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Dettori o la serena rassegnazione della contadinità

11 Luglio 2019
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Il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini. 

Salvatore Satta

Dettori o la serena rassegnazione della contadinità

Dire Sardegna è pensare a infinite Sardegne! La Sardegna è un mosaico composto da migliaia di tessere dove ogni tessera è una rappresentazione singolare della Sardegna. Quindi la Sardegna non è una ma è la composizione vertiginosa d’una moltitudine di Sardegne, una accanto all’altra. Mille e più Sardegne, una dentro l’altra. Una con o contro l’altra.

Prendiamo la Romangia nel Nord-Ovest in Logudoro (Luogo d’oro), incastonata come un diamante di calcare tra Sassari e Castelsardo. Zona storica del Cannonau tra i comuni rivali di Sennori (dove si parla il sassarese) e Sorso (dove si parla il logudorese), con i vigneti che degradano verso gli sconfinamenti del mare nell’anfiteatro naturale che accoglie a sé l’Asinara a occidente e la Gallura a oriente. Terra di confine e senza limiti, come tutte queste Sardegne dentro la Sardegna, compenetrata di civiltà preistoriche testimoniate da Nuraghi, Menhir, pozzi sacri, pietre magiche e necropoli scavate nelle rocce affioranti (Domus de Janas di Abelazu e del Beneficio Parrocchiale, Tomba dei Giganti di Badde Nigolosu).

Terra assai fertile, difatti Porto Torres (la Turris Libissonis dei romani) poco distante sulla costa è stato un approdo di sicura economia agricola per gli antichi romani – olio, grano e vino in quantità – che l’hanno colonizzata/depredata pure se proprio in ragione di questa fertilità la Romangia è stata sempre abitata di modo che un’onda di civiltà passata veniva spazzata via dall’onda di civiltà successiva, lasciando così ben pochi resti del passaggio precedente.

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Qui in questo “unicum armonico” di terra e mare, oliveti, alberi da frutto, campi di cereali che è la Romangia, a dimostrazione della grande elezione territoriale e umana vocata alla coltivazione della vigna, pur senza l’esasperazione della monocoltura tipica dei nostri tempi, sorgeva la Cantina Sociale di Sorso – Sennori nata nel 1955 ma chiusa negli anni novanta. Leggiamo in proposito una notazione sul sito aziendale di Tenute Dettori:

In Romangia sono presenti centinaia di piccoli produttori di uva e di vino. I primi vendono ancora oggi l’uva a vinificatori sardi ed anche italiani. I secondi, vinificano ottimi vini che vendono sfusi entro sei mesi dalla vendemmia. Venditori di uva e di vino hanno ragionevoli ed immediati guadagni e non sentono la necessità di costituirsi in cooperativa.

Entriamo dunque in punta di piedi nella micro area di Badde Nigolosu per l’esattezza, dove si viene per incontrare uno dei più rigorosi e determinati “vignaioli naturali in Sardegna”: Alessandro Dettori.

So bene che lui per primo, a motivo della sua viscerale discrezione, detesta a ragion veduta quel genere di epica trombona che fa osannare a vuoto dalla critica certi fenomeni tendenziosi appena arrivati nel mondo del vino col rischio di creare dei mostri sacri all’ultima moda, hobbisti privi di cantina ma rapaci promotori di se stessi, correndo così il grave rischio di fomentare l’ennesimo maître à penser senza pensiero alcuno. Non me ne voglia perciò se in queste parole che seguono rinvenirà qualche traccia di epica – che non c’è, o se c’è non è neppure lontanamente fracassona -, ma ci tenevo molto a sottolineare una cosa, ovvero che a quanto ho potuto intuire, nella visione organica di Alessandro soprattutto in merito alla viticoltura, il perno centrale è un termine ereditato dal padre che a sua volta gli è stato trasmesso dal nonno pastore: la contadinità.

La contadinità è la fame, quindi la miseria millenaria dei padri e delle madri, che dovevano sudarsi il pane per sopravvivere un giorno in più. Certo può sembrare un termine un po’ desueto oggi, che oramai acquistiamo perfino il cibo su Amazon, ma la contadinità, ci ricorda Dettori, è un ideale etico interiore da tenere saldo a mente. Un sentimento religioso annodato di radici millenarie che si custodisce nel cuore quale dono paterno-matriarcale; un valore dello spirito; una pietra di paragone a confronto con cui considerare sempre e comunque, pur vivendo nel relativo benessere, tutto il futile attorno a noi, il disagio abissale, il chiacchiericcio vanesio, il vuoto ineluttabile legati al consumismo odierno in cui naufraghiamo.

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Immagino sia sempre questo presupposto quasi mistico della contadinità a far dire ad Alessandro Dettori di essere più interessato all’agricoltura e alla viticoltura che non al vino, tanto da fargli scrivere:

Io non seguo il mercato, produco vini che piacciono a me, vini del mio territorio, vini di Sennori.

Ed è proprio nella profonda prospettiva di vita radicata all’agricoltura e al “buon senso agronomico“, che Dettori esprime il fatalismo arcaico di una “serena rassegnazione“, il solo modo possibile per restare davvero umani in modo da affrontare il nostro presente appestato dai non-problemi (il cambiamento climatico), e risoluzioni fittizie (energie rinnovabili), quando invece, se si resta agricoltori di fatto cioè contadini nell’animo, le criticità si risolvono vis-à-vis alla fonte senza ricorrere a falsi espedienti o incatenarsi a contraffatte soluzioni di facciata. A maggior ragione che gli schemi mentali, i modelli economici degli ultimi trent’anni imposti con violenza sulle nostre vite da un’economia scellerata, andrebbero rimessi seriamente in discussione tornando alla gestione della vigna ad personam.

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Ci troviamo in collina, a circa 250 metri sul livello del mare. Lo si respira già nell’aria che qui, in Romangia, il vino è una faccenda plurisecolare, millenaria. Pure in questi primi giorni roventi di luglio, la brezza dal mare continua o il Dio Maestrale quando si degna di soffiare senza far danni, stemperano l’afa, refrigerano la terra, sanificano le foglie delle viti ad alberello che non verranno affatto cimate per condensare in sé quanta più linfa e proteggere così con l’ombra i grappoli dall’insidia del sole corrosivo, mentre risplende implacabile sul terreno bianco come neve.

La composizione del suolo friabile, drenante e ben strutturato, impreziosito di humus, è essenzialmente calcarea (calcari organogeni, calcareniti, arenarie, marne e conglomerati sabbiosi del Miocene), da cui quel bianco quasi innevato, a 35 gradi all’ombra. Un bianco accecante che rispecchia i raggi del sole inondando le vigne di una luce sovrumana anzi pre-umana, tersissima, resa ancora più metafisica dal frinire impazzito delle cicale. Luce meridiana marittima d’incontaminata finezza che distilla nell’uva tutte le fragranze della macchia mediterranea punteggiata da arbusti o piccoli alberi sempreverdi e sclerofilli (a foglie coriacee). Carrubi, lecci, oleastri, allori, lentischi, mirti, filliree, corbezzoli, alaterni, pungitopi, fichi, figu morischi cioè i fichi d’India, di cui una parte è stata estirpata poiché durante le lavorazioni in campo, ricorda ghignando con bonarietà Alessandro, col vento forte trafiggeva i lavoranti della vigna, come un vespaio di spine volanti invisibili .
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Integralmente prodotto ed imbottigliato all’origine nella zona di produzione dalle Tenute Dettori – Società Agricola Semplice, Sennori (SS), Sardegna. Italia.

Questa è l’intestazione fondamentale in etichetta a partire da cui Alessandro Dettori ha propagato, quasi fosse un modello di riscontro sicuro, un banco di prova fiscale attraverso il quale ognuno in vigna e in cantina può controprovare nella pratica la propria onestà intellettuale di vignaioli rispettosi e integri. Suggerendo così una limpidissima, più che legittima idea del vino, del dove lo si fa, di chi lo fa e come lo si fa, indicando con schietta intransigenza direttamente sulla bottiglia, una esplicita direzione anche politica-commerciale se vogliamo, a tutti i vignaioli che producono il vino da uve di provenienza delle proprie vigne e imbottigliato nelle loro stesse cantine di proprietà.IMG_2331 2

Restando sul vino, la contadinità che dicevamo prima è l’impronta del terroir sul vignaiolo il quale a sua volta imprime la sua mano al terroir che non è niente se prima non c’è una comunità di uomini e donne impegnati in un qualche mestiere artigianale che si intraprende con lo stesso fervore impetuoso di una professione di fede. La contadinità è la filigrana rupestre che valorizza in quanto bene inestimabile gl’acini sanguigni del Cannonau, del Vermentino, del Moscato, della Monica, del Pascale di Dettori, raccolti alla giusta maturazione fenolica e selezionati grappolo a grappolo così da farli macerare in svariate vasche in cemento nella cantina splendidamente essenziale, di concezione spartana e impostazione razionale.IMG_2028

La cantina essendo interrata è a coibentazione naturale. Le pareti, spesse due metri, regolano una ponderata umidità, ritmano il respiro sotterraneo di questo luogo vivente basilare alla maturazione, all’incistamento alcolico e alla mineralizzazione che salvaguardano l’anima del vino in bottiglia.

Macerazioni corte, residui zuccherini e tannino sono la cifra stilistica, la personalità dei vini di Dettori perché tannino, zuccheri residui e macerazioni corte sono anche il monogramma inciso a fuoco dal territorio su questi vini, a prescindere dallo stile personale del vignaiolo. Tuttavia sono molto determinate e assai precise le intenzioni programmatiche a casa Dettori, di far vini granitici, orgogliosamente in contrasto con l’enologia convenzionale. Il cemento poi, onnipresente/onnipotente in cantina, acutizza le cadenze ossidative, che a differenza dell’acciaio, donano al vino grande profondità espressiva, franchezza di beva, tensione aromatica, spessore tannico, persistenza, nerbo, succulenza.A82122C0-6AD9-4C99-A9AC-2B3FFCB439EF

Alcuni anni fa, assieme ad Alessandro Dettori, in una suggestiva villa Leopoldina della Valdichiana, avevamo organizzato un incontro pubblico sui suoi vini e la sua visione agricola del mondo. Fu una giornata magnetica. Il pubblico rapito all’ascolto su temi di botanica, fotosintesi, composizione dei suoli, malattia delle piante, trasformazione delle uve in vino. Un incontro cominciato il pomeriggio e finito dopo cena alle ore piccole, satolli fino alla beatitudine terrestre sorseggiando Vermentino, Cannonau, Moscato. All’indomani avevo chiesto ad Alessandro di mandarmi una breve sintesi del suo rapporto con il vino, così l’avrei potuto utilizzare ad integrazione di un pezzo che ero intenzionato a scrivere sulla giornata di assaggi appena trascorsa, dialoghi e ragionamenti fatti assieme, ma che poi non ho più scritto. Non l’ho più scritto per inconstanza; per la solita ansia primordiale che provo quando comincio a scrivere e subito mi paralizza l’anima. Un’angoscia dell’inutilità congenita alla scrittura, connessa all’idea fissa che scrivere è banalizzare la realtà, semplificando ciò che è troppo articolato e complesso per essere ridotto a parole, dette o scritte che siano.

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A distanza di alcuni anni quindi, i giorni scorsi sono stato a trovarlo in cantina. Abbiamo passeggiato assieme tra le sue vigne centenarie ad alberello sardo “sotto il sole giaguaro”. Ci siamo rinfrescati all’ombra di un lentisco di almeno trecento anni. Adesso che ne scrivo penso – forse mi autogiustifico? – che se non ne avevo più scritto allora, è perché le cose vere, le cose intense, le cose belle della vita vanno lasciate decantare nell’attesa a distanza, si mineralizzano nel tempo come i vini genuini autentici accuditi alla fresca semioscurità della cantina. Le cose importanti vanno sapute aspettare con la “serena rassegnazione” nella psiche, perché anche la scrittura è a suo modo una forma di agricoltura. Esercizi di austerità e distacco che insegnano a vivere con meno apprensioni. Perché scrivere è seminare parole, dissodare segni d’interpunzione, solcare righe, tracciare frasi, mietere silenzi, raccogliere sentimenti.

Ecco quanto mi aveva scritto Alessandro Dettori quella volta in Toscana:

“Sognavo di viaggiare, scoprire luoghi ed i suoi popoli. Studiare filosofia o fisica, magari entrambi. Un tempo volevo anche fare il missionario laico. Ecco perché il vino, la sua genesi, è per me amore ed odio.
Odio perché non mi fa andar via, non mi fa oziare. Odio perché non mi perdona mai. Amore perché è la mia unica vita nonostante qualsiasi altra cosa desideri fare.
Pertanto posso sembrare apatico? Per niente. Non voglio sbilanciarmi, non voglio perdere la testa per questa donna che non mi ama, non è mai stata lì per amare ma farsi solo amare. Ed io allora mi proteggo tenendola a distanza. Perché ho sbagliato tante volte anche in amore per non riconoscere questo tipo di relazione.”

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Massa Vecchia Bianco 2005. Niccolaini e la Successione di Fibonacci

10 Agosto 2016
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13892249_1826904844204407_5779370592164676814_nLa successione di ‪Fibonacci‬ è una sequenza di numeri interi positivi in cui ciascun numero è la somma dei due precedenti ad infinito:
• luce,
• luce,
• luce, pietra,
• luce, pietra, sostanza,
• luce, pietra, sostanza, sudore, cognizione,
• luce, pietra, sostanza, sudore, cognizione, bontà, fusione, gioiadivivere.. (∞)
Questo è il Massa Vecchia Bianco 2005 (70% Vermentino + 15% Sauvignon + 15% Malvasia di Candia) o della Sezione Aurea del vino buono fatto dall’uva sana e dalle mani consapevoli d’un uomo, d’un contadino duro e puro radicato alla Maremma più verace.13872767_1826594734235418_4483821181533679799_n

ps.

Rimando alla come sempre intensa lettura di Giampiero Pulcini in Accademia degli Alterati