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La vita breve ma intensa del panettone artigianale

19 Dicembre 2019
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La vita breve ma intensa del panettone artigianale

Questo sentimento popolare
Nasce da meccaniche divine

Franco Battiato

Quella del panettone artigianale è di fatto una vita breve. Breve nell’arco dei 30/45 giorni di scadenza dichiarata in etichetta, dopodiché tende a rinsecchirsi a differenza del panettone industriale la cui shelf-life va oltre i 10 mesi poiché è composto da un mix di farine (semilavorati), aromi artificiali di sintesi, lievito di birra. Dolce natalizio “gonfiato” di mono- e digliceridi degli acidi grassi, proteine del latte in polvere, miglioratori, additivi, coloranti e altri emulsionanti intesi a conservarlo “umido” e “piacevole” nel tempo.

Non tutto quel che proviene dall’industria alimentare è negativo, intendiamoci. Basti pensare al pirottino o lo stampo professionale per panettoni alto in carta ondulata rinforzata che permette di cuocere l’impasto del panettone direttamente in forno che è facile utilizzarlo anche durante la fase di lievitazione. Quella del pirottino è un’invenzione che si attribuisce ad Angelo Motta il capostipite dei panettoni da Supermercato e da Grande Distribuzione Organizzata, una trovata fondamentale nella produzione dei panettoni, l’unica invenzione che conti davvero nella preparazione degli stessi e difatti è un apporto tecnico non commestibile.09111FF6-06BE-453A-93F3-42856F75704A

Il panettone artigianale della tradizione natalizia tra arte della panificazione e scienza pasticciera, è una cartina tornasole su cui valutare il rigore scientifico, l’integrità artistica delle preparazioni sia da forno che da pasticceria. Parliamo di un prodotto dolciario da forno a lievitazione naturale. Alta qualità degli ingredienti esclusivamente naturali con una filiera restrittiva delle farine e frumenti. Autenticità del lievito madre naturale, bontà del burro, delle uova fresche, delle bacche di vaniglia e dei canditi su tutto. Tempi di produzione molto lunghi dalle 36 alle 48 ore di lavorazione. Doppio impasto. Lievito madre vivo. Controllo minuzioso delle temperature e dell’umidità d’impasto sia in lievitazione che in cottura. Nessun utilizzo di conservanti, addensanti o emulsionanti (monodigliceridi, fosfolipidi) come invece praticato dall’industria alimentare per “mantenere in vita” – manco fosse un malato terminale – e sempre un po’ umido il prodotto finito anche dopo svariati mesi, tanto quando lo si scarta esala l’odorino nauseante o meglio la puzzetta tipici delle merendine confezionate industriali.79172920_2431397070322390_2168644578205237248_oIl panettone artigianale così realizzato avrà una scadenza di massimo 30/40 giorni dopo i quali perde giustamente in fragranza e in freschezza. Ha senz’altro un costo più elevato rispetto ai panettoni dell’industria moltiplicati a catena di montaggio perché elevati sono i costi della lavorazione manuale e degli ingredienti giusti, però la differenza con gli artefatti lievitati industriali è abissale. Dopo la data di scadenza il panettone artigianale è da considerarsi sicuro anche se non avrà preservato le stesse caratteristiche organolettiche di quando era fresco, difatti il prodotto potrà risultare più asciutto.

Assieme ad Alberto Buemi in collaborazione con Christian Nicita di Acquamadre, eroica sala da te in stile Gong fu Cha con cucina halai dolce e salata in centro a Catania, abbiamo proposto anche quest’anno il contest amatoriale d’assaggio dei panettoni coinvolgendo un pubblico di dissociati peggio di noi. Eravamo quasi trenta persone. Sedici erano i panettoni degustati e valutati alla cieca. Una scheda anonima da compilare secondo i parametri del colore, della qualità degli ingredienti, del profumo, della sofficità/fragranza, dell’alveolatura, dell’uniformità di distribuzione della frutta, della cottura, del gusto.

Il signor Sakamoto di MidorItaly ha messo a disposizione la sua sapienza sul tè verde offrendo a tutti i partecipanti una tazza di Sencha preparata dalle sue mani nei ritmi rigidissimi e dilatati del cerimoniale giapponese del tè, correndo il rischio di venir linciato a furor di popolo poiché lui è ancora là che sta preparando il te’ nella sua calma serafica, incurante che l’evento è terminato oramai da qualche giorno, mentre noi stiamo già preparando l’edizione de La Vita del Panettone 2020.
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Capirete bene come le variabili in gioco siano complesse e stratificate. Quale dovrà essere la temperatura di servizio dei panettoni? Molti artigiani consigliano di lasciar temperare il prodotto per 24 ore a 20-22 gradi in modo da far esaltare meglio tutti gli aromi; o di lasciare il panettone davanti una fonte di calore (camino, termosifone, forno) così da ammorbidirlo per bene. Poi se si volesse avere un parametro più razionale di riscontro all’assaggio, andrebbero tagliate fette uguali per ciascuno dei panettoni degustati ma soprattutto, ognuno dei panettoni, per maggior equità di giudizio, dovrebbe avere come lotto uniforme lo stesso giorno di produzione segnalato in etichetta, altrimenti come è successo con uno dei panettoni arrivato il giorno dell’evento, risultava avere “una marcia in più” rispetto agli altri, essendo stato sfornato la mattina e difatti è sembrato essere molto più piacevole proprio perché percepito a ragione più fresco e fragrante.IMG_8646

Noi si organizza da anni ormai questa degustazione con spirito giocoso ed epicureo certo, senza però dimenticare un’attitudine sperimentale, una propensione didattica al piacere di assaporare, all’urgenza conoscitiva di studiare il palato nostro e dei nostri simili con tutti i condizionamenti culturali, economici e sociali di contorno. Siamo perciò motivati a capire l’origine degli ingredienti alla base della materia prima, in special modo su un prodotto di così profonda elaborazione quale il panettone tradizionale, pur consapevoli dei limiti intrinseci, delle variazioni sul tema e delle variabili infinite come appena sottolineato.

Tanto per fare qualche esempio di complessità, pensiamo alle tre fasi di impasto e le tre lunghe lievitazioni nel panettone di Vincenzo Tiri; oppure all’utilizzo atipico della farina di grano tenero di tipo 1 in quello dei Severance; o l’uvetta passa di Pantelleria con i semini bruscati dal sole che scrocchiano in bocca nel panettone tradizionale dei Fratelli Longoni, cosa che ha destato meraviglia nel pubblico incuriosito degli assaggiatori. Così come, sempre i Severance, Angelo De Vita & Paola Tomasiello, ci tengono molto a dichiarare con orgoglio campano in etichetta che: “Nonostante l’alta percentuale di tuorli, la colorazione tenue dell’impasto è dovuta esclusivamente al colore molto chiaro dei tuorli, questo ne denota un pregio non un difetto: le galline si nutrono di mangimi biologici e di germogli e semi che trovano all’aperto e non di mangimi addizionati di capsantina o cantaxantina, né soltanto di mais.”

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Come negli anni scorsi comunque, il panettone industriale inserito nella selezione alla traditora, non si è piazzato affatto all’ultimo posto. Secondo noi la ragione di ciò non è affatto il tipico qualunquismo da “perché la gente non capisce niente”, ma piuttosto perché il comparto degli aromi, l’ingegneria dei semi-lavorati sono più potenti di tutti noi e conoscono bene i loro polli, cioè la massa dei consumatori medi che non siamo altro, per infinocchiarli, per infinocchiarci a dovere, producendo alimenti e bevande popolari a prezzi sottocosto che ci sarebbe da domandarsi come fanno. Sempre alla cieca c’era il panettone di uno chef di cui non farò nome che si è piazzato ultimo, quindi forse la gente comune capisce ancora qualcosa. Al naso questo panettone a me sapeva di pan carré San Carlo aperto da mesi, rancido e con la muffa. Me lo ha confermato pure il piccolo, sveglissimo Duccio alle cui narici innocenti ho sottoposto una metà di quel panettone decisamente sgradevole.

Voglio dire – per traslare l’esempio sulle pizze – che il nemico da combattere alla fine è senz’altro Domino’s Pizza che rinnega per statuto l’artigianalità della pizza, ma anche tanta artigianalità fasulla ahimè, pure tra i pizzaioli affermati, che abusano di farine industriali, ecco anche questa pratica diffusa andrebbe osteggiata a brutto muso. Detta in francese: bisogna dare i premi, sostenere e supportare quei pochi eroi sottopagati che producono il grano, i cereali e le farine con serietà. Bisogna cioè sfanculare una volta per sempre i Master Chef, i Super Pizzaioli, i Pasticcieri Star solo chiacchiere e distintivo, per premiare i contadini, il comparto agricolo e chi, al di là dei riflettori spenti, lavora di fatto a fatica le materie prime fondamentali (grano, latte, uva, uova, olive etc.)

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Una delle giustificazioni più tipiche e ridondanti che sento sbandierare spesso nei discorsi sul cibo o il vino industriale è una spiegazione tanto ingannevole quanto strisciante:

“Non tutti possono permettersi di mangiare e bere i prodotti costosi, le specialità di nicchia.”

Che presa così non fa una piega come generico ragionamento politico-economico visto che siamo tutti chi più chi meno, schiavizzati dal Tempo, condizionati dal Denaro. Abbiamo a malapena gli intervalli di tempo per respirare, aria inquinata oltretutto, figuriamoci se riusciamo a trovare la concentrazione giusta per leggere le retroetichette dei cibi, gli ingredienti o i processi produttivi delle bevande con cui pretendiamo nutrirci. Ma quello che io contesto con forza è l’analfabetismo diffuso nei confronti del cibo e del vino. Non c’è nessuna educazione alla gastronomia che per me dovrebbe partire fin dall’asilo nido. Invece la maggioranza della gente, già dall’infanzia, è abbandonata a se stessa o meglio è immessa in un gigantesco laboratorio di cavie umane il cui gusto è adulterato, condizionato violentemente a partire dall’allattamento artificiale agli omogeneizzati, ai vini zuccherati o edulcorati ad hoc, mentre nel frattempo la farmaco-ingegneria degli aromi, la fabbricazione seriale degli alimenti assieme ai burattinai della Pubblicità si strusciano le mani e gonfiano a dismisura le loro pance e i loro conti in banca.

L’inciviltà gastronomica è un’inciviltà innanzitutto sociale, una barbarie culturale diffusa. Fossimo tutti più civili, educati al cibo – è esattamente questo il cuore del mio ragionamento utopico -, avremmo un sistema salariale meno ingiusto, dei costi più equi, una sanità pubblica meno devastata, una qualità media dell’offerta alimentare non così bestiale a prezzi folli, sia perché troppo elevati che al ribasso, con una discrepanza vertiginosa tra qualità infima o altissima, quale riscontriamo appunto noi oggi nella nostra sempre più grigia irrealtà quotidiana.

Più civiltà gastronomica per tutti, maggiore coscienza critica dei consumatori terrestri, significa meno ingiustizia quindi più cura di se stessi, degli altri e del mondo in cui si è, finché dura!

Bruna Ferro Carussin dalle sue splendide vigne a San Marzano Oliveto (Sud Monferrato Astigiano) come negli anni scorsi, nello spirito festivo di gioia condivisa, ha partecipato alla buona riuscita dell’iniziativa con il suo moscato Filari Corti 2018 da uve Moscato Bianco di Canelli al 100%. Atto d’amore per il suo territorio e per la civiltà contadina a cui Bruna appartiene. Vino di grande equilibrio della componente aromatica senza stucchevolezze, vibrante contrasto tra la dolcezza del frutto e la freschezza minerale della bollicina, sostenuti entrambi da un’acidità ben tesa e la maturazione croccante dell’uva; abbinamento a dir poco perfetto sui panettoni artigianali… artigianali eccetto uno!IMG_8394

Questi a seguire i panettoni in ordine sparso assaggiati e valutati alla cieca da un pubblico amatoriale di appassionati il giorno 15 dicembre 2019 a Catania. Mancava all’appello un fenomeno assoluto e rigoroso come Maurizio Bonanomi della Pasticceria Il Merlo (Pioltello Milano) a causa di una consegna rovinosa con i panettoni arrivati a destinazione sì, ma spappolati.

Una riflessione generale che viene subito in mente a caldo è l’osservazione di quanti bravi pasticcieri stanno via via emergendo dal sud Italia nonostante la tradizione milanese del panettone, vedi Pietro Cardillo A Maidda (Trapani) e Valerio Vullo Pasticceria Sauvage (Catania).

Panificio A Maidda di Pietro Cardillo (Trapani)

Infermentum (Verona)

Pasticceria Marisa Lucca Cantarin (Padova)

Eurospin (Duca Moscati)

Denis Dianin (Padova)

Posillipo Dolce Officina Arduini/Falcione Gabicce Mare (Pesaro Urbino)

Lillo Freni Pasticceria Freni (Messina)

Severance Angelo de Vita e Paola Tomasiello (Roma) 

Vincenzo Tiri (Acerenza, Potenza)

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Fratelli Longoni (Carate Brianza MB)

Antonio Colombo Ristorante VotaVota (Marina di Ragusa)

Renato Bosco Saporè (Verona)

Fornai Ricci (Isernia)

Pasticceria De Vivo (Pompei)

Pasticceria Sauvage Valerio Vullo (Catania)

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Questo nostro non ha nessunissimo intento classificatorio ribadisco, ma è solo un modo conviviale di approfondire assieme ad altri appassionati che condividono la nostra stessa fissazione gastronomica. Lo consideriamo insomma un approccio giocoso e amatoriale di approfondire un mondo tanto vasto e complesso come quello dell’alta pasticceria. Dalle schede raccolte alla fine dell’assaggio dei 16 panettoni in forma anonima, facendo una media dei punteggi raggranellati, questi che seguono sono risultati essere i 5 panettoni che il pubblico ha maggiormente apprezzato:

 • Andrea Zino – CANEPA 1862 caffe pasticceria Rapallo-Genova

 • Vincenzo Tiri – Tiri Bakery & Caffè – Potenza

 • Francesco Borioli – Infermentum, Stallavena – Verona

  • Lillo Freni – PASTICCERIA BAR GELATERIA FRENI – Messina

  • Renato BoscoSaporè, San Martino Buon Albergo – Verona
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• Valerio Vullo – Café Sauvage – Catania

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Antonino Leto, macchiaiolo d’un mare che non c’è più

28 Ottobre 2018
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Antonino Leto, macchiaiolo d’un mare che non c’è piùIMG_2064

Per lui, a un certo punto, tutta la vita prese il colore di una verità invariabile, fissa, in modo che meglio la bellezza potesse coincidere con lo stupore religioso che si prova davanti alle manifestazioni della natura. Questo era il suo realismo, il suo coraggio di guardare alla vita con occhio sereno, impietosito, privo di illusioni, incurante di consolazioni. 

A. Parronchi, La visione realistica di Fattori, “L’Approdo letterario”

Alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo una intensa retrospettiva dedicata ad Antonino Leto, macchiaiolo del mare.

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Questa Casa di Anacapri (1882) è la casa dove vorrei esistere per sempre. Fuso nel dipinto. Connaturato al microcosmo vegetale della tela. Diluito alla temperatura della sola luce vera – la Luce Mediterranea – sintesi fiammante di dolore, di serena quiete e di dolcezze amare.

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Allora a proposito di questi luminosi paesaggi marini di Antonino Leto in mostra alla GAM di Palermo, il sentimento più disperato che sembrano tramandare a noi oggi in controluce, è una pena logorante, uno sdegno represso in forma di dipinto per qualcosa che poteva essere e non è stato. La nostalgia ingannevole per qualcosa che non sarà mai più o che forse non fu mai come l’immaginiamo noi ora con gli occhi del presente, un presente che alla fin fine è sempre troppo sleale nei confronti del passato cioè tanto meschinello a paragone del futuro.

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Simbolo angosciosamente significativo, presagio tragico rovesciato è La Mattanza a Favignana (1881-1887), dove gli uomini sono intenti a infiocinare i tonni in un ribollire di sangue e d’acqua salata. Quella stessa acqua di mare che oggi è inesorabilmente desertificata dai tonni mentre gli uomini sono sempre più infiocinati dalla mattanza autodistruttiva della devastazione ambientale volontaria e dall’inquinamento industriale che con una mano porta benessere o progresso apparenti, ma con due mani ci ha affossato in un pantano mobile di merdaccia chimica pre e post-digestione. Benessere o progresso apparenti che pur di sfamarci tutti ci ha infamato implacabilmente la dignità di vivere, respirare, fottere, mangiare, bere il giusto ma bene.

Antonino Leto, nato a Monreale il 14 giugno 1844 morirà a Capri il 31 maggio 1913, in estreme condizioni di povertà.

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Questi di Leto sono dei quadri rivelatori della nostra coscienza sporca che poi ci ha sporcato la vita tutta intera; quella vita biologica, psichica, sociale, politica, morale, economica, culturale, gastronomica, emotiva e sentimentale, una vita in buona sostanza falsa e colpevole che pretendiamo, con la goffaggine dei sopravvissuti alla Grande Noia contemporanea, essere invece autentica e innocente.

Infine, queste tele ci appaiono quali miraggi cromatici, raffigurazioni di nodi in gola attorcigliati ai profumi lontani, inestricabili dai sapori perduti per sempre di quando l’Italia non era ancora quella pattumiera ributtante abbandonata a se stessa nella discarica a cielo aperto del Mediterraneo.IMG_204962fba477-64e5-4dbe-832e-a49eb61db497

 

Palermo/Taormina 27-28 ottobre 2018

Il Vino come Narrazione del Paesaggio nel Tempo e nello Spazio

22 Dicembre 2015
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“La degustazione come l’amore comincia dagli occhi” Luigi Veronelli

Catania, Domenica 13 dicembre 2015 rabelais02al ristorante Il Carato di Carlo Sichel e Paola Pisano, assieme agl’amici Bevitori Indipendenti Alberto Buemi e Valerio Capriotti e a tutta la confraternita rabelaisiana dei Nasi Scintillanti al maestro Alcofribas coppiere supremo del grande e grosso assai Pantagruele.

Verticale dal 1988 al 2007 dei vini personalissimi e universali di Josko Gravner presentati da Mateja Gravner. 

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Le bottiglie in degustazione erano 14 (una in formato magnum) di variegate annate ed etichette acquistate in blocco ad un’asta Bolaffi, l’approccio degustativo poteva quindi essere indirizzato in svariati modi ma noi assieme a Mateja abbiamo deciso di dargli questo taglio interpretativo che prevede di cominciare dal Breg, uvaggio meno imponente della Ribolla, con l’intermezzo dei bianchi fine ’80 inizi ’90. Le bottiglie sono state dunque assaggiate in tre singole batterie ognuna delle quali era così composta, dove l’ordine numerato corrisponde simmetricamente all’ordine d’assaggio:

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I batteria:

1) Breg Anfora 2007; 2) Breg Anfora 2002 (Magnum); 3) Breg Anfora 2001; 4) Breg 2000; 5) Bianco 1990; 6) Breg 1989

II Batteria intermedia:

7) Chardonnay 1991; 8) Chardonnay 1990; 9) Sauvignon 1989

III batteria

10) Ribolla Gialla Anfora 2007; 11) Ribolla Anfora 2001; 12) Ribolla 1997; 13) Ribolla Gialla Oslavje 1988; 14) Breg Rosso 2004 + Grappa Ribolla Gialla Gravner (Capovilla)

A supporto integrativo della degustazione, che nella maggior parte dei casi è attività sempre piuttosto passiva e ridotta al senso unico sacerdotale da chi le conduce con boria monocorde accademica e serietà bacchettona escludendo al dialogo, alla compartecipazione e alla semplice libertà di “sbagliare”, voglio qui aggiungere – e mi piacerebbe fosse sempre più un modello sperimentale da approfondire in futuro come format educativo alla comunicazione del vino -, il punto di vista dell’amico Elia Zocco che era proprio seduto al banco di prova tra altri amici sulla tavolata dei degustatori proattivi nonché tutti spettatori partecipi inclini al civile scambio d’opinioni, curiosità, critiche, elogi.

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Dagli appunti d’Elia:

Per Josko le fermentazioni devono avvenire a temperatura non controllata, da qui la scelta della anfore, in fase di macerazione e prima vinificazione. Le anfore sono georgiane, ricoperte da uno strato ci 3/4 cm di sabbia e calce, smaltate all’interno da uno strato di cera d’api. Lo scambio d’ossigeno che qui avviene è fondamentale, ma cosa ancora più importante è portare in cantina delle uve sane. Dopo il primo passaggio nelle anfore, che sono interrate nel terreno vivo della cantina, il vino completa il suo percorso d’affinamento nelle botti grandi.

I vini Breg, sono composti da un uvaggio di: Sauvignon, Chardonnay, Pinot Bianco, Riesling Italico, quest’ultimo nonostante sia contenuto solo in minima parte, il 4/5 %, è tuttavia il vitigno che cede la maggiore impronta al vino.
1. Breg 2007, primo vino uscito dopo 7 anni tra anfora e botte; ancora molto appariscente, vivissimo, nonostante sentori di frutta sciroppata, all’olfatto può ricordare grandi cognac.
2. Breg 2002 (magnum), è la seconda annata dopo il passaggio in anfora, vino molto armonico ed equilibrato, vivissimo, nonostante i 13 anni, profumi freschi ben integrati da evidenti sentori ossidativi.
3. Breg 2001 primo anno con passaggio in anfora, più spento rispetto al 2002, meno equilibrato, ma nonostante ciò sa regalare emozioni forti; pesca sciroppata, forse ha già dato il meglio di sé? Fase discendente?
4. Breg 2000, ultima annata pre anfora, 12 i giorni di macerazione.
5. Bianco 1990 nessun appunto sorry.
6. Breg 1989 Vino completamene diverso, nessuna macerazione, rimane un grande vino, bella sapidità.
7/8. Chardonnay 1991-90, vini parecchio differenti tra loro, il primo è un grandissimo bianco, fresco, sapido, di bella beva, all’olfatto perfettamente limpido, mentre il secondo è più ossidato al naso e dal colore più opaco, anche se in bocca poi si rivela tutta un’altra contrastante storia, davvero di piacevolezza sorprendente.
9. Sauvignon 89, tappo… peccato!

Passiamo alla Ribolla. Nel 2012 è stata effettuata l’ultima vendemmia dei vitigni internazionale che sono stati espiantati a favore degli autoctoni Ribolla e Pignolo. L’idea di Josko è quella di puntare su due vini, pochi ma buoni, anche se il Breg uscirà fino al 2019 a ragione dei 7 anni d’affinamento previsti.
La Ribolla è un’uva dalle grandi rese, ma per farne un buon vino bisogna abbassarla e ridurne la produzione; è facilmente attaccabile dalla botrite.
10. Ribolla Gialla Anfora 2007, vino ancora molto giovane e pimpante, può e deve dire ancora molto.
11. Ribolla Anfora 2001, prima annata in anfora, imbottigliato nel 2005: affascinante, superbo, maturo.
12. Ribolla 1997, prima annata con macerazione, 4 giorni sulle bucce, vino molto diverso dai precedenti, maggiore acidità, più persistenza, grande complessità di strutttura.
13. Ribolla Gialla Oslavje 1988, clamoroso, stupisce la sua vivacità vibrante, nonostante i 27 anni suonati.

14. Breg Rosso 2004, da uve pignolo, l’avessi assaggiato alla cieca l’avrei detto un bianco per l’acuta acidità e la gioiosa freschezza, vaghi ricordi di un Terrano del Carso; tannino setoso e ben integrato al frutto, ancora un bambino, grande bella scoperta!

Grappa Ribolla capovilla.
Le vinacce della Ribolla un tempo erano destinate ad un’altra distilleria, ma venivano considerate di poco valore, fin quando non avviene l’incontro ai vertici con il maestro distillatore Gianni Capovilla che trovandole meravogliose inizia una produzione di grappa dalle vinacce di Josko.

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Questo invece il menù delle vivande previsto per la serata da Carlo Sichel e i suoi collaboratori:

  • Cocktail di gamberi, frozen di lattuga e maionese di pesce
  • Ravioli di baccalà e baccalà in crema con bottarga di muggine
  • Pappardelle cioccolattate al ragù di coniglio
  • Stracotto di maiale nero, prugne, patate e mele dell’Etna
  • Panettoni di: Iginio Massari, Pierluigi Roscioli, Luigi Biasetto, Perbellini

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Il vigneto.

32 ettari tra boschi, alberi da frutto, colline e 15 ettari di vigneto a coltivazione biologica non certificata, tanto sappiamo quanto possano essere attendibili le certificazioni.

 [Che questa ultima frase fosse un po’ troppo grossolana e tagliata con l’accetta, facilmente equivocabile nella sua ambiguità avrei dovuto arrivarci da me prima di renderla di pubblico dominio con troppa leggerezza ed integrarla magari con altri ragionamenti a motivare questo (pre)giudizio tranchant assai generico per la verità che suona fastidiosamente qualunquistico soprattutto se decontestualizzato. Ma tant’è lo scopo che mi son proposto con il mio blog e con questo format di degustazione nello specifico è quello della libertà di “sbagliare”, dell’integrazione d’altri pareri oltre al mio tono di voce monocorde, un lavoro in fieri, un buon intento di far polifonia e non canti e sonate a voce sola tra me e me. Per cui sono strafelice dell’appunto che mi è stato mosso dall’amico  Pierpaolo Messina il quale produce vini che sempre più identificano la sua personalità schietta, viva passione, fame di conoscenza (o sete visto che parliamo di vino) nell’omonima Società Agricola Marabino nella DOC Eloro-Noto. Pierpaolo era trai partecipanti la medesima sera di questa degustazione quindi mi ha chiesto civilmente chiarimenti legittimi e delucidazioni in merito dopo aver letto la mia spiccia frase di cui sopra. Riporto e sottoscrivo in pieno quanto da lui detto così in accordo al suo medesimo gesto di grande decorum aggiungo qui a beneficio del lettore, il ponderato punto di vista di Pierpaolo]:

 Da produttore certificato Biologico, per quello che io possa dirti della mia esperienza, questa tua affermazione non la condivido affatto. Come ben sai noi siamo certificati e quindi mi hai chiamato in causa indirettamente. Ogni mese e mezzo riceviamo controlli da diversi organi oltre al certificatore: ASP, repressione frodi, IRVOS, NAS ecc. Controlli non solo burocratici, ma con analisi a campione di suoli, materiale vegetale e vino anche in vendemmia. Oggi chi si propone come produttore Naturale e quindi quantomeno biologico in vigna come in cantina e non si certifica in “bottiglia”, per quello che riguarda la mia esperienza è solo un soggetto che non vuole essere controllato e non vuole essere trasparente col consumatore. Sicuramente le grandi aziende troveranno l’escamotage per superare certi controlli, o magari siamo solo noi sotto mira. Ritengo che la certificazione non sia un male, ma un valore aggiunto che informa anche il consumatore più sensibile ad un’etica produttiva più sana e rispettosa della natura. Spero tu capisca il mio dissenso sulla tua affermazione, ti ho scritto privatamente perché non voglio far polemica ma solo per chiarire il mio punto di vista! 

Un Eden della micro-biodiversità, a preservare la fauna locale, casette per gl’uccelli, gli stagni artificiali un vero e proprio ecosistema autosufficiente tanto da ridurre al minimo gli interventi dell’uomo, uso di zolfo in quantità ridotte per proteggere la salute delle viti dall’attacco di malattie.

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Josko Gravner è un perenne “cercatore di verità” come l’avrebbe definito Georges Ivanovitch Gurdjieff alla continua ricerca di se stesso attraverso il modo di trattare la vigna, coltivare la terra, vinificare e macerare le uve, affinare il vino. Uno spirito inquieto che lo porta negl’anni alla confutazione empirica dei metodi convenzionali e delle omologate tecniche da scuole d’enologia che presuppongono lieviti e aromi selezionati, chiarifiche e filtrazioni impattanti con tutto il classico protocollo da piccolo o grande chimico-enologo uniformato come da prassi e che impongono al mercato vini sempre più sterilizzati, vini-sciroppo farmaceuticamente costruiti a tavolino, vini funerei. Il vino invece, a questo giungerà Josko nel suo fulgido itinerario d’opere e giorni, è materia vivente, succo organico, sostanza viva carica d’enzimi, microbi e batteri (plausibilmente benigni), lieviti propri alla buccia d’uva e necessari all’armonia cosmica dell’insieme che se setacciati da pozioni magiche, formulerete enologiche di sintesi e filtri industriali risulterebbe essere come il tentativo diabolico d’estrarre il pensiero da un cervello privandolo della sua calotta cranica d’appartenenza e quindi del corpo intero che anima, dà voce e forza a quel pensiero, dunque sarebbe come produrre e bere un vino sdoppiato, innaturale, senz’anima.

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“Chi non sa bere non sa nulla.” Boileau.

[Quanto segue è stata la mia cornice introduttiva alla serata entro la quale Mateja ha poi dipinto il quadro familiare dei vini e del mondo di suo papà.]

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Sono sempre un po’ sospettoso della parola-parlata, da lettore ossesso e da bibliofilo amo più quella scritta che percepisco meno frivola o improvvisata, più meditata, salda, meno teatrale, dal respiro amplio, circospetto, non affannato.

Tentando di essere quanto meno tedioso possibile con questo mio tentativo di squarcio del velo, vorrei provare a lanciare una serie di spunti di riflessione generali, spuntando cioè degl’argomenti nel particolare su cui meditare prima durante e dopo l’assaggio in verticale coi calici dovutamente alla mano all’occhio al naso alla bocca al cuore al cervello all’anima fate un po’ voi… senza intricarci però troppo in complicate o fanatiche faccende d’animismo, di religione più o meno rivelata, di filosofia o scienza chiara et occulta che sia, tanto credo di non sbagliarmi nel presumere che siamo tutti più che d’accordo con Veronelli quando su Bere Giusto sottolineava come:

Veronelli
“La scienza ha conquistato lo spazio e non ancora il ‘meccanismo’ delle infinite metamorfosi del vino, vi è qualcosa che sfugge, che si sottrae ad ogni analisi, qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima…” e continuava ricordandoci che:
“(…) un vino lo si guarda lo si respira lo si gusta infine se ne parla..” ed io, molto umilmente, aggiungerei a ciò che se poi pure il vino è in sintonia con noi e non solo noi con lui – siamo cioè nei suoi riguardi atti a berlo, ben disposti, affinati il giusto, rispettosi, ben mantenuti, maturati per bene -, ecco che sarà anche egli di conseguenza a conversare con noi incarnandosi nella bilanciata atmosfera conviviale, nel buonumore psichico ed emotivo adeguati, atmosfera tuttavia sigillata da quella che mi pare essere – per amor di giustizia – un’eterna ed amara verità come siglava un frammento antichissimo attribuito ad Antimedonte che così declama:

Di sera siamo uomini quando beviamo.
Ma quando arriva l’alba, ci risvegliamo
bestie pronte a sbranarci tra di noi

epigramma se vogliamo, più incline al malumore, al verismo e alla tristezza che ben si sposa con il detto proverbiale che vuole: “l’amicizia stretta trai calici è fragile come il vetro” ovvero, ancora la saggezza popolare: “Amicizia fatta dal vino non dura dalla sera al mattino”.

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Provo quindi a tracciare una cornice nella quale poi Mateja dipingerà il quadro familiare dei vini e del microcosmo di Josko.

Innanzitutto v’inviterei a visualizzare con occhio vigile la situazione di questa serata ad esempio: abbiamo questi vini di Gravner fatti nel Collio in Oslavia all’estremo confine nord-orientale d’Italia, mentre siamo qui a Catania nella quasi estremità mediorientale della penisola dove immagino sarete tutti bene o male di zona o comunque siciliani e state ascoltando ‘sto barbone dalle sembianze talebano/turcomanne che sarei io proveniente – guarda un po’? – proprio della terra di mezzo, originario cioè di un paesino dell’Italia centrale ai confini tra Lazio e Campania.

italia1750mOra, distacchiamoci per un attimo con la mente dalla semplice degustazione tecnica o dalla cena epicureo-godereccia solita come ne avrete già fatte tante come tante se ne fanno e se ne continueranno a fare, ma pensateci bene per pochi minuti, non è già questa un’elementare ma concreta, forse efficace azione quasi geografico-politica quella che stiamo mettendo in atto stasera? Cioè un mettere assieme quest’incontro di poli territoriali ed umani opposti attraverso il centro, promuovendo, – complice l’elemento fluido del piacere e dell’ebrezza cioè il vino la bevanda fermentata di Gravner, con il cibo trasformato da Carlo, – una fusione magica tra paesaggio (lo Spazio fisico ed interiore) con un tentativo di raccontarlo attraverso la gente la fatica e il vino (ovvero il Tempo delle stagioni e dell’uomo).

Gravner vineyard

Ci pensate che potremmo essere quasi dei bambini anche se adulti e con accesso alle bevande alcoliche, ben disposti entusiasticamente attorno alla tavola cosmica imbastita dai sani principi pedagogici (almeno sulla carta) della Montessori? Da Ho Fame: il Cibo Cosmico di Maria Montessori:
“Prendiamo il cibo, tutto il cibo e apparecchiamo per i bambini una tavola cosmica: mettiamo in contatto gli alimenti con l’universo conosciuto, colleghiamo le pietanze con la loro storia, la loro geografia la loro economia, la loro chimica. il loro valore nutrizionale, il loro significato simbolico o religioso.” (…)maria_montessori_-_mario_m_Helen_parkhurst_maria_m_adelia_pyle12 “L’educazione cosmica offre al bambino una chiave per leggere l’universo dove tutto è un concatenamento: lo invita ad uscire a spalancare la porta delle aule per cogliere i particolari di ciò che lo circonda e fa sì che scopra che tutto ha un legame e che egli steso fa parte di un grande sistema di relazioni e connessioni.”

Ora non trovate che siamo tutti simbolicamente un po’ bambini anche se cresciuti in fretta in questo “grande sistema di relazioni e connessioni” appunto, davanti alla misteriosa e gigantesca complessità dell’universo?

“Oggi più che mai viviamo in un mondo dove i sapori sono condizionati dai saperi” puntualizzava a ragione Ezio Santin nella premessa a un libretto prezioso di Lorenzo Stecchetti (alias Olindo Guerrini, Argìa Sbolenfi etc.): La Tavola e la Cucina nei secoli XIV e XVI e credo volesse intendere che l’attività di un artigiano – della cucina della vigna o di altro ambito – non può più permettersi di fare quel che fa ignorando tutta una complessa rete di esperienze, tecniche, conoscenze e saperi strettamente collegati alla sua attività principale anzi necessari al giusto svolgimento del suo lavoro se è un cuoco che ha ad es. a che fare con materie prime, fornitori, prodotti della natura etc . Ma il discorso può tranquillamente estendersi a tutte le altre arti e mestieri, soprattutto alle fatiche nobili del vignaiolo.

cucina-medievale
A proposito di queste coordinate spazio-temporali, mi piacerebbe leggervi un breve passo da Il Tempo in Una Bottiglia pubblicato da (Codice Edizioni), scritto a più mani Rob De Salle e Ian Tattersall, un biologo molecolare e un antropologo appassionati entrambi di vino che tentano – rivolgendosi innanzitutto al loro non necessariamente sofisticato pubblico americano – una spiegazione scientifica del vino, dalla terra alla tavola, senza trascurare il lato umano, facendo più chiarezza sul concetto astratto di terroir nella nostra epoca post-industriale e di (troppo?) raffinati strumenti d’analisi chimica, controllo farmaceutico e condizionamenti climatici indotti. Dunque riferendosi alla globalizzazione del vino con l’esempio di una celebre degustazione parigina del 1976 (the Judgement of Paris) in cui i vini della Napa Valley sia rossi che bianchi – degustati alla cicca – quasi non si distinguevano da quelli francesi anzi ne superavano la “bontà” per emulazione tecnologica e sforzi di internazionalizzazione e standardizzazione del gusto, così continuano i nostri autori:

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“Ci sono comunque ‘cani sciolti’ che vanno in controtendenza. Josko Gravner produce, tra il Friuli e la Slovenia, i suoi vini – che godono di eccellente reputazione – in enormi anfore di argilla seppellite nel terreno come si faceva nei tempi antichi. Il suo vicino Stanko Radikon, che usa le stesse attrezzature e procedure di suo nonno, lascia macerare i suoi bianchi per molti mesi in enormi tini tronco-conici in rovere. Tutto questo accade nella sola città di Gorizia. Sono persone come Gravner e Radikon, nelle regioni viticole di tutto il mondo, a produrre oggi vini davvero degni di nota, sebbene non sempre si tratti di vini che incontrano il gusto di tutti o che neanche i loro sostenitori più accesi vorrebbero bere ad ogni pasto. (…) le loro ‘opere’ hanno dimostrato che la perfezione tecnica nella produzione vinicola permette al terroir di esprimersi al meglio.”

bevitori indipendenti

Noi questa sera berremo i vini di Gravner dai classici calici a stelo, ma è giocoforza qui ricordare che da una sua idea Josko ha fatto creare a Massimo Lunardon delle coppe o vasi in vetro che riportano il vino in una prospettiva più antropologica, nella quale si torna a riassaggiare la bevanda in un recipiente essenziale che riassembla la forma austera di due mani congiunte ricordandoci così il gesto millenario quanto l’origine dell’uomo, del bere con le mani “a coppa”.coppe Gravner È lo stesso Gravner a parlarne con emozione quasi mistica:

“L’idea di creare un bicchiere a forma di coppa, mi è venuta per la prima volta nel 2000 quando andai nel Caucaso. Durante quel viaggio, organizzato per vedere le anfore che stavano realizzando per la mia cantina, visitai un monastero sulle colline di Tbilisi. In quella occasione i monaci, oltre a darmi il benvenuto con dei canti religiosi, mi servirono il loro Vino nelle coppe di terracotta. Quel gesto mi rimase impresso, bere del Vino in una coppa senza stelo è molto diverso che da un bicchiere, non vorrei essere frainteso, ma il gesto che la coppa ti impone verso il Vino è più intimo più rispettoso… più umile”.

Ecco in quel “non vorrei essere frainteso” c’è già tutto Josko Gravner nella sua umiltà di produttore e discrezione d’uomo d’altri spazi-tempi.

E ancora in tema di calici e vasi da mescita, finisco allora con un antichissimo richiamo al bestiale Dio della natura attribuito ad Apollonio di Smirne; a pronunciare l’epigramma è proprio il Dio Pan legato al mondo pastorale che preferisce bere mosto in una semplice coppa:

Dio Pan
Sono il dio della gente di campagna: perché libate
a me con tazze d’oro? perché versate
vino puro d’Italia? perché legate a questa pietra tori
dai muscoli rotondi? Risparmiatevi
tutta questa fatica: a me non piacciono
simili sacrifici. Sono Pan,
il montanaro, scolpito dentro al tronco
d’un solo albero: mi piacciono i banchetti
dove si mangia carne di montone,
e bevo mosto in una coppa semplice.

Aggiungo il videoclip della serata girato con particolare acume cinefilo e montato con efficace sagacia dalle bravissime Angela e Sara di Inneres Auge. Chi legge da pc può con tranquillità guardarsi il video da youtube direttamente qua sotto, chi legge invece con ipad, iphone ed altro dispositivo mobile può cliccare al seguente link sulla pagina di Bevitori Indipendenti.

Vuelvo al Sur… De Il Carato e d’Altre Stupefazioni Sicilianesche

25 Settembre 2015
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La battaglia m’infuriava nel capo (Luciano Bianciardi)

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Settembre ormai inoltrato, mi preparo per la cinque/sei giorni al Sud da Fiumicino aereoporto approdo Sicilia Orientale. M’andavo fischiettando malamente al bandoneon della memoria Vuelvo al Sur di Piazzolla già in treno dalle ore appiccicate agl’occhi del primo mattino tanto per auto-suggestionarmi nell’apnea del sonno compromesso che la vida es sueño, cantilenandomi stonato: ma sono desto o son scemo? Con un ben largo anticipo di 3 ore attracco al gate dove ho tutto l’agio di meditare i sempre verdi mala tempora currunt ed ingozzarmi il mezzo filoncino di pane ripieno di frittata della sera in bianco passata da poco: agonizzante stratificazione mesozoica di carboidrati su carboidrati.

3186In fila pronto all’imbarco, questi i rottinculo di pensierini che mi traballavano sciancati in testa sempre al ritmo tanguero di cui sopra… “Altri tempi altri sogni. Garibaldi con l’aiuto dei Mille conquistò gloria perenne e Regno delle 2 Sicilie.. oggi invece posso tuttalpiù felicitarmi di sti 2 mezzi culi di panasciutto con frittata di trofie avanzate del giorno innanzi e miserabilmente confidare nella conquista a furor di spintoni e gomitate d’un posto-finestrino infame su sto bieco volo low cost..”

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Neanche approdato al Fontanarossa di Catania, appena il tempo d’una pisciatina apotropaica a segnalare nell’immediato l’appropriazione territoriale psico-mammifera del Dasein e del mio esserci-per-la-morte che mi ritrovo sulla parete altrimenti immacolata del cesso aereoportuale faccia a faccia col beffardo genius loci isolano, prendere-o-lasciare, e ne deduco immantinente che siam tutti ma proprio tutti nessuno escluso, dei gran figli di bravissima madre!aereoportoFuori gl’amici cari Carlo e Paola ad attendermi, ospiti deliziosi pieni d’ogni minima premura genitoriale quasi, il più privilegiato degl’oblò – fossero una nave – da/e attraverso cui scrutare in questa densa crociera di pochi giorni che m’aspetta: cielo terra mare genti modi abiti e vezzi di Sicilia e sicilianità (avrei osato anche “sicilianezza” perché no?)sciascia

In effetti si comincia da subito a battagliare a colpi di menù a scudisciate gastrologiche sottilissime sul de falso et vero bono fin dal primo pomeriggio accucciati ai seggioloni disagevoli della più osannata e sciovinistica delle pasticcerie in città, in disparte dall’indolente traffico afoso post-prandiale a meditare su un casus belli catanese-palermitano tra l’ondeggiare di poppe fresche allo scirocco, ancheggiamenti pan-africani di fanciulle e fanciullone in fiore d’arancio intrecciato alle chiome sfrontate vaporose di canicola umidiccia ed altrettanti afrori testosteronici a girotondo a giramento di capo e quant’altro.. L’approccio alla materia mangesca è dei più pensosi, serissima la querelle di filologia campanilistico-romanzata, trattandosi qui in Sicilia di questioni di vita o morte imprescindibili alla sacra tradizione culinaria nella maniera scolastico-medioevale di sanguinose diatribe bizantine sul sesso degl’angeli: “Certo che siamo a Catania, ma perché allora qua è declinato le Arancine come appunto le si nomina ad indicare quelle apocrife e poco saporite di Palermo e non affatto gl’Arancini unici originali genuini catanesi?”

11217677_1705065129721713_2666773329479318523_nIntanto che uno schiaccianoci metafisico m’andava sempre più comprimendo il cervelletto a forzare il già malandato di suo per natura guscio cranico – sicuramente causa della levataccia all’alba così almeno mi ripetevo bisbetico in silenzio – un’altra faccenda ha comunque avuto la forza centripeta e la sfrontatezza d’assurgere a tema del giorno ormai inoltrato sbavando presuntuosa dalla mia boccuccia mascherata d’una selvatica barba lunga d’appena appena un paio d’anni: “..ma che il Terzavia Metodo Classico di De Bartoli voi l’avete assaggiato ultimamente? Quale sboccatura, vendemmia, tiraggio? Avete notato delle differenze rispetto al passato recente? Non v’è parso un po’ diciamo, ‘diverso’? Ossidativo in eccesso o chessò, faticosetto di mosto non così tanto crusco al palato e d’assai meno fragranza a onor del vero? È sicuramente solo una mia impressione suppongo? o sarà stata chissà la bottiglia sbagliata bevuta qualche giorno fa a un banco d’assaggio pomeridiano in Piemonte sotto un sole da Valle della Morte e sotto i tendoni a trenta e più gradi?” Insomma lasciato il patio all’ombra libidinosa degl’arancini o arancine in fiore, si fa un salto a Il Carato covo d’eccellenza gastronomica dei miei anfitrionici Lari per sottrarre a se stessi una di queste bocce di wbresize.aspxtanto per rinfrescarci memoria e gargarozzo, dunque rinfrescarla in ghiaccio una volta subito giunti a casa sulle colline meridionali dell’Etna a controverificare tutti e tre assime sulla via, bicchieri-bisturi alla mano, la gravità o meno di quelle mie loquaci pur se col mal di testa a merda, perplessità palloso-degustative.

terza via retroQuel che posso qui dire fin da subito è che l’Oki sciolto nel bicchiere d’acqua non ha fatto che ampliare ancor più il trauma cranico a doppia-merda, ma neppure stappato il Terzavia Metodo Classico di cui si contestava e contestualizzava l’integrità – almeno fui io a diciamo contestare poi a contestualizzare insomma, fummo tutt’e tre -, che nel calice già al naso si sprigiona una freschezza marina, una mareggiata salmastra di iodio sulla battigia, una spremuta d’agrumi spumeggianti tanto che il cranio s’innalza e schizza via in terza di scatto alla velocità della luce sulla vetta del vulcano fuori al balcone planando sul cratere, sul ribollire di lava furiosa e i pennacchi di fumo Im1934ascacazzando finalmente via da sé quel peso e stritolamento che m’assediava così come un improbabile falco peregrinus che si lascia sfuggir via la preda contorta, riassestandosi poi alla fine in un attimo sul collo d’appartenenza più sano di quanto l’abbia mai potuto avere o immaginare d’aver avuto. Aggiungo solo a posteriori, che in quel volteggiamento etneo della capoccia grazie alle meraviglie pirotecniche del Grillo spumantizzato di De Bartoli ho felicemente sperimentato dal vivo la teoria di Xuan-Ye che apparve in Cina attorno al 220 e il 202 Avanti Cristo una visione cosmologica che vuole l’universo informe e senza limiti entro il cui vuoto sostanziale i corpi celesti vi fluttuano, planano e galleggiano come in sospesione.

astronomyPronti quindi per la serata a Sant’Agata li Battiati dove i nostri implacabili eroi gestiscono in trasferta estiva una patriarcale villa gattopardiana tra ulivi, lecci, aranceti e dove Carlo Sichel cesella da orafo della cucina, da intagliatore di legni rari, da tessitore di tappeti persiani edibili ed imperla quasi fosse una collana alimentare di coralli per i pochi fortunati presenti, il menù della cena settembrina che riporto tale-quale come segue – perdonerete mi auguro, le foto digital-casual che non rendono certo giustizia ai piatti a cui ho sicuramente cercato di supplire più a parole (scrivendone) e a fatti (impanzandomi).FullSizeRender copy 4

Insalatina tiepida di Lenticchie, polpo e spuma di mortadella;

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Il Cannolo scomposto di Baccalà mantecato senza uova con Marsala;

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Risotto al Borgo Syrah di Cortona Tenimenti d’Alessandro;

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I Cannelloni di grano duro siciliano antico Bidì ripieno al ragù bianco di vitello, maiale, battuto di cipolla, alloro porcini dell’Etna trifolati e crema di Cosacavaddu;

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Il Petto d’Anatra marinato in sale e zucchero in salsa al Vin Santo, patate fumo lesse e schiacciate affumicate con lavanda ed altre erbe aromatiche, Tenerumi “li taddi cucuzza” e Fiori di Zucca ripieni di Foie gras de Canard;

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Il Tortino di Mandorle, gelatina di fichi d’India e Mandorle atturrate

dolceUno scatto d’iphone rubato a Carlo Sigaro-Extravecchio-Toscano fumante, durante un riflessivo momento di vitae meditatio ed istruzione dello staff di sala sulla giusta sequenza degl’ingredienti nei piatti e la presentazione più idonea d’ogni portata in programma.

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