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Il vino rivelatore. Dal vivo al VI.VI.T. (di Bruno Frisini)

6 Maggio 2017
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IMG_5190Il Vino Rivelatore

Ho avuto modo di trattare più volte e diffusamente il tema delle fiere del vino artigianale, dei principi di fondo o della distinzione di vedute nell’intricato “flusso” del naturale in Italia; cfr. in proposito – a chi può interessare – la rubrica vino nelle vene che curo su il pasto nudo.

Le riflessioni di Bruno Frisini che riporto a seguire sono suscitate da un’inquietudine legittima, l’inquietudine cioè di chi consuma il vino né distrattamente né tanto per moda apatica o per frivolo intrattenimento. L’avvicinamento al vino in quanto bene liquido contornato di un’aura quasi sacrale, inficiato ma non troppo dalle dinamiche commerciali e dagl’umori altalenanti del mercato, a detta di Bruno, – e sottoscrivo in pieno – coinvolge una sensibilità, un’attenzione, un’etica di fondo che richiederebbero altrettanta sensibilità, attenzione, onestà intellettuale, robustezza etica anche da parte di chi produce, scambia, tratta, promuove o vende il vino. Una sana costellazione di relazioni umane insomma, tra consumatori, esercenti, promotori, produttori ispirati al miglioramento individuale/collettivo e alla condivisione di un benessere agricolo, politico, sociale nel nome della “molteplicità e della creatività”.

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Allora in un mare in tempesta di storie contrastanti da un produttore all’altro, di propositi più o meno buoni, di strategie del marketing (dove o quando ci sono), di filosofie produttive, di visioni del mondo attraverso la vigna e la campagna, alla fine dei conti forse un pratico e molto saggio principio d’orientamento quasi lombrosiano in questo ginepraio di racconti dispersi è probabilmente custodito negli sguardi eloquenti, nei volti espressivi dei vignaioli incontrati dietro ai banchetti. Proprio quei vignaioli stremati certo ma anche elettrizzati dall’atmosfera caciarona della fiera, in piedi assieme alle bottiglie che a loro volta custodiscono il segreto ancora più rivelatorerivelatore come il Cuore del bellissimo racconto di Edgar Allan Poe – dei loro stessi resoconti a parole e a sguardi, il segreto cioè della terra dove sono messe a dimora le radici delle viti da loro prima allevate in grappoli quindi – anno per anno, vendemmia dopo vendemmia, generazione per generazione – tramutate in vino, il vino rivelatore appunto dell’idea, dell’intenzione, degl’obiettivi coscienti o inconsapevoli di chi quel vino lo fa con le proprie mani.

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Dal vivo al Vi.Vi.T. Volti, parole, radici del vino.

Scrivere per qualcuno o per se stessi? Emozionarsi ed emozionare o autocompiacersi di sterili tecnicismi utili solo a generare diffidenza se non addirittura avversione, soggezione, antipatia?
La risposta sembra essere tanto scontata quanto carica di responsabilità. Scegliere di addentrarsi nei meandri della sensibilità umana non è cosa da poco conto. Appare però indispensabile se si è determinati a raccontare un’esperienza talmente legata alla concretezza da sembrare, nella sua estrema autenticità, paradossalmente onirica, irreale quasi.

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Parlare di Vi.Vi.T. è parlare di naturalezza, di piccoli gesti spontanei che verrebbe da descrivere come quotidiani ma che di quotidiano hanno ben poco se si ha come riferimento un mondo enoico deturpato della propria bellezza, ormai privato dei suoi ritmi più veri, tremendamente legato a obblighi commerciali, in cui la propria essenza, il suo germe vitale più puro, viene confinato ad eccezione.

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Cosciente di tutto ciò, non faccio quindi fatica a immaginare il Vi.Vi.T. come ottimo motivo per garantirmi almeno una presenza al Vinitaly 2017.
Arrivato in fiera, gl’occhi e l’attenzione vengono da subito accolti dal solito impietoso carosello liturgico che, fatte le dovute eccezioni, si rivela essere, senza troppi indugi, quel meccanismo servile e mercantile che certamente non trova spazio tra le prime cose che catturano la mia curiosità.IMG_5179

Considerato il poco tempo a disposizione, mi dirigo spedito verso il padiglione 8, ameno luogo di confino di ciò che resta della gran parte della viticoltura italiana più genuina. Provo, nel frattempo, a immaginare un nobile intento, un ideale comune che leghi tutti coloro che coraggiosamente scelgono, ogni giorno, strade così impervie. Non lo nego, l’impresa è ardua, tanto da sembrare impossibile. Se da subito il compito può prospettarsi come facile, immediato, di rapida intuizione, la mente, non accontentandosi di assorbire semplici retoriche di facciata, decide di andare più a fondo, ascoltando le voci, osservando i volti.IMG_5184Il Vi.Vi.T. si presenta come un evento organizzato in collaborazione con l’associazione Vi.Te (Vignaioli e Territori), all’interno del ben più imponente Vinitaly, con l’obbiettivo implicito (?) di scardinare quei meccanismi forse eccessivamente asettici che muovono per l’appunto la fiera che lo ospita.

FullSizeRender copy 6Leggo che il proposito di fondo del Vi.Vi.T è quello di: “raccogliere gli impulsi e le idee di tutto il movimento vino al fine di aggregare, far crescere e condividere il movimento stesso. (…) trasmettere una visione dell’operato agricolo legata alla molteplicità e alla creatività (…) accompagnare una vigna e custodire il proprio vino.”
Parole senza alcun dubbio romantiche che aprono a una visione della viticoltura apparentemente unita verso un fine comune: il vino naturale, perseguito con il medesimo mezzo delle pratiche agricole sane, equilibrate e sostenibili (anche se ormai resta ben poco da sostenere, bisognerebbe bensì rifondare, ma questa è tutta un’altra storia).

IMG_5177A questo punto, mentre sono completamente immerso tra le mie elucubrazioni da  bevitore indipendente nevrotico, comincio ad alzare lo sguardo e mi accorgo che quel padiglione, teoricamente sinonimo di comunione d’intenti e di visioni, appare come un enorme sillabario: Vi Vi TF.I.V.I., VINITALYBIO… per non parlare di ciò che orbita attorno alla Fiera principale di Verona ovvero ViniVeri a Cerea, VinNatur a Villa Favorita. Una moltitudine di anime belle e di esperienze in lotta per la sopravvivenza contro l’annullamento, l’omologazione e la sterilizzazione organizzata, imposta da una lobby spietata sempre più d’impronta industriale che ha come obiettivo quello di dividere senza pietà, di creare contrasti, fratture e attriti per garantirsi il monopolio del mercato nazionale e internazionale.

IMG_5178La domanda è d’obbligo: “Perché continuare a giocare su meri numeri e su questioni politiche se, come detto in precedenza, le priorità sono altre?”
È proprio da qui che vien fuori la tremenda difficoltà nel cercare e trovare un seppur sottilissimo filo che possa accomunare così tante piccole fazioni che dovrebbero e potrebbero accontentarsi di professare lo stesso credo.
Allora che fare? Possibile non ci sia altra scelta se non quella di basarsi su freddi enunciati e più o meno condivisibili manifesti?
Penso e ripenso, la giornata scorre via velocemente ma ancora non riesco a darmi delle risposte che abbiano un senso compiuto. Mi dedico ai vini con accuratezza ma sento che non basta. Parlo con gli amici, parlo con i produttori. Parlo con gli amici-produttori e non ottengo altro risultato se non quello di appurare la bontà di molti loro progetti, scanditi da un’emozione ben visibile che i loro volti lasciano trasparire senza alcun filtro.

IMG_5180Mi fermo, rifletto pochi attimi. Ho tutto ciò che mi serve. Eureka!
È il loro VOLTO, certo, era già lì da subito sotto i miei occhi, la chiave di tutto l’indefinito e indefinibile caos.
Speranze, sogni, umanità, racchiusi in uno sguardo, in un’espressione.
Il vino naturale è si, senza ombra di dubbio, un prodotto agricolo, frutto di un duro lavoro in vigna, coronato poi in cantina, ma prima d’ogni altra cosa è vita, sentimento, vivacità, emozione, che di certo si fa fatica a mettere per iscritto. Il VOLTO delle persone è l’unico strumento autentico di discernimento in una dimensione altrimenti incodificabile. Ognuno con i suoi modi, ognuno con i suoi tempi, ognuno nel proprio mondo, ognuno legato a radici profonde del proprio essere, della propria terra, del proprio vino.

IMG_5181Perché allora pensare di poter stipulare un patto universale che riesca a tener conto di tutte le esigenze? Perché voler appiattire tutto con leggi facilmente riproducibili che portano il consumatore ad accontentarsi della favoletta raccontatagli su quanto tutto ciò sia buono, giusto, pulito? Quando invece bisognerebbe stimolare in quanta più gente, la curiosità e la voglia di una conoscenza autentica di ciò che ci circonda, delle persone che ci sono dietro un’etichetta che, per quanto bella ed affascinante, non riuscirà mai a raccontare e riprodurre quello che uno sguardo trasmette in pochi attimi.
Il vino in quanto naturale dovrebbe avere il compito di rendere l’approccio ad esso semplice, elementare, perché è solo attraverso la semplicità stessa che un vino naturale sarà leggibile e identificabile.IMG_5182Soddisfatto a metà, dopo aver finalmente incanalato un flusso di pensieri che stava per diventare insostenibile, tanto era intricato, confuso, mi dirigo verso l’uscita, buttando un ultimo sguardo verso coloro – gl’artigiani del vino – che avevano scandito la mia giornata assieme al mio umore: sembrava una galleria di specchi.

Quanti volti così simili nella loro diversità.

Bruno Frisini

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Vecchia e Futura Calabria, radici nella Macchia Mediterranea

26 Aprile 2017
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Il nome di Calabria in sé stesso ha non poco di romantico. Nessun’altra provincia del Regno di Napoli offre tale interesse promettente o ispira tanto prima di avervi messo piede. “Calabria!”, appena il nome è pronunziato, un mondo nuovo si presenta alla nostra mente, torrenti, fortezze, tutta la prodigalità dello scenario di montagna, cave, briganti e cappelli a punta, la signora Radcliffe e Salvator Rosa, costumi e caratteri, orrori e magnificenze senza fine!
Edward Lear, Diario di un viaggio a piedi, 1852

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Vecchia e Futura Calabria, radici nella Macchia Mediterranea

(Cirò e Gaglioppo frutti dolci dai suoli aspri)

Padiglione della Calabria al Vinitaly 2017.

Degustazione di 9 Cirò Rosso Classico Superiore condotta da Armando Castagno e Matteo Gallello.

Sono ancora le 11 della mattina. Un caldo appiccicoso da padiglione fieristico, ma già soltanto nei colori, nelle pungenze refrigeranti al naso, i nove bicchieri di vino rosso – nove declinazioni del rosso dal tenue sfumato a intenso – raccontano nove interpretazioni simili eppure diverse di uno stesso vitigno – il Gaglioppo – coltivato a Cirò da un gruppo di vignaioli determinati, ben affiatati fra loro: Francesco De Franco, Cataldo Calabretta, Sergio Arcuri, Vincenzo Scilanga, Mariangela Parrilla, Assunta Dell’Aquila e altri. Viticoltori complici sull’applicazione comune di un’agricoltura sostenibile radicata su consigli pratici e conoscenze teoriche condivise; uomini e donne ostinati a ragione sul rispetto del territorio; artigiani devoti alla tipicità ineguagliabile del loro vitigno unico, di antiche origini proiettate in un avvenire radioso.

Cirò è territorio aspro. Campagna arida intervallata tra montagne e mare. Vigne siccitose ma resistenti a tutto sempre battute dal vento. Vento che sanifica le piante, arieggia i grappoli, impreziosisce i tralci in coesistenza armonica tra l’incudine d’argilla, l’acciaio di calcare dei suoli stracotti e il martello infuocato del sole, portando a compimento quella che sarà la materia sapida linfatica balsamica sassosa – materia viva che ravviva chi se ne nutre – condensata negl’acini compatti, fecondi e coriacei che tramuteranno – come in un mito allegorico di metamorfosi ricavato dalla mitologia greco-romana – da uve Gaglioppo a Gaglioppo vino.

Rileggo volentieri assieme a voi un passo da Vecchia Calabria di Norman Douglas tratto dal capitolo intitolato Coltivatori del suolo:

“Ricordo di avere osservato un vecchio intento a scavare da solo, ostinatamente, un campo. Lavorava nelle ore più accese e quanto gli mancava in forza era sostituito dall’abilità, dalla malizia, nate dal lungo amore per il suolo. La terra era stracotta; ma c’era ancora una speranza di pioggia; e i contadini erano ansiosi di non perderla. (…) In caso di siccità o di inondazioni non c’è una parola di lamentela. Conosco questi uomini e donne, lavoratori dei campi da trent’anni, e non ne ho mai sentito uno borbottare per il maltempo. Non è apatia; è vera filosofia – accettazione dell’inevitabile.”

9 Cirò Rosso Classico Superiore in degustazione:

Una degustazione fugace in occasione della fiera turbolenta, si sa, a cui non ho potuto dedicare più attenzione di quanto abbia voluto estorcendo agli sbattimenti febbrili da fiera, la dovuta concentrazione, una maggior distensione dei sensi ad accogliere percezioni nel tempo, sensazioni nello spazio.

Dovessi trovare un frontespizio sintetico a srotolare lo gnommero d’appunti scribacchiati durante questi nove assaggi è venuto fuori un sottotitolo che ritengo succinto ma nodale: Cirò e Gaglioppo, dolci frutti dai suoli aspri.

Dei 9 vini in batteria ho maggior familiarità o continuità di assaggi negl’anni con i vini numero 4 (Arcuri), 5 (De Franco), 6 (Calabretta). Devo dire che, non avendolo mai incontrato prima, sono rimasto folgorato dall’equilibrio minerale, dalla setosa cristallinità salina del numero 3 (Tenuta del Conte). Tuttavia dal vino 1 al vino 9, nonostante tre annate diverse – 2015, 2014, 2013 – ho potuto riscontrare un filo conduttore sotterraneo di continuità in evoluzione. Un legame invisibile ma ostinato, che identificava un minimo comune denominatore nel tannino duro ma succoso, nell’acidità d’altura eppure marittima (un’acidità costiera), nella vigorosa impronta territoriale, nella mutevolezza di tonalità del frutto da giallino di sorbo o clementina aspretta seppur dolce allo stesso tempo, a frutto rossastro mentolato mai cotto, spremitura profonda di bacche selvatiche allattate alla brezza marina, bacche selvatiche le quali poi non sono altro che grappoli di Gaglioppo polpacciuti di luce d’oriente, grondanti succo di macchia ionica, liquirizia, carrube, lacrime, perseveranza e sudore.

  1. 2015 Parrilla Vini  
  2. 2015 Dell’Aquila 
  3. 2014 Tenuta del Conte
  4. 2014 Aris Sergio Arcuri 
  5. 2014 A Vita 
  6. 2014 Calabretta
  7. 2013 Scala
  8. 2013 Dom Giuva’ Du Cropio
  9. 2013 Cote di Franze

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Evoluzione del Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe + Intervista a Levi Dalton

23 Aprile 2017
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Evoluzione del Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe + Intervista a Levi Dalton

Giorni fa a Verona in occasione del Vinitaly 2017 ho avuto il privilegio di partecipare a una verticale di sei annate del Montepulciano d’Abruzzo Emidio Pepe. Organizzata dalla medesima famiglia Pepe per mostrare l’evoluzione nel tempo delle vendemmie più equilibrate di sempre in azienda, la degustazione era rivolta in special modo alla stampa specializzata internazionale tra cui sono stato gentilmente intruso assieme all’amico e socio Alberto Buemi. Annate più equilibrate di sempre cioè frutto di un andamento stagionale impeccabile; espressione felice di una naturale armonia degli eventi micro-climatici in vigna, esito di una perfetta maturazione fenolica; la proporzione giusta di sole e di pioggia al momento opportuno, come nel caso della eccezionale 2010 – annata modello in termini di condizioni climatiche – appena immessa sul mercato americano, oltre appunto alle altre cinque annate in batteria, ognuna a suo modo splendente di una familiare luce propria, luce profonda del focolare domestico che scalda in segreto il petto:

  • Montepulciano d’Abruzzo 2010 
  • Montepulciano d’Abruzzo 2007
  • Montepulciano d’Abruzzo 2001
  • Montepulciano d’Abruzzo 1993
  • Montepulciano d’Abruzzo 1985
  • Montepulciano d’Abruzzo 1979

[Riferimento bibliografico essenziale per ulteriori approfondimenti sia delle annate che sulla avventurosa biografia di Pepe, è senz’altro il libro di Sandro Sangiorgi, Manteniamoci Giovani. Vita e vino di Emidio Pepe (Porthos Edizioni)copertinapepe_ld_110314_ritagliataIl Montepulciano d’Abruzzo e nello specifico questi Montepulciano qua di Emidio Pepe sono vini con un nerbo, un respiro, una vitalità, un’energia minerale davvero ineguagliabili. Consideriamo poi anche la pratica della decantazione e del reimbottigliamento manuale. Comunque la 1979 e la 1985 (quest’ultima annata più calda con un tannino lievemente più grinzoso) risultano oggi ancora cosí incredibilmente balsamiche, succulente, carnali, vibranti, strabordano di vita… lascio quindi immaginare le altre vendemmie più recenti come potevano essere e soprattutto come saranno negl’anni a seguire. Non è affatto un caso che il motto di casa Pepe sia proprio In Vino Vita!logo-esteso

Ad ogni buon conto il tannino di tutti e sei questi Montepulciano d’Abruzzo indistintamente è un velluto sul palato che assesta quella proporzione magica di balsamicità, polpa sostanziosa, succulenza terragna e sapidità costiera esclusiva dei vini veramente buoni, schiudendo una sezione aurea d’originaria purezza, accentrandosi proprio in quel cerchio ideale tra la bocca e il cuore, un cerchio che è come la natura di Dio a detta del filosofo presocratico Empedocle: “il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte.”

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L’idea centrale dunque alla base delle annate in degustazione era perciò quella di mostrare come il Montepulciano Pepe evolva a parità di condizioni climatiche – o quasi parità – perché è assodato che non ci si tuffa mai nello stesso fiume, inteso che il flusso incessante delle stagioni è esattamente un fiume temporale nel quale trascorrono le opere e i giorni degli esseri umani intenti alle fatiche aspre ma pure dolci del seminare e del raccogliere i frutti dal terreno.

Le due annate che differivano un po’ dalle altre, seguendo questa linea di equilibrio stagionale calibrata sulla 2010, erano la 2007 e la 1993 perché hanno visto avvicendarsi delle estati leggermente un po’ più calde.

Della 1979 e della 2010 invece, quadratura mistica dicevamo dell’esagono temporale dei sei vini in batteria, non avrei mai potuto stancarmi d’infilarci il naso dentro e continuare a centellinarle, a nutrire le narici, a purificare la gola e i polmoni con quell’acidità tesa, quella dolcezza vibrante, quel tannino così liscio ma consistente, luminoso, animato di una sostanza fisica estratta dalle radici. Immagino di dirlo a voce bassa, quasi in un soffio, sussurrandolo in intimità a uno a uno negli orecchi dei lettori che ascoltano, ma davvero la 1979 e la 2010 sono annate perfette! Le annate che hanno avuto la pioggia di luglio che Emidio Pepe ama così tanto perché concede al vino maggiore acidità tartarica e di conseguenza uno slancio verticale superiore ovvero un potenziale d’invecchiamento imponente. Slancio e potenziale in effetti contro-verificati alla prova di persistenza nel bicchiere durante l’oretta di degustazione pure se alla chiusura brusca degli assaggi avrei tanto voluto portare via con me i sei bicchieri, per continuare a mio piacimento, per tornarci eventualmente ancora su dopo in solitudine e tutta calma con il naso, gl’occhi e la bocca, riassaggiare i sei vini poi più tardi per fatti miei, la sera stessa o meglio il giorno appresso.13501837_1806947336200158_4944533915278917167_n-1

Sono stato a Torano a trovare i Pepe un anno fa. Cominciava appena l’estate ricordo. Dopo una passeggiata sotto i vecchi pergolati di viti a tendone – divinità vegetali, oasi d’inerbimento dentro cui smarrirsi lontano dallo strepito superfluo delle città – appena ritornato in cantina dal giro in campagna ho scambiato un brindisi di saluto e alcune battute con Emidio Pepe che davanti alla eccitazione a caldo per quelle vigne appena attraversate, mi fa:

“La pergola è il pannello solare tra l’uva e la terra.”

Chiara e Sofia, rispettivamente nipote e figlia di Emidio Pepe, hanno inquadrato la storia domestica, l’etica giornaliera, la pratica aziendale, le semplici ma rigorose lavorazioni in campagna e in cantina, dedicando un approfondimento accorato alle condizioni climatiche d’ogni specifica annata in degustazione. Perché è pur vero che il vino è fatto, è custodito dalle donne – predominanti in casa Pepe – e dagli uomini, ma prima di tutto è figlio carnale del clima, cioè figlio di sangue dell’annata con tutti i suoi pregi e i suoi difetti.

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Dopo è stato il turno di Levi Dalton – imprescindibile il suo podcast d’interviste I’ll drink to that!, che rende l’espressione Ottimo, sono d’accordo! e si traduce anche letteralmente con Ci berrò su! – il quale ha brillantemente condotto gli assaggi in stile disinvolto e understatement, acume, sagacia, estrema preparazione tecnica ma soprattutto autoironia, una serie di doti queste che nella critica di settore dalle nostre parti è merce piuttosto rara.

Ho avuto modo di chiacchierare una manciata di minuti con Levi, giusto il tempo di scambiare qualche sketch simpatico sui cliché dell’Italia intravista dagl’occhietti spiritati di un newyorkese vispo e affilato come una katana di Hattori Hanzō. Ci siamo poi accordati per una breve intervista che poteva benissimo intitolarsi: “l’intervistatore intervistato” visto che per una volta tanto sarebbe stato lui ad essere sottoposto a domande, lui che ha ormai al suo attivo centinaia e centinaia d’interviste a vignaioli, critici eno-gastronomici, enologi, sommelier, importatori, distributori, enotecari e tanti altri addetti ai lavori di tutto il piccolo grande mappamondo del vino.

Quella che segue quindi è la nostra conversazione informale che ho tradotto in italiano.

Poco più sotto* riporto anche in versione inglese le risposte di Levi alle mie quattro domande.17861917_1955186288042928_4402365823434278995_n

Quattro domande a Levi Dalton

  • Gae Per i miei lettori, potresti spiegare in sintesi qual è l’obiettivo principale, lo scopo che ti proponi con il tuo podcast I’ll Drink to That?
  • Levi Obiettivi, scopi? Non ne so granché d’obiettivi. Quel che so è che conoscevo molte persone nel mondo del vino, viticoltori, sommelier, importatori, critici e tanti altri del settore ed erano tutti estremamente intelligenti, persuasivi, gente che ha vissuto vite molto interessanti che non erano mai stati intervistati sulle ragioni reali che li rende appunto persone così affascinanti. Erano solamente intervistati invece con le solite domande su quale vino abbinare al cioccolato, i vini da isola deserta, e (sempre) il loro vino frizzante preferito sui 20 dollari o anche meno. Aria fritta di domande cui seguivano risposte noiose. Il problema di queste interviste è che presentano domande fatte da persone di cui non importa nulla del vino, domande rivolte ad un pubblico a cui non è stato mai mostrato il vero motivo per cui dovrebbero invece interessarsi seriamente al vino. Ho sempre pensato che doveva esserci un altro modo di affrontare la cosa ed è questa la ragione per cui ho cominciato con I’ll Drink to That!, che è un podcast dedicato a persone che sono sinceramente interessate al vino.
  • G. Durante la degustazione hai detto qualcosa circa la differenza di certe uve affinate in legno piuttosto che in cemento. Puoi spiegare meglio il significato di quanto intendevi sul tema della vinificazione e dell’affinamento in special modo relativamente alla visione del vino che ha Emidio Pepe?
  • L. Il Montepulciano è una varietà riduttiva. I vini fatti con il Montepulciano tendono spesso a ridursi. È possibile che anche il sottosuolo calcareo da Pepe contribuisca a questo. I vini ridotti manifestano sentori di legno. Quando hai un vino ridotto, se è stato affinato un po’ nel legno, può far sembrare invece che l’affinamento in legno sia molto più imponente. E quando assaggi un vino ridotto potresti uscirtene con una frase del tipo: “Caspita, c’è troppo legno in questo vino!” Ma poi quando parli con il produttore che ha fatto quel vino niente sembra davvero così inusuale circa l’uso dei legni, anzi tutto è nella norma. Eppure al gusto, soprattuto da giovane, ti inganna dicendoti “troppo legno!” Ad ogni modo ci sono molti famosi esempi di ciò nel mondo del vino e il Montepulciano non è la sola varietà riduttiva. La Syrah ne è un’altra. Come l’acidità accentua i tannini, così la riduzione amplifica l’impronta del legno. Pepe non usa per niente il legno e perciò questo annulla immediatamente il problema. Pepe è stato visto come un’anomalia per il fatto di non usare il legno ma in definitiva quel che fanno loro in azienda è assolutamente sensato nel contesto del posto e dell’uva con cui lavorano. Per questa ragione loro sono un elemento di contrasto all’idea, una volta del tutto prevalente, che ci sia un solo modo di fare grandi vini. L’idea diffusa cioè che ci sia una serie di linee guida circa i lieviti, le vendemmie, le vinificazioni e soltanto seguendo questi criteri si possano fare grandi vini. Ma a quanto pare non tutte le materie prime e i luoghi sono gli stessi, e usando la stessa serie di pratiche in più regioni diverse non otterrai mai lo stesso risultato. Pepe è in armonia con cosa funziona meglio per loro nella loro località e non hanno mai cambiato visione solo per adattarsi all’idea popolare su cosa bisogna fare per ottenere un grande vino.17862585_1270086696439210_8840490252481416968_n
  • G. Hai citato la Cabala riguardo la batteria dei Montepulciano d’Abruzzo dall’annata 1979 alla 2010. Puoi aggiungere qualcosa di piu specifico circa questa verticale di vini?
  • L. Direi che questa 1979-2010 è stata una batteria molto coerente. Eppure non è certo la coerenza quanto viene in genere notato da alcuni sui vini di Pepe. Piuttosto certa gente a volte rimane fissata sul tema dell’instabilità. Invece per  me, il trionfo di questa verticale è stato proprio un filo rosso di consistenza che attraversava tutta la batteria e potevi ritrovare in tutti e sei i vini. La medesima trama e struttura modulata dalle diverse condizioni delle annate e dal tempo trascorso. Ognuno dei vini ha recitato la stessa frase e se questi vini sono risuonati in modo differente a qualcuno questo è potuto dipendere solo dalla distanza della persona in ascolto del vino.
  • G. Qual’è secondo te l’essenza del vino di Emidio Pepe?
  • L. Non lo so qual’è l’essenza di Emidio Pepe ma le persone me lo chiedono perché in effetti faccio riferimenti alla Cabala nel mio discorso. È un tipo di domanda che proviene dagli intricati, esoterici misteri della Cabala e allo stesso modo arriva a Pepe. Ma non penso comunque che la gente voglia realmente sapere quale sia l’essenza di Pepe. Penso piuttosto che le persone siano trascinate da un certo sentimento quando incontrano Pepe e hanno bisogno di qualcuno che gli spieghi che cos’è che stanno realmente sentendo in quel momento, che è una cosa completamente diversa. Lo puoi vedere dal di fuori, osservando come molte persone che non lo hanno mai incontrato considerino importante avvicinarsi a Emidio Pepe quando lo vedono la prima volta per stringergli la mano, per onorarlo. Desiderano avere quel momento. Questo succede per un qualche sentimento che queste persone hanno, in ragione di qualcosa che stanno cercando e che considerano unico trovare.

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*Four questions to Levi Dalton

Gae To my italian readers, could you recap in few words the main focus, the mission of your I’ll Drink to That?

Levi A mission, I don’t know about that.  What I know is that I knew a lot of people in the wine trade, growers, sommeliers, importers, writers, and more besides, and they were fantastically smart, compelling people who had lived interesting lives, and they weren’t getting interviews that reflected that interest.  They were getting interviews that asked them the same questions about what wine to pair with chocolate, desert island wines, and (always) their favorite sparkling wine for $20 or less.  Boilerplate questions, with bored replies.  The interviews featured questions from people who didn’t care about wine, meant for an audience who had never been shown why they should care about wine themselves.  I thought there was another way to go about it, and that was why I started I’ll Drink to That!, which is a wine podcast for people who really like wine.

G. During the tasting you said something about the “finage” of certain grapes in woods or concrete. Could you explain the meaning of it concerning the winemaking in Emidio Pepe wine-vision?

L. Montepulciano is a reductive grape variety.  The wines made from it tend towards reduction.  It is possible that the limestone subsoil at Pepe also contributes to this.  Reductive wines showcase wood.  When you have a reductive wine, if there is some wood, it can seem like a lot of wood.  You might say when you taste a reductive wine: “Wow, that is so much wood.” But then when you speak with the winemaker of that wine, nothing seems unusual about how much wood they are using.  It seems totally normal.  But the taste, especially in youth, says wood.  There are a lot of famous examples of this in the wine world, actually, and Montepulciano isn’t the only reductive grape variety.  Syrah is another.  As acidity accentuates tannins, reduction accentuates the wood signature.  Pepe avoids using wood, and thus avoids the problem.  They are seen as outliers for not using wood, but in fact what they do makes perfect sense in the context of the place and the grape that they are working with.  For this reason they are a counterpoint to the idea, once quite prevalent, that there is a way to make a great wine.  That there is a set of guidelines about yields, and harvesting, and winemaking, and that if you follow them you will make a great wine.  Because it turns out that not all the raw materials and the places are the same, and that if you use the same set of practices across regions, you do not find the same success.  Pepe is in tune with what works for them in their spot, and they didn’t change to suit a popular idea about what you have to do to make great wine. 

G. You’ve been mentioning the Kabbalah just regarding the line-up from the oldest Montepulciano d’Abruzzo 1979 to the 2010. Could you please say something more specific about that vertical tasting?

L. I would say that there was a lot of consistency in the lineup, 1979 to 2010.  This isn’t what people usually remark upon with Pepe.  People instead can become fixated on the inconsistencies.  For me, the triumph of that tasting was the through thread that you could find between the wines.  The same texture, and the same structure, modulated by the vintage conditions and time.  Each wine said the same sentence, and if they sounded different it was because of the distance from the person hearing it.

G. What’s the essence of Emidio Pepe’s wine to you? 

L. I don’t know what the essence of Emidio Pepe is, but that people even ask that question is why I referenced the Kabbalah in my talk.  That is the kind of question that comes up in the intricate, esoteric mysteries of the Kabbalah, and that is the kind of question that comes up with Pepe.  But I don’t think that people really want to know what the essence of Pepe is.  I think that people are drawn to a feeling that they have when they encounter Pepe, and they want someone to explain to them what they are feeling.  Which is a different thing.  You can witness it in how many people who have never met him make a point of going up to Emidio Pepe when they see him for the first time, shaking his hand, and paying respect.  They want that moment.  That is happening because of a feeling those people have, because of something they are searching for and that they consider unique to find.