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Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

30 Maggio 2023
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Nonostante tutto, l’innocenza e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.”

Elsa Morante

Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

Con l’escamotage molto sofisticato ed ironico del romanzone d’appendice o del feuilleton alla Dumas, Elsa Morante a poco più di 30 anni nel 1943 comincia a scrivere Menzogna e Sortilegio il cui titolo originario, tra i tanti scartati, doveva essere Storia di mia Nonna.

Con le stesse parole della scrittrice romana, il romanzo è un dramma piccolo borghese trasformato in una leggenda. Il libro intreccia una nevrotica saga meridionale che porta in superficie le ambizioni deluse di tre generazioni di donne. Questo grandioso romanzo della Morante è un’epopea familiare scaturito dalla memoria invasa dai vapori lunari ed erratici di Elisa doppio di Elsa, cioè il personaggio che racconta in prima persona la storia della sua famiglia in una duplice (ambigua?) funzione sia di medium stregonesco e di invasata che incarna le voci dei fantasmi del passato, tanto in quella di testimone oculare dei fatti e delle ambasce accaduti ai suoi genitori di cui si fa giocoliera e solitaria cronista. Menzogne e sortilegi della grande letteratura che attraverso la potenza di fuoco dell’immaginazione e la demiurgica verità della poesia, plasma il mondo, stana la realtà più e meglio della stessa verità della storia. Il Sud della Morante è un meridione immaginario eppure realissimo, barocco e contemporaneo a un tempo. Questo Sud immaginifico è una Sicilia eterna intrisa di magia nera, fosco intrigo di lutti, mistificazione, superstizioni, sessualità repressa, frustrazione religiosa, orgoglio malsano, distinzione di classe. Una Palermo fantastica ma più vera del vero, sospesa nel tempo, immortalata dallo sguardo sarcastico, amaro ed estatico di un Dostoevskij folletto a Palermo o di un Kafka meridionale tutto al femminile. 

Menzogna e Sortilegio è stato scritto in fasi avventurose della vita della scrittrice, durante i tragici anni della II Guerra Mondiale. Cesare Garboli, fraterno amico della Morante nella sua intensa introduzione al romanzo “cosí centrale nella storia letteraria del nostro secolo”, rivelando una commistione illuminante tra il polpettone rosa e il marchese De Sade, sottolinea:

“Mentre gli occhi di tutto il mondo si giravano verso il futuro e puntavano diritti sulla realtà, lo sguardo della Morante si distraeva dal presente, attirato e affascinato dalla profondità di uno scenario spettrale e lontano.”

Un altro grande critico Cesare Cases che reputava Menzogna e Sortilegio tra i maggiori capolavori della nostra letteratura, ragionando sul senso ultimo dell’arte in quanto espressione sia eversiva che consolatoria, quindi di adesione viscerale alla realtà pure se incoraggia la fuga dall’oppressione del mondo presente, scriveva in Patrie Lettere:

“L’arte è di per sé contemporaneamente eversiva e consolatoria: dice la verità sul mondo, ma trasponendo la verità nella parvenza lascia il mondo così com’è e riconcilia con ciò che ha giudicato.”

In questa polverosa rivendita di vini, lo sciagurato padre di Elisa, il Butterato, porta la bimba con sé. Un luogo esotico tipo fumeria d’oppio, dove il Butterato Francesco “nell’effimera animazione dei primi bicchieri” può narcotizzare i sensi e dare libero sfogo alle sue fantasie represse, millantando origini nobiliari e titoli universitari mai raggiunti che la figlioletta osservatrice implacabile testimonia nell’aspetto di “vantatore, menzognero e loquace, pontificante, espansivo fino alle lagrime”. Francesco è uno dei personaggi più dannati del romanzo, altre pagine notevoli sono quelle dell’arrivo di sua madre Alessandra in città, una contadina analfabeta di cui si vergogna amaramente, già quando lui era ancora uno studente iscritto all’università e si era messo in testa di redimere la malafemmina Rosaria.

La realtà si respinge con asprezza rinnegandola fino alla radice, nel suo grigiore prosaico, per amare solo gli spettri. È proprio questo il destino truce dei protagonisti del romanzo. Questa, a pensarci bene, è anche la parabola conclusiva di qualsiasi lettore e scrittore di romanzi. La voce più ricorrente nella ragnatela velenosa di Menzogna e Sortilegio è la parola ambascia. È una voce anomala e gelosa: “squillante e patetica, misericordiosa e animalesca non rara nel Mezzogiorno” come la stessa voce dell’ostessa moglie reclusa dell’oste Gesualdo.

Dall’enciclopedia Treccani: ambàscia s. f. [etimo incerto] – 1. Grave difficoltà di respiro, unita a senso di oppressione. 2. fig. Oppressione dell’animo, accoramento, angoscia.

Angoscia, oppressione, respiro affannato… predominano nelle descrizioni minuziose dello scantinato di Gesualdo, mescita dei vini oppiacei. Nella Quinta parte del romanzo intitolata Inverno, si descrive appunto Gesualdo, un oste malarico di “selvatica tristezza… e tetra indolenza”, e la sua rivendita di vini, una bottega fuorimano con gli avventori popolani “carrettieri soliti a passare per quelle parti, carbonai delle montagne, zingari accampati nei sobborghi”, uomini del popolo dall’ambiguo sorriso e le occhiate sfuggenti. Sono pagine di malinconica, straordinaria bellezza che emanano il marchio a fuoco della poesia più straziante mentre esprimono l’infelicità predestinata, la miseria inconsolabile, l’amarezza funesta, la muta rassegnazione della condizione umana.

Osserviamo e ascoltiamo questo micro-mondo perduto del Sud che è racchiuso a matrioska dentro tutti i Sud del macro-mondo, attraverso lo sguardo e l’udito ammaliati da scettico stupore infantile della testimone Elisa:

“E intratteneva l’uditorio su argomenti filosofici, e citava nomi e frasi di questo o quel sapiente, come fosse in mezzo a un pubblico di dottori. Non di rado, con grandiosità principesca, ordinava da bere per tutti a sue proprie spese: e coloro lo ringraziavano levando i bicchieri colmi all’altezza delle loro fronti e dicendo: – Avvocato, salute! – Lo chiamavano avvocato, sia per l’eloquenza da lui profusa, e sia perché, mi pare, lui medesimo s’era proclamato possessore di un tale titolo; allo stesso modo che s’era dichiarato, Dio sa con qual diritto, figlio di un gran signore; celebrando, nel fuoco dei suoi racconti, viaggi e conoscenze che pretendeva d’aver fatto in passato, e descrivendo paesi, costumi, istituzioni come fosse un cantastorie in una fiera.
Io lo ascoltavo con scettico stupore; ma, a volte, ero quasi convinta ch’egli non mentisse, tanto i suoi accenti suonavano persuasivi e veraci! (…)

Pareva che le sue menzogne, appena dette, e in virtú, appunto, della sua parola di ebbro, non fossero piú menzogne per lui, ma acquistassero tradizione e sostanza di verità. E che ognuno dei circostanti apparisse, ai suoi sguardi ispirati, seguace della sua medesima teatrale illusione. Egli presumeva, certo, in simili momenti, di dir cose ben piú grandi e importanti che delle semplici fanfaronate. Vi furon giorni che, non curando il presente, incominciò a vaticinare progressi, e conquiste, per cui l’uomo dei secoli futuri sarebbe libero e felice; ed ebbe, nel profetare, la medesima foga visionaria di quando raccontava menzogne sul proprio conto. Sembrava, cioè, non un profeta che crede nella sua repubblica avvenire, ma addirittura un messaggero che celebra la propria vivente patria: scancellandosi per lui, nell’artificio di quegli istanti, ogni intervallo fra le parole e le cose, fra il presente e il futuro. (…)

Che mio padre dicesse il vero o il falso, e ch’egli si vantasse figlio d’un gran signore o si lamentasse della sua misera fatica, era uguale per essi. Né davano altra risposta che quei proverbi, o sentenze sibilline, nel loro antiquato accento di nenia”.

Viene in mente Thomas Hardy e le rabbiose sfuriate anti-accademiche di Jude l’Oscuro nelle sue luride bettole d’Inghilterra affollate di umiliati e offesi.

“Dalla porticina sulla strada, alcuni gradini scendevano alla bottega, dove s’avvertiva un odore gelato e macero di cantina mescolato a un aroma d’aceto. Il pavimento di color lavagna era qua e là rotto e consunto, e dalle finestruole a inferriata pioveva una luce scarsa. Sulla destra c’era non piú che tre o quattro tavoli in tutto, circondati da semplici panche e sedie di paglia; mentre che la sinistra era ingombra di botti e damigiane, e vi si apriva sul fondo, dietro il banco, la porticina del retrobottega. Da questo, per una scaletta a chiocciola, si saliva all’abitazione di Gesualdo; e spesso si udivano scender dall’alto, per quella scaletta, come angelici squilli di tromba, i richiami della moglie di Gesualdo, la quale però non si mostrava mai nella cantina, essendo Gesualdo un marito assai geloso.”

E segue la memorabile descrizione del vino servito nella stamberga e dei suoi taciturni frequentatori dai volti semitici, riportata sempre da un’Elisa bimba onnisciente, annoiata in quel tugurio di avvinazzati. Elisa preferirebbe giocare con la gatta selvatica incinta di cui “nessuna qualità domestica raddolciva la sua primitiva natura” a cui l’oste avrebbe in seguito affogato i micetti rendendosi per sempre malefico e odioso allo sguardo innocente della bambina malamata il cui sogno più grande sarebbe stato proprio quello di ricevere in dono uno di quei gattini nuovi tutto per sé, il solo amico possibile in quel suo universo ostile.

“Il vino fornito da Gesualdo, di un genere assai comune nelle nostre parti, era denso, e appena bevuto lasciava sul vetro la sua traccia nero-purpurea, come fosse un sugo di more. Al gusto, però, non era dolce come le more, bensí amaro, pesante; e, dopo un passaggio di vivacità fittizia, produceva malinconia, caligine e sonno. Si sarebbe detto che dovesse quel suo color bruno a semi di papavero infusi. Impastava la lingua e, a berne fuor di misura, gettava in un letargo donde scacciava perfino i sogni, oltre che la memoria.
Mio padre non ne beveva mai tanto da ubriacarsi: egli passava, attraverso la fase dell’esaltazione, all’indolenza, e in questo stato rimaneva assorto senza ricordarsi del tempo, e della mia stanchezza. Finché, in quei sonnolenti vapori, anche la mia mente s’intorpidiva: ed io stavo ad ascoltare, mezzo assopita, le frasi brevi e scarse, per me spesso enigmatiche, delle conversazioni intorno ai tavoli vicini; o, dalla strada, i numeri gridati dai giocatori di morra. (…) A causa del loro viaggiare solitario, o della razza antica, costoro avevano l’abitudine della meditazione e del silenzio: per cui la sonnolenta natura di quel vino era fraterna ad essi. Di solito, sedevano in tre o quattro alla stessa tavola, con gli occhi bassi e velati, bevendo lentamente senza mai guardarsi né dirsi una parola; ed anche nel gioco erano quasi sempre taciturni, indifferenti, sembrava, alla perdita o al guadagno, sebbene trascorressero ore ed ore intorno alle carte. Coi loro volti semitici dalle barbe trascurate, le occhiate indolenti prive d’interesse o di curiosità, non eran diversi, nella specie, dal padrone sonnambulo e dalla gatta selvatica: e non per nulla, certo, frequentavano assiduamente quell’osteria.”

Negli ultimi capitoli di Menzogna e Sortilegio, la piccola Elisa sempre accompagnando suo padre alla bettola di Gesualdo vivrà le sue ore più disperate e umilianti, con il Butterato completamente ubriaco, svenuto sul tavolo della stamberga in un pomeriggio di afa e calura estiva che accentuano l’allucinazione verista, che amplificano lo squallore della scena di questo “pellegrinaggio infernale”.

Dovrà riaccompagnarlo lei lungo le strade verso casa tra le lacrime della mortificazione estrema che la porteranno al culmine di odio e disgusto nei confronti di quel suo tragico padre, nemico di se stesso come quasi tutta la schiera di spettri autolesionisti che animano il romanzo della Morante, un assoluto capolavoro di stile, sensibilità artistica, osservazione del mondo, autoironia che fa dell’autrice una delle più acute rabdomanti della psiche, cronista lucidissima degli abissi del cuore umano.

“Le vie rimanevano ancora quasi spopolate. Vi s’incontravano solo frotte di ragazzetti mezzi nudi che, insensibili al clima, si davano ai soliti giochi e al chiasso; oltre ai primi scarsi passeggiatori domenicali, ancora istupiditi dalla siesta interrotta anzitempo, e a qualche vagabondo che dormiva buttato in terra all’ombra d’un portone, fra nugoli di mosche. Ancora, sulla città regnava il sonno: soltanto piú tardi, calato il sole disumano, le famiglie, le ragazze a frotte sarebbero uscite agli svaghi della domenica, e incomincerebbero ad apparire i primi ubriachi, familiare spettacolo delle sere festive al sobborgo. Ma in quell’ora prematura, attraverso le vie semideserte nella piena vampa del giorno, un ubriaco aveva l’aria d’uno stralunato pioniere disceso da regioni sideree.
I mille metri di percorso dall’osteria fino a casa furono, è certo, un pellegrinaggio infernale per la fiera Elisa De Salvi.”

L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia!

10 Luglio 2020
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Un mondo
Soltanto adesso, io ti guardo
Nel tuo silenzio io mi perdo
E sono niente accanto a te

Jimmy Fontana

L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia!

Scrivo questa nota a margine sulla scia del pandemonio generato dal precedente articolo sulla Liguria di Levante. Mi dicono che l’articolo non è stato ben compreso mentre ritengo sia stato capito fin troppo bene, perciò ha urtato i nervi e la suscettibilità a più di qualcuno. Avrò anche usato toni duri con accenti aspri perché è così che intendo l’attività di critico militante senza mai svaccare nella diffamazione o nella calunnia, sia chiaro. Tantomeno sono animato dal gusto sadico per le sparate a zero fini a se stesse. A quanto pare però ho toccato un nervo scoperto, forse per questo irrita e fa così male! Ho parlato tanto di territorio, mi pare pure con toni sinceramente encomiastici. Ad ogni modo non sopporto più di vedere vilipesa la nostra meravigliosa penisola dal grigiore dell’industrializzazione, dalla tracotanza parvenu, dalla volgarità diffusa, dall’ignoranza bestiale. Osservare la vertiginosa bellezza di vigne terrazzate sul mare per poi trovarsi nel bicchiere della robetta anonima senza un minimo d’imprevedibilità e senza guizzi, una bevanda al gusto d’Alka-Seltzer, lo trovo un sopruso immane, un’offesa al palato, un torto all’intelligenza delle persone. Non è più tempo di descrittori ipocriti da asili nido della degustazione dove si sfornano pinguini caca-aggettivi privi di nerbo. Basta con le sviolinate grottesche da circo equestre dei leccaculi. Fanculo con le piaggerie da filistei, con le manfrine piacione tra chi compra, chi racconta e chi vende. Bisogna avere la pompa di prendere il toro per le corna a rischio di raccattare abbagli per strada sia nelle cose che ci piacciono che in quelle che ci spiacciono. Pompei-Vintage-Poster-1955Consapevole con il detto di Lin-Chi che: “Non si critica un uovo perché non è un pollo“, colgo tuttavia qui l’occasione per rispondere ai produttori risentiti ricordando loro che sono stato invitato, non mi sono autoinvito, alla presentazione dei vini del Consorzio con la raccomandazione insistente di essere quanto più sincero nelle mie impressioni,  libero da pregiudizi di sorta. Io ritengo che il territorio di un consorzio possa crescere molto più davanti a critiche sferzanti ma costruttive che non a sviolinate marchettare come è d’uso da decenni nella pseudo-critica prezzolata la quale tiene assai più a rimpinguare le proprie tasche invece di stimolare alla ricerca, alla sperimentazione e alla libertà nelle denominazioni da cui è abituata a “scroccare” senza dare nulla in cambio se non premi fasulli tra grappoli, bicchieri, forchette, stelle, lumachine, bottiglie, scolapasta d’oro falso.

Sono pienamente consapevole che l’aspetto più urticante del mio pezzo sia l’assenza totale di critica indipendente nel nostro paese, da decenni. I tempi di Veronelli e Soldati sono stati mitizzati abbastanza in maniera mai del tutto disinteressata. Di loro persino i pubblicisti più beceri, i figuri più loschi e spregevoli dei nostri tempi grami se ne fanno paladini a spron battuto, questo giusto per dire che una volta morti ai vari Soldati, Monelli e Veronelli gli si può far dire tutto e il suo contrario, ma restano frasi fatte da Baci Perugina usate sempre a sproposito soprattutto, guarda un po’, da quelli che non li hanno mai letti. 2014_CSK_05638_0080_000(mario_puppo_finale_ligure)Difatti i produttori coccolati stucchevolmente dal pennivendolismo marchettaro nazionale, dai professionisti dell’industria del complimento come diceva Giuseppe Bonura, restano un bel po’ spaesati quando al posto di ricevere lodi sperticate e premi immeritati se la prendono sul personale davanti alle analisi critiche di qualcuno che scrive quel che pensa cioè pensa quel che scrive, con indipendenza intellettuale perché non deve dar conto ad alcuno sponsor né ad altre pressioni commerciali. Ricevono le critiche come una bastonata tra capo e collo per cui impermalositi come sono, il solo modo che hanno di difendersi è controbattere alle critiche svilendole a visioni talebane da paladino dei rettiliani che denigrano il lavoro altrui, accusandole di intemerate estremiste che offendono la dignità di chi si spacca la schiena in vigna e bla bla bla. Eppure la sostanza del mio pezzo, scritta forte e chiara, era proprio intesa a proteggere la dignità contadina di chi si fa il culo in vigna, una dignità purtroppo passata oggi di moda se non estinta del tutto, al confronto di chi invece, e sono la gran parte tra i produttori svenduti dell’intero paese, la dignità se l’è giocata da anni proprio nel barbatrucco delle tre carte in combutta con la critica trombona accomodante e un’enologia omologatrice proiettata ad azzerare l’identità dei luoghi, ad appiattire le caratteristiche dei vitigni, a manipolare il gusto dei consumatori71VJ+5ToVSL

Capisco l’orgoglio d’appartenenza a un territorio tanto unico ma io non credo di aver usato nessuna parola denigratoria o offensiva nei confronti di chi lavora – lavoro anch’io per la cronaca, perché la scrittura se intesa con serietà è un lavoro altrettanto duro, oltre a fare il ristoratore in centro a Roma, attività quest’ultima che mi permette di scrivere se, come e quando voglio. Ho solo fatto una disamina dei vini attraverso i raggi X del palato e della ragione affermando che un territorio tanto unico appunto dovrebbe rispecchiare vini altrettanto unici. Invece su 58 vini assaggiati ho trovato almeno 50 vini che sembravano un unico vino dalle maturazioni fenoliche acerbe e le malolattiche inibite, una monolitica concezione del vino esangue privo sia di sbavature quanto d’individualità.
915Q10aUyyL._AC_SY550_Io trovo molto più offensiva a questo punto l’ipocrisia della stragrande maggioranza della stampa di settore, assecondata dai produttori al seguito, che invece di esercitare una critica fondata su onestà intellettuale, conoscenza della materia, approfondimento di questioni tecnico-scientifiche, si limita solo a fare da cassa di risonanza propagandistica devolvendo premi ignobili, sorrisetti finti e contentini imbarazzanti, disabituando così nei decenni sia i produttori quanto il pubblico stesso tanto gli enotecnici all’esercizio dell’intelligenza autocritica, dell’indipendenza di pensiero, dell’autonomia di giudizio, dell’integrità di palato.

È tutto qui il motivo per cui ha fatto tanto scalpore quel che ho pensato e scritto in assoluta libertà di giudizio senza dover rendere conto a niente e a nessuno se non alla mia coscienza di scrittore/degustatore/ristoratore libertario. Non ho mai affermato che il 2% dei vini che salvavo fossero il modello da seguire ma semplicemente che si distinguevano – e menomale – da quel 98% di vini elaborati tutti allo stesso modo. Si distinguevano magari solo per un po’ di velatura o per qualche giorno di macerazione. Figurati poi se ritengo che bastano giusto questi due parametri tecnici a donare espressività e identità a un vino. Il vino è cosa ben più profonda, spiritualmente e culturalmente complessa da farsi ridurre a questioni formali, a freddi protocolli enologici o a brutali slogan da stadio tipo il trito “convenzionali” contro “naturali”.17140Ho parlato invece di un’identità e di una tradizione destoricizzate senza peraltro mitizzare i “good old times” con la retorica spiccia del “si stava meglio quando si stava peggio”, ma mi sono limitato piuttosto a mettere la pulce nell’orecchio domandando come erano fatti questi vini, da chi e perché; se c’è un legame profondo col passato oppure se il turismo commerciale e l’omologazione del gusto non abbiano definitivamente interrotto questo cordone ombelicale tra uomo-storia-paesaggio. Alcuni dei vini di quel 2% si distinguevano un po’ rispetto alla maggioranza dei vermentini anche se mi hanno dato l’impressione di vini con due piedi in una scarpa cioè vini un po’ rigidi col timore di lanciarsi senza paure di cadere, farsi male e rialzarsi, senza condizionamenti mercantili, irreggimentazioni e cosmesi enologiche. Io la degustazione l’ho fatta con i miei sensi liberi davanti ai bicchieri e l’informazione soggettiva che ne ho tratto, non universale ci mancherebbe fossi così presuntuoso, – piaccia o non piaccia – è quella di un’impostazione tra il monocorde andante e il piatto anemico perenne dove non si coglie nessunissima differenza tra un areale e l’altro, un produttore di una zona di collina o sul mare dal produttore di pianura, perché è tutto grevemente improntato ad una medesima, monolitica mano enologico-stregonesca.

Ho fatto poi un ragionamento generale sulle denominazioni di origine e le difficoltà dei
tanti attori in campo quando scrivevo:

“Tutela e protezione di un territorio vitivinicolo dovrebbero passare sempre dalle mani e dalla testa di chi lavora la vigna… Tutela e protezione riguardano la responsabilità concreta dei vignaioli pure se non è affatto semplice visto che il prezzo delle uve è determinato dal peso in campo delle grosse aziende, cooperative o cantine sociali, destinate a dettare legge imponendo il bello e il cattivo tempo alle realtà più inermi con nessuna voce in capitolo se non la costrizione di accodarsi alla legge spietata che il pesce grande mangia sempre il pesce piccolo. Purtroppo dalle denominazioni più prestigiose a quelle più oscure, il problema è sempre quello della convivenza irrealizzabile tra imbottigliatori, conferitori, produttori grossi e aziende medio-piccole quasi sempre sull’orlo della crisi di nervi.”Rapallo-Italy_Vintage Italian-Travel-Poster_JustPosters_mu1-1500x1500

È su questo punto fondamentale che avrei voluto sentire semmai il malcontento dei produttori, la loro verace indignazione, il loro sdegno feroce. Invece i produttori fanno i capricci, mostrano del risentimento da adolescenti perché qualcuno invitato da loro ad essere quanto più sincero e trasparente possibile piuttosto che ad elargire i soliti 3 bicchieri, 3 stelle, 3 baci al sedere, 3 quello che vi pare, dice pane al pane vermentino al vermentino, scrivendo a malincuore nero su bianco secondo il suo punto di vista – non secondo la Madonna di Lourdes o il Cristo Redentore -, che in un territorio tanto meraviglioso si fanno purtroppo vini snervati, vini sterili e snaturati nella sostanza.
In questi giorni di tempesta ideologica tra i vari messaggi di rimprovero e note d’approvazione, ho ricevuto la mail malinconica di un vignaiolo dei Colli di Luni. È lo sfogo amarissimo di un piccolo vignaiolo tipo David contro il gigante Golia dell’industria farmaco-enologica. La cosa è molto sconfortante ma potrebbero benissimo essere le parole avvilite d’un qualsiasi produttore di una qualsiasi zona vitivinicola d’Italia così come, a pensarci bene, se al mio pezzo sostituissi la Liguria del titolo con il Collio, il Roero, il Sannio, l’Etna, l’Alto Adige, la Gallura, Matelica, il Salento, San Gimignano etc. il succo del ragionamento non cambierebbe di una virgola, avrebbe avuto la medesima coerenza interna visto che le tristi logiche socio-economiche dei consorzi che vado a scalzare, la noia mortale dei giochi di potere tra i produttori con le solite invidie fratricide tra vicini sono ahimè le stesse ovunque, cambiano i vitigni ma il sistema d’appiattimento degli stessi è uguale per tutti e dappertutto. Da qui il titolo di questa nota a margine che estende il pezzo precedente sulla Liguria a tutta la nostra tanto bella ma quantomai disastrata terra madre Italia: L’Italia ai vignaioli, i vignaioli all’Italia! 

Quanto segue in corsivo è un frammento di quel che mi scrive il produttore e mi auguro possa suonare come un monito drammatico per tanti, una chiamata alle armi culturali d’autodifesa. Sì, le sole armi efficaci sono proprio quelle culturali per difendersi dai soprusi dell’ignoranza e dal predominio del pensiero unico o gusto unico che sia. È uno sfogo che dovrebbe farci riflettere tutti, invece di fare i ragazzini offesi e continuare ad aizzare le guerre tra poveri di mente in una terra tanto ricca di civiltà, imprevedibilità, diversità:

<<Non imbottiglio come DOC perché la commissione è fatta sempre dalle stesse persone, quelle che mi trovano sempre da dire: “l’acidità dei tuoi vini è sbagliata”. Ma perché è sbagliata? io non acidifico mai (sono un pessimo cliente per chi vende prodotti enologici), questo vuol dire che l’acidità che ho è quella del Vermentino, delle mie uve. Non uso enzimi estrattori o altre cavolate perché l’uva ha già tutto quello che serve. Seguo solo il processo. E poi ancora “Il colore è troppo scuro, non rientra nei parametri”, ma quali sono questi parametri?, chi li ha scritti? Potrei continuare all’infinito.>>

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[I poster sono del grandissimo Mario Puppo quando l’illustrazione in Italia era affrontata come una vera e propria espressione artistica.]

 

Il Cibo, il vino e la retorica dell’autenticità

12 Agosto 2018
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<<Una società di individui omologati, privi di una propria originalità e di propri obiettivi sarebbe una comunità povera, senza possibilità di sviluppo. Al contrario, si deve tendere alla formazione di individui che agiscano e pensino in modo indipendente, pur vedendo nel servizio della comunità il proprio più alto compito vitale.>>
 Albert Einstein da Pensieri, idee, opinioni (1950)

È quasi Ferragosto. Fa un caldo boia. Si boccheggia in un pantano azzurro d’afa e smog. Ora, senza necessariamente rivangare le elucubrazioni marxiste sull’Invenzione della tradizione dello storico inglese Hobsbawm, mi trovo a spiluccare il volume al fulmicotone sul Cretinorispettabile se non esauriente trilogia sull’argomento – dei due più irriverenti, colti, curiosi e svagati scrittori che abbiamo avuto in Italia, cioè la coppia Fruttero & Lucentini.

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Adesso più che mai che sui social in special modo imperversa e contagia il polverone dell’autenticità del cibo e del vino (il vino contadino puro come una volta, i lieviti indigeni, il lievito madre, l’espressività del territorio, le farine dai grani antichi, il latte da pascolo etc.) contro l’inautenticità dell’alimentazione industriale (la sterile e sterilizzante meccanizzazione dell’agricoltura, la farmacologia applicata alla produzione e alla conservazione di cibi/bevande, la disumanizzazione a batteria degli allevamenti animali a catena di montaggio etc.), mi pare molto utile andarsi a rileggere una paginetta dolceamara dei due maestri italiani dell’understatement F&L.

In uno stralcio di questo pezzo che riporto più avanti, intitolato Gastronomia Retrò, i due autori geniali mettono in risalto le contraddizioni paradossali di certa esasperata ricerca dell’autentico o retorica del genuino, idealizzazioni astruse e romatiche della purezza perduta le quali non possono che fare in maniera tragicomica i conti con un passato di fame, di guerra, di miserie e disperazione, ben consapevoli tuttavia che il futuro non sia chissà quanto più radioso, non a caso una loro celebre rubrica si chiamava inequivocabilmente Archeologia del futuro.

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Il mondo liquido e digitale di oggi forse non è che sia tanto diverso dal mondo dei giornali e dei libri di ieri, ma sono sempre gli uomini e le donne con le loro cretinerie vanesie a tingerlo di tonalità cupe, deprimenti. Viene in mente a tal proposito quanto scriveva Vitaliano Brancati in un pezzo del 1946 sul Tempo dal titolo: I piaceri del conformismo:

<<Una buffa e odiosa parola, disprezzata nei Vangeli, si è gonfiata a dismisura; la parola mondo. Tutti vogliono sapere “dove va il mondo” per andare diligentemente “dietro a lui”.>>
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Riporto qui la paginetta fulminante di F&L come promesso con l’intento che possa stimolare maggior cognizione e minor accanimento in quei vespai online dove ci si punzecchia frivolmente tutti – conformisti e anti-conformisti, vin-naturisti e vin-convenzionalisti, liberi e servi, narcisi e riflessivi – nei quali purtroppo è più facile ritrovare interessi mercantili di corporazione, mode del momento, autoreferenzialità, piuttosto che un autentico spirito critico, uno spirito ribelle alle classificazioni, indipendente per davvero e visceralmente combattivo a servizio della comunità così come auspicato all’inizio dalla frase di Albert Einstein posta in epigrafe.
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<<A ognuno ovviamente la sua madelaine, a ognuno il suo sapore per ritrovare il tempo perduto. A noi toccò l’anno scorso l’invito di una coppia di giovani amici, lei e lui dediti alle arti figurative, lui e lei fervidamente decisi a combattere su tutti i fronti il grande nemico del nostro tempo: l’inautenticità. Quindi: niente compromessi con i mercanti, la pubblicità, l’editoria illustrativa; nessuna ricerca di commesse statali, comunali o comunque politiche; disprezzo per le sponsorizzazioni; orrore per i movimenti, le scuole, le cricche messe insieme da avidi e malfidi colleghi; niente televisione; non un paio di jeans, non una maglietta firmata; una vecchia giardinetta Fiat priva di qualsiasi charme; e beninteso, massima attenzione all’origine di ciò che si mangia.
Una guerra inutile, già data per persa da Leopardi quasi due secoli fa. In questi e in altri assoluti noi non crediamo più, non abbiamo
per la verità mai creduto; ma il rigore, quando sia perseguito ingenuamente e allegramente, come una specie di sfida senza fantasmi, desta simpatia. Dopotutto, è come un gioco di sopravvivenza in un ambiente ostile, ha qualche attinenza con uno dei romanzi a noi più cari (e più “autentici”), il Robinson di Defoe.
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All’ampio tavolaccio dell’ampia cucina ci fu annunciato un piatto di pasta che aveva richiesto particolari attenzioni e che offriva tutti i requisiti della più pura, sebbene rude, genuinità: bigoli di farina integrale conditi con l’acciuga. All’orecchio suonava invitante. Alla vista sembrava appetitoso. Fu il sapore a colpirci con violenza vertiginosa.
Mentre i due giovani lavoravano golosamanete di forchetta, noi ci scambiammo una tragica occhiata, gremita d’immagini di nuovo vividissime, lancinanti: palazzi sventrati, tram capovolti, colonne di soldati in grigioverde, fumo, fiamme, carri-bestiame, mitragliamenti dal cielo, posti di blocco, gelidi rifugi antiaerei, scarpe con la suola di sughero, stoffe inconsistenti, e i bollini della tessera annonaria, i miseri quadratini che davano diritto a pochi grammi di una pasta bruna, amara, immangiabile, maledetta. La stessa identica pasta che i nostri amici stanno divorando come una ghiottoneria conquistata a caro prezzo.
“Ancora due bigoli?”
”No, grazie, davvero.”
”Buoni, no? Non li conoscevate?”
”No, è la prima volta. Ma sono veramente ottimi, una bella sorpresa.”
Come potevamo dire la verità a questi gentili seguaci della purezza? E del resto mentire, per due vecchi ipocriti come noi, non è poi una gran fatica.>>
Fruttero & Lucentini, Il Cretino (Mondadori 2012)

Scienza del Vino tra Natura e Cultura

27 Gennaio 2018
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SCIENZA DEL VINO TRA NATURA E CULTURA

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“Idee che oggi formano la base stessa della scienza esistono solo perché ci furono cose come il pregiudizio, l’opinione, la passione; perché queste cose si opposero alla ragione; e perché fu loro permesso di operare a modo loro.”

Paul Karl Feyerabend, Contro Il Metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza

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Chiunque nutra un minimo di passione per il vino, per la vigna, per i processi di vinificazione e per i fenomeni della fermentazione del mosto, non può non leggere almeno l’introduzione a Wine Science di Jamie Goode (Mitchell Beazley Publisher) che è una sorta di laicissimo Discorso sul Metodo Relativista in merito all’applicazione della scienza al vino in prospettiva critica sugli aspetti più deleteri e le pratiche più nocive (trattamenti con diserbanti, pesticidi ed erbicidi, vendemmie meccanizzate, filtrazioni, osmosi inversa, lieviti selezionati etc.) che compromettono un progresso veramente libero, qualitativo e genuino del vino, limitando quanto più possibile il miracolo controllabile della trasmutazione dell’uva in alcol, dovuto appunto agli abusi della “scienza” e all’eccesso di tecnicismi.

Fa davvero specie – o è risaputa e ordinaria amministrazione? – che un libro e un autore tanto intelligenti non siano ancora mai stati tradotti in italiano.77316E5A-C67D-4BD4-97D9-813B27D0E7DC

<<Gli scienziati sono stati spesso colpevoli di sottovalutare o ignorare cose che non possono essere misurate, allora proviamo ad essere filosofici per un momento. Esprimendosi per metafore, molta gente direbbe che il vino ha un’ ”anima”. È abbastanza diffuso trovare persone coinvolte nel mondo della produzione del vino che mostrano una forte percezione che ci sia un elemento “spirituale” in quel che fanno. Difatti credono bisogna operare con integrità per produrre vini onesti che riflettano una fedele espressione dei luoghi in cui essi lavorano. Gli scienziati solitamente trovano questa sorta di attitudine difficile da comprendere, perché idee come queste non possono essere incorniciate in un linguaggio scientifico. Dunque non sarebbe meglio se potessimo stabilire una sorta di dialogo tra gente del vino scientificamente istruita e gl’altri che scelgono di descrivere le loro attività in termini diversi come ad esempio i sostenitori della biodinamica?A69B4A03-72DF-4C0A-9F81-B5A4F8493D6F(…) la scienza è uno strumento utile (addirittura vitale) nel campo della viticoltura e vinificazione, anche nell’ottica di aiutarci a capire l’interazione umana con il vino. Ma non sto affatto suggerendo, neppure per un attimo, che il vino – questo liquido che migliora la vita perché, piacevole, ricco di cultura e avvincente – dovrebbe venir denudato d’ogni cosa che lo rende interessante ed essere trasformato in una bevanda prefabbricata, in un prodotto industriale, tecnicamente perfetto. La scienza è uno strumento che può aiutare il vino, ma questo non significa che il vino debba appartenere agli scienziati. Per questa ragione lascerò il terreno sicuro e familiare che ci si aspetta da un libro sulla cui copertina svetta il titolo Scienza del Vino, per avventurarmi in alcune delle più coinvolgenti questioni che fanno discutere gli appassionati di vino quali il terroir, la biodinamica e la produzione dei vini “naturali”, vini liberi cioè dagli eccessi della manipolazione tecno-scientifica.>>

[tratto da Jamie Goode, dall’Introduzione a Wine Science, traduzione mia.]

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Qualche Spunto… d’Aceto, su Estetica e Filosofia del Vino

14 Settembre 2016
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Il gusto in letteratura, in cucina, nell’arte, in musica come nel vino è esperienza incarnata, è cultura, è curiosità, è conoscenza, è approfondimento viscerale senza tregua. (Jeffrey Dahmer)

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Dal vino qualsiasi a qualsiasi vino al vino singolare: breve premessa a un’ermeneutica del gusto.

Prendiamo spunto da questo articolo abbastanza banale e piatto che riporto più sotto, per sottolineare un aspetto determinante della riflessione estetica sulla percezione del vino in prospettiva critica. Mi pare una buona occasione per mettere in chiaro un paio di specifici punti essenziali relativi alla definizione del gusto in linea più generale.
Barry Smith, il filosofo del vino cui fa riferimento l’articolo sembra girare a vuoto per petitio principii, incartandosi sulle premesse inclassificabili di una definizione troppo sommaria del gusto senza dimostrarne né i presupposti né tantomeno le conclusioni, tirandosi per i capelli e pretendendo così di sollevarsi dal suolo come il Barone von Münchhausen.baronmunch Confondendo le premesse per conclusioni, evita quindi di giustificare il motivo per cui: “(…) alcuni vini sono più utili di altri (…) e non tutti i vini sono degni della nostra attenzione”.

Non sarebbe allora piuttosto il caso di definire cos’è che stabilisce l’utilità di un vino? Cosa o chi influenza e determina la nostra attenzione oppure indifferenza? Come si arriva eventualmente a precisare, chiarire e distinguere il grezzo dal raffinato? Il migliore dal peggiore? Il superiore dall’inferiore? Una cosa è trovare la sola chiave adatta ad un uscio prestabilito, altro conto fabbricarsi da zero chiave e uscio adattandoli a seconda dei casi e delle esigenze come controverifica delle nostre astute argomentazioni che poi sono piuttosto dei paralogismi. Non per niente questo genere d’ingannevoli petizioni di principio sul genere di: “è buono quindi degno d’attenzione”, senza aver prima chiarito la portata di quel “buono”, mi pare essere una deriva di tanta critica sia umanistica che enogastronomica ammantata di filosofismo – meglio sarebbe dire filosofumo -, che tra le tante variazioni ingannevoli può anche declinare su termini ancor più smaccatamente propagandistici-commerciali con sofismi interessati del tipo: “Il vino è di un marchio (territorio, denominazione, produttore) riconosciuto dunque non può che essere buono (che il più delle volte è equivalente di costoso)”.sanzio_01_zoroaster_ptolmey Mi sono dunque preso la briga di tradurre questo articoletto da Quartz in cui si bofonchia superficialmente di filosofia e di vino perché trovo l’argomento in sé decisivo relativamente a quali debbano essere – se mai siano possibili – i parametri del buono e del bello. Quali sono i criteri di fondo dell’etica e dell’estetica nei nostri giudizi di valore soggettivi che pretenderebbero rappresentare dei fenomeni oggettivi? Sono temi ambigui, questioni inesauribili con cui ogni epoca, ogni civiltà ha dovuto fare i conti a modo proprio. 

Restando nell’ambito musicale ad esempio, visto che il filosofo del vino Smith citava la maggiore complessità e ricchezza compositiva di Bach rispetto a Manilow, mi pare evidente che un giudizio di questo genere presuppone una cultura, una familiarità con l’argomento in oggetto, delle cognizioni acquisite con lo studio e la ricerca, una capacità critica comparativa da parte del soggetto giudicante che si fa più definita, sottile, raffinata man mano che questa conoscenza si amplia o si specializza tanto da poter individuare cos’è quel qualcosa in più che fa la differenza e rende Bach “superiore/migliore” di Manilov..maxresdefault Un conto è apprezzare Bach e Manilov per una certa istintiva sensibilità d’orecchio pur non conoscendo il linguaggio delle note musicali su carta, altra cosa è godere d’ogni sfumatura delle loro composizioni seguendo parallelamente all’ascolto la lettura dello spartito musicale. In questo modo oltre al puro gusto della pagina scritta ritrovata nei suoni, avremo anche la possibilità di distinguere il livello d’interpretazione dei musicisti oltre a poter confrontare con mano i diversi stili compositivi dei musicisti e a tante altre sfumate variabili che rendono la materia sonora approfondita sempre più complessa, stratificata e precisa. 

Ora pensiamo ai differenti gradi d’apprezzamento di un assolo di Charlie Parker da parte di qualcuno che ascolta solo musichette pop grossolane, un jazzofilo naif, un compositore di musica dodecafonica, un jazzista suonatore di sax alto. Evidente che ognuno, a seconda del suo livello d’attenzione/passione/consapevolezza della materia, interpreterà a modo suo il fraseggio di Bird.

charlieparkerrarebird590591Stesso esempio credo può riportarsi pari pari nel vino, dove al posto dell’assolo di Parker mettiamo un Vosne Romanée Cros Parantoux di Henry Jayer 1985, sempre che –  fattore fondamentale quello del prezzo* nel giudizio finale sul vino – si trovino tutti quei soldi necessari per acquistarne una bottiglia. henri-jayer-cros-parantoux-vosne-romanee-premier-cru-france-10201025Davanti a questo gioiello dell’enologia europea adesso poniamo debba essere “valutato” da: uno che beve solo vini da supermercato, un produttore di Pinot Nero in Alto Adige, un produttore di Pinot Nero in Borgogna, un enologo, un agronomo, un produttore di botti, il direttore commerciale di una cantina industriale… insomma ognuno in base ad altre bevute paragonabili di differenti annate del medesimo produttore o d’altro vino, a seconda della sua esperienza personale e del suo privato statuto d’onestà intellettuale, del grado di cultura, del livello di conoscenza circa l’argomento, della consapevolezza tecnica etc. avrà da dire la sua impressione soggettiva più o meno autorevole in merito al gusto, alla superiorità, bontà, grezzezza, finezza, qualità, sapore o utilità del vino degustato.4f5f2e674dedtEppure, tornando all’esempio di Hume riportato da Smith che ricordava come la sapienza di un conoscitore di vino può fargli identificare con precisione se “una chiave di metallo è stata lasciata sul fondo della botte”, bisogna aggiungere che al giorno d’oggi anche le sofisticazioni merceologiche si sono talmente evolute e raffinate da poter ricreare qualsiasi gusto ricercato dalla massa informe di consumatori, tanto come pure dalla nicchia dei clienti più esigenti e avveduti. Paradossalmente le più avanzate enotecniche di vinificazione moderna – sintetizzando chimicamente qualche processo enzimatico di maturazione o quant’altro –  potrebbero verosimilmente dare alla vasca piena di vino il gusto falsificato alla vera chiave di metallo pure se non c’è alcuna chiave in fondo alla botte, facendosi così beffe dei nostri sensi ingannevoli per quanto educati e consapevoli, turlupinando alla fin fine anche il raffinato sapientone dall’impeccabile giudizio estetico immaginato da Hume.  

* Rimando a un ottimo articolo di Raffaele Alberto Ventura sul disagio dei tempi e l’impoverimento generazionale.

(gae saccoccio)

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Un filosofo del vino sul perché “non tutti i vini sono degni della nostra attenzione”.

Per migliaia di anni, i filosofi hanno riflettuto sui grandi interrogativi dell’esistenza umana. Qual è il senso della vita? Che cosa significa essere moralmente buoni? E che cosa, esattamente, fa si che un vino sia piacevole?
Anche se suona faceto, Barry Smith, professore di filosofia all’Istituto di Studi Avanzati presso l’Università di Londra, fa notare che il vino è stato un importante oggetto di discussione tra gli antichi filosofi greci nel Simposio. Dice Smith: “Volevano sapere quanto vino ci voleva affinché la loro conversazione procedesse senza intoppi, ma allo stesso tempo non così troppo vino da perderci ingegno e ragione”.
Ma relativamente al vino la questione più persuasiva per Smith è se le nostre valutazioni su di esso siano o no puramente soggettive.art-of-serving-wine

Smith crede che ci siano risposte sia giuste che sbagliate quando si tratta della qualità del vino. Qualcuno che trovi un vino grezzo, superiore ad un’annata complessa è, molto semplicemente sbagliato, proprio come è in errore qualcun’altro che insista nell’affermare che Barry Manilow sia un musicista migliore di Bach. “Anche se può capitare ad alcune persone di apprezzare più Barry Manilow, noi continuiamo a pensare,” dice Smith “Sì, va’ bene, ma c’è qualcosa che rende Bach superiore sia come compositore che come musicista”.
Essere un critico di vini non è diverso dall’essere un critico d’arte. Per essere bravi a giudicare il vino è necessaria molta esperienza, essere liberi da pregiudizi, sapere cosa aspettarsi da ogni categoria di vino, ed essere abili a identificare i vari gusti.albert_josef_franke_beim_antiquitatenhandlerIl pensiero di Smith sul vino è influenzato dal lavoro del filosofo del XVIII secolo David Hume. Hume sosteneva che le persone dall’impeccabile giudizio estetico sono in grado di identificare i vari elementi all’interno, per esempio, di un concerto o di un’opera d’arte figurativa. Hume paragonava infatti questa sapienza a quella di un conoscitore di vino che può identificare con precisione se una chiave di metallo è stata lasciata sul fondo della botte.ein-herrliches-getraenk-von-eduard-grutzner-19207Alcune persone sono piuttosto scettiche nell’ammettere che la competenza sul vino possa essere messa a confronto con la conoscenza dell’arte, dice Smith, perché credono che la degustazione sia un’esperienza più semplice. Ma in realtà la degustazione è una combinazione di molti sensi che lavorano insieme, non è affatto un evento isolato. In primo luogo c’è l’esperienza di come il vino entra nella bocca e il modo in cui cambia mentre scorre attraverso la tavolozza del palato. La deglutizione poi intercede i vari profumi del vino fino al naso creando un grande rilascio di sapore nella parte posteriore della gola. Infine, c’è il gusto persistente che rimane dopo averlo ingerito.falstaff

“In fase di degustazione si stanno utilizzando varie informazioni esplorando attivamente il vino all’opposto del pensiero che vuole stia avvenendo esclusivamente un evento circoscritto in sé. Si rallenta e si cambia la scala temporale, si cambia quello che sta succedendo. Si sta cioè interrogando il vino, “dice Smith. “Ciò che noi chiamiamo degustazione è infatti il ​​risultato di molti sensi che operano assieme. È il gusto, l’olfatto, c’è la sensazione del vino in bocca, – è come il velluto, il raso, la seta, – e la diversa consistenza avrà un effetto su quanto possa risultare dolce o acido il vino.”nypl-digitalcollections-510d47da-7287-a3d9-e040-e00a18064a99-001-wE così come è possibile fraintendere un’opera d’arte, possiamo trascurare sapori e caratteristiche del vino che beviamo. La conoscenza intellettuale è importante nella degustazione dei vini tanto quanto negli altri giudizi estetici. La vostra esperienza di un determinato vino sarà molto diversa a seconda della vostra aspettativa delle varie categorie dei vini, come nel caso: Bordeaux/Borgogna. Quando godiamo di alcune esperienze estetiche, sostiene Smith, ci concentriamo esclusivamente su uno dei nostri sensi, e la degustazione del vino non è tanto diversa.7412ad1a9143e774d2663072f47c6bea

“Lo stesso grado di concentrazione avviene quando si sta degustando al contrario del semplice bere. Bere è facile. Si prende in mano il vino, si beve e si parla con gli amici.” Ma la degustazione richiede di ignorare le altre informazioni sensoriali in modo che ci si possa concentrare esclusivamente sul vino. “Stai permettendo a te stesso di comunicare con il vino, di mescolarti con lui, di soffermarti su di lui”, aggiunge ancora Smith.
In effetti, l’idea che la pratica di giudicare il vino correttamente sia inferiore a quella di valutare correttamente l’arte può essere fatta risalire alla credenza della chiesa cristiana per cui i sensi del corpo, del gusto, dell’olfatto e del tatto sono necessariamente meno importanti. “L’idea era che la vista e l’udito fossero i sensi più elevati perché ci hanno messo in contatto con le cose a noi prossime ed esterne, indipendenti da noi, ci permettono cioè di essere in contatto con le cose intellettuali più elevate relative a Dio”, aggiunge Smith.nypl-digitalcollections-a4958095-455a-074d-e040-e00a1806792c-001-w

In ultima analisi, le qualità superiori dei vini migliori fanno sì che alcuni vini siano più utili di altri. Ed un buon vino, secondo la definizione di Smith, è un vino che merita la nostra attenzione.

“Non tutti i vini meritano la nostra attenzione, così come non la merita per forza ogni brano di musica o dipinto”, dice Smith. “Deve avere abbastanza complessità da affascinarvi. Deve essere in grado di sfidarvi ed ingannarvi, farvi ragionare su di lui e volerne sapere sempre più. Questo è ciò che intendiamo noi per vino buono.”

[Olivia Goldhill]