le emozioni più atroci covate nello stomaco dello spettatore calcando la mano sull’angoscia soffocante, sui nodi in gola, sulla crudeltà spietata, sulle lacrime amare, sulla disperazione senza rimedio ammiccando con l’occhio sinistro al Tod Browning di Freaks (1932) e con l’occhio destro al Werner Herzog di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970).
A proposito del rivedere o del farci vedere da un film tanto viscerale, The Elephant Man è tutto un saggio visivo/sonoro sull’osservazione degli altri, la mostruosa normalità del loro sguardo nei confronti di Merrick lo sventurato freak che a sua volta è spaventato da se stesso allo specchio e dalla paura che potrebbe causare negli altri. E gli altri siamo anche noi, noi spettatori tragicomici, mostri sociali, voyeurs d’accatto, capricci di natura che trascorsi quarant’anni torniamo al buio in sala dopo che non siamo più bambini. Ritorniamo a farci osservare l’anima smarrita tra furiosi impulsi magici e scienza: magia e scienza del grande cinema. Riproviamo cioè da adulti col cuore ormai prosciugato, a farci scrutare dall’occhio pietoso ed elefantino di Joseph Merrick, mai del tutto riconciliati al suo urlo straziante quando rischia di essere linciato da una folla irrazionale e inferocita nelle latrine della stazione di Liverpool Street: Non sono un elefante! Non sono un animale! Sono un essere umano! Sono… un… uomo!