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Bordeaux segreta, il segreto di Bordeaux

1 Febbraio 2020
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Bordeaux segreta, il segreto di Bordeaux

79601207_2590146241213593_969374466599550976_oPrima del Natale appena trascorso (13 dicembre 2019), in collaborazione con Matteo Targhini & Roberto Venuta, alla Rimessa Roscioli abbiamo organizzato una serata tra pochi intimi: Bordeaux segreta il segreto di Bordeaux, focalizzata su una sola annata, la 1975. Si è stappata un’orizzontale di alcuni Petit Bordeaux che a dispetto dell’aggettivo “petit” si sono dimostrati invece alla prova del bicchiere o del decanter, vini di “grandissima” stoffa, persistenza gloriosa, complessità progressiva man mano che passavano le ore, nonostante cioè i 44 anni di separazione temporale tra le bottiglie e i nostri palati contemporanei.

Il focus della serata, con una puntatina a Graves (Château Haut Bailly, Pessac Leognan), era il Médoc, un’area di lagune costiere, dune di sabbia, foreste di pini dove l’oceano entra nella terra o la terra si fa oceano di vigne con le prestigiose denominazioni di Pauillac, Margaux, Saint-Estèphe e Saint-Julien.
Tra la costa atlantica e l’ampio estuario della Gironda, il Médoc si presenta a tutti gli effetti con la conformazione di una penisola. Si estende per 80 chilometri a nord-ovest dalla città di Bordeaux fino alla Pointe de Grave. Con Graves e Pessac-Léognan – a sud della città – costituisce la cosiddetta Riva Sinistra della regione di Bordeaux.
Nel corso dei millenni, i fiumi Garonna e Dordogna (fusi nell’estuario della Gironda) hanno trasportato grandi quantità di limo e ghiaia ricchi di minerali dalle loro rispettive fonti nei Pirenei e nel Massiccio Centrale. Questi depositi si sono accumulati sul lato occidentale dell’estuario della Gironda (in cui convergono i due fiumi), formando la penisola che da un punto di vista geologico sostanzia vini di mineralità fluviale e oceanica così come mostrato alla prova del bicchiere da questa illuminante orizzontale di vini del 1975BordeauxÈ stata una degustazione memorabile assieme ai dipnosofisti Matteo & Roberto. Una serata in cui abbiamo bevuto 7 vini per 7 che fa 49 vini diversi. 49 prospettive differenti sulla capacità d’invecchiamento, maturazione e vitalità espressiva del Bordeaux prima scaraffato e poi messo nel bicchiere. Vini nobili in abbinamento alla cucina povera romana: trippa, rigatoni con la pajata, pancia di maiale con la polenta. È proprio questo il segreto di Bordeaux che, senza necessariamente riempirsi la bocca e svuotare il conto in banca con nomi di Châteaux altisonanti e senza, ça va sans dire, marmellatoni parkeriano/zabaionici, con poca spesa e tanta resa si può bere alla grande, e grandi, grandissimi Petit Bordeaux. Evviva i Dipnosofisti!

Château Roquegrave 1975 (Medoc)

Château Haut Bailly 1975 (Pessac Leognan)

Château Tour Haut Caussan 1975 (Medoc) Magnum

Château Siran 1975 (Margaux)

Château Les Ormes de Pez 1975 (Saint Estephe)

Châteaux Poujeaux 1975 (Moulis-en-Médoc)

Château Saint Pierre Sevaistre 1975 (Saint Julien)

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Château Roquegrave 1975 (Medoc)

Le vigne dello Château sono situate nel punto più alto del comune di Valeyrac da dove si domina la Gironda. Suoli rocciosi così come indica il nome dello Château di proprietà di Pierre-Yves Joannon.

 

Château Haut Bailly 1975 (Pessac Leognan)

Con Château Haut-Bailly siamo nel cuore della regione storica del Graves. Archivi antichi documentano già nel 1461 queste terre erano considerate eccellenti per la coltivazione della vite. Il vigneto di Haut-Bailly come lo conosciamo noi oggi iniziò a prendere forma con la famiglia Daitze dal 1530. La tenuta rimase alla famiglia Daitze per cento anni fino al 1630, quando fu acquistata da Firmin Le Bailly e Nicolas de Leuvarde, ricchi banchieri parigini e amanti dei vini di Graves. Nel 1736, fu  l’irlandese Thomas Barton a diventarne il proprietario. La sua forte rete mercantile gli ha permesso di creare il mito commerciale sulla qualità di Château Haut-Bailly in un momento in cui il “claret” francese stava cominciando a diventare famoso in Inghilterra e in Irlanda. Nel corso del XVIII secolo i proprietari potenti, ben collegati e ambiziosi hanno portato Haut-Bailly a nuove vette, tra cui Christophe Lafaurie de Monbadon e suo figlio Laurent che nel 1805 diventarono Sindaci di Bordeaux. Nel 1872, Alcide Bellot des Minières acquistò la tenuta e costruì l’imponente castello di pietra che c’è ancora adesso. Lui ha aperto la strada a un approccio preciso e guidato dalla scienza alla viticoltura, diventando una figura leggendaria ampiamente conosciuta come il “Re dei viticoltori”. Grazie all’incredibile spinta di Alcide, Haut-Bailly ha vissuto un notevole periodo d’oro alla pari di Lafite, Latour, Margaux e Haut-Brion. Dopo la morte di Alcide, Haut-Bailly ha avuto un periodo di forte instabilità fino 1955 quando è stata acquistata da Daniel Sanders che assieme al figlio hanno riportato Haut-Bailly agli antichi splendori. Nel 1953 la proprietà è stata classificata come “Cru Classé de Graves”.

 

Château Tour Haut Caussan 1975 (Medoc)

Una Magnum. Siamo nell’Haut Medoc, lo Chateau del mulino a vento. Situata nella parte più settentrionale del Medoc lo Château appartiene alla stessa famiglia i Courrian fin dal 1877 le cui origini sono attestate nella regione di Bordeaux già dal 1634. 17 ettari sulla Riva Sinistra, i vigneti sono al 50% Cabernet Sauvignon e al 50% Merlot. Il suolo è costituito da terreni argillosi, calcarei e ghiaiosi. Possiamo dividere i vigneti in due blocchi ideali con la parte migliore localizzata non troppo lontano da Chateau Potensac.IMG_0853

Château Siran 1975 (Margaux)

Il 14 settembre 1428, Guilhem de Siran prestò giuramento feudale nella chiesa di Macau all’abate di Sainte-Croix de Bordeaux, a cui era attaccata la parrocchia. Alla fine del XVII secolo, l’azienda stava già producendo vino e avrebbe goduto di un’ottima reputazione nel XVIII secolo, in un momento in cui la famiglia Miailhe si stabilì a Bordeaux come mediatori di vino, un titolo attribuito loro da concessione reale. Fu nel XIX secolo, il 14 gennaio 1859 per l’esattezza, che il castello fu acquisito dall’attuale famiglia. Il loro antenato, Léo Barbier, acquistò la proprietà per 100.000 franchi dal conte e dalla contessa de Toulouse-Lautrec, i bisnonni del grande pittore Henri de Toulouse-Lautrec. Da quel momento, generazioni della stessa famiglia si sono succedute in uno spirito di rispetto per la tradizione vitivinicola della famiglia. Château Siran è una delle rare proprietà vinicole di Bordeaux che appartengono alla stessa famiglia per oltre 150 anni. Siamo nell’appellation Margaux, qui, i suoli sono costituiti principalmente da ghiaia e ciottoli, che trattengono pochissima acqua piovana. Le radici delle viti scavano molto nel sottosuolo per trovare il loro nutrimento, facendo sì che le viti subiscano il necessario “stress idrico”, essenziale alla produzione di vini dal grande carattere. Si pratica una viticoltura ecologicamente responsabile fin dagli anni 2000 e si utilizzano prodotti biologici allo scopo di ridurre drasticamente l’uso di prodotti fitosanitari, ora limitati alla sola lotta contro l’oidio. Siran consiste di 88 ettari, un ecosistema inteso alla biodiversità favorito da un ambiente di boschi, prati e stagni, insieme a un frutteto confinante con un vigneto di 25 ettari.

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Château Les Ormes de Pez 1975 (Saint Estephe)

Il castello e gli edifici risalgono al 1792, costruito dopo la divisione e la vendita del castello di Pez a seguito della rivoluzione francese. Nel corso del XIX secolo fu di proprietà di Marcel Alibert, anche proprietario di Château Belgrave, fino a quando non fu venduto nel 1927 alla Société Civile du Haut Médoc. Problemi finanziari costrinsero la proprietà a essere venduta a Jean-Charles Cazes nel 1930, che la passò a suo figlio André Cazes. Ad oggi la tenuta è di proprietà della famiglia Cazes, proprietaria anche di Château Lynch-Bages. Per molti anni fino al 1981 le vinificazioni sono state fatte presso Lynch-Bages.

 

Châteaux Poujeaux 1975 (Moulis-en-Médoc)

Chateau Poujeaux ha una storia interessante che può essere fatta risalire al XVI secolo.  All’epoca, il signore di Château Latour a Pauillac, Gaston De L’Isle, era proprietario della zona.  È stato sempre lui anche il responsabile della costruzione del classico Château de la Riviere a Fronsac.  Durante il mandato di De L’Isle, la tenuta Moulis era conosciuta come La Salle de Poujeaux.  Nel corso dei secoli, a Chateau Poujeaux, come in numerose tenute di Bordeaux, si sono avvicendati una moltitudine di proprietari.

Solo nel 1921 la famiglia Theil ha riportato a razionalità la proprietà per arrivare alla attuale famiglia Cuvelier che sostiene pratiche di viticoltura sostenibile. Hanno anche adottato un approccio di gestione dei vigneti in biologico e stanno prendendo in considerazione anche l’agricoltura biodinamica come nel Clos Fourtet. Moulis di Chateau Poujeaux consiste in 68 ettari ed è coltivato al 50% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 5% Cabernet Franc e 5% Petit Verdot.

 

Château Saint Pierre Sevaistre 1975 (Saint Julien)

Lo Château Sevaistre ha una storia che origina nel XVII secolo, il primo impianto è del 1693. A quel tempo la famiglia De Cheverry possedeva i vigneti sulla Riva Sinistra che un secolo dopo si chiamerà Saint Pierre dal nome omonimo del barone che nel 1767 acquisterà la proprietà. Fino alla sua morte nel 1832 la proprietà è stata divisa in due vigneti separati di Saint Julien per i figli del barone da cui sono nati Chateau Saint-Pierre Bontemps e Chateau Saint Pierre Sevaistre fino al 1920 quando l’olandese Van Den Bussche ha acquistato entrambi riunendoli sotto un unico nome. Dal 1982 la proprietà è finita nelle mani della famiglia Martin già proprietari sempre a Saint Julien di Chateau Gloria fino ad arrivare ai giorni nostri che vede Jean-Louis Triaud quale proprietario sia di Chateau Sevaistre che di Chateau Gloria, tra i primi produttori nel Medoc ad utilizzare immagini satellitari per identificare la maturità di raccolta dell’uva nelle parcelle di vigna.

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Ora lascio la parola a Targhini a Venuta a Desideri a Paparello, che hanno partecipato alla serata, allegando qui di seguito le loro note di degustazione e impressioni varie.

 

Federico Desideri

Un viaggio nel tempo, nel Bordeaux che non ti aspetti, annata 1975.

Dico che non ti aspetti perché la realtà odierna è molto lontana da quello che abbiamo trovato nei calici di questa sera alla Rimessa.

Il filo conduttore in tutti i 7 assaggi è ben delineato, ovvero ci siamo trovati davanti tutti vini liberi di esprimere il proprio territorio.

Non può essere un caso che tutti i vini dei piccoli Château in assaggio, si siano concessi in maniera incredibilmente mutevole minuto dopo minuto.

In particolare  nel Tour Haut Caussan. 

Appena versato sembra chiuso e invaso dai tipici sentori di Brett come Straccio bagnato, stalla e fumo ma è il tempo e l’ossigeno a ribaltare completamente in positivo  l’assaggio.

Il vino rinasce e perde, incredibilmente, i sentori iniziali per dare sfogo ad un continuo e piacevole mutamento; sentori di bosco d’autunno pieno di humus, castagne e muschio cedono il posto prima a piacevoli note ematiche e poi al frutto rosso, fresco, grazie all’incredibile acidità che ancora ha questo 1975. 

Passano i minuti e il vino ricomincia da dove siamo partiti, come una giostra ripropone in sequenza tutti i suoi 7 forse 8 volti.

 

Roberto Venuta

Château Roquegrave:

Shock all’apertura… poi sappiamo com’è andata.

Spadaccino verticale tutto in acidità, sopravanza un tannino in papillon.

Haut Bailly:

La bottiglia più femminile. Colore leggermente più pallido. Foglioline di menta fresca, tannino da Pessac, quindi puttanello…

La Tour Haut Cassan:

La bottiglia del cuore insieme all’ultimo vino in degustazione.

Leggere note di cassis. Colpisce la straordinaria eleganza del frutto come per Poujeaux, acidità e tannino si fondono perfettamente in un abbraccio che rimane tale anche in deglutizione dopo una decina ed oltre di secondi.

Siran e De Pez:

Non ricordo molto poiché pure se in grande forma, sono le 2 bottiglie che hanno colpito meno il mio cuore.

Château Poujeax:

Leggerissima nota di terra cruda, legno di cedro. È il vino che mantiene meglio lo status di Bordeaux, rispetto agli altri che borgogneggiavano dopo 40 anni (e lo dico da amante di Burgundy, per cui mi pare un’investitura eccezionale.)

Château  San PIerre Sevaistre:

Considerato non troppo per l’affaticamento dei partecipanti ormai all’ultimo vino, mi è sembrato un Bordeaux straordinario: acidità pazzesca, eleganza idem, le componenti vegetali erano perfette. Nota leggerissima di funghi terrosi.

Conclusioni con cui rappresentare al meglio la degustazione:

a) 1975 = annata eccellente

b) ha colpito la freschezza assoluta della batteria

c) il colore come per l’acidità hanno mostrato una forma straordinaria 

d) il dentro/fuori indicato da Matteo Targhini, assoluta novità nel panorama delle degustazioni, è stato sorprendente.

Contrariamente a quanto pensassi,” il fuori” ha abbassato l’acidità a favore di un frutto che saliva prepotentemente croccante e trasformava i borgogneggianti bordeaux del “dentro” in classici Bordeaux.

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Matteo Targhini

1975 è il millesimo Highlander di Bordeaux: le creature nate a Bordeaux in Rive Gauche nel 1975 sono nette, nitide, pochi fronzoli, dirette, senza giri di parole. È una danza tra le calde e rassicuranti note di Mamma Merlot (ciliegia, caramello, rose, viole e liquirizia) e le vibranti e rustiche note di Papà Cabernet Sauvignon (cassis, mallo di noce e cedri verdi), con le fresche note di Nonno Cabernet Franc ad accompagnare (menta di campo, eucalipto). Basta saper ascoltare per capire il “perché” del blend: questa è la straordinaria Famiglia di Bordeaux. Al termine del ballo tutti in salotto ad ascoltare le storie di famiglia tra un sigaro e un diafano infuso di caffè di arabica tostato, quasi verde con una spolverata di cacao, tra straordinari terziari fume’ che ricordano i falò agresti: la barrique a Bordeaux accompagna, come la batteria nel jazz. 

I Petit Château: sono l’inizio e la fine, sempre in punta di piedi, sempre a chiedere “permesso”. Solo per anime delicate. La profonda e delicata leggerezza.

Château Roquegrave 1975 (Médoc): sull’uscio una Madame, la quota di Mamma Merlot è alta, l’abbraccio è dolce, le ciliegie, le amarene e le marasche, ed è “sofisticato” da travolgenti note di caramello, bergamotto e chiodi di garofano. Il frutto è caramellato con lo sguardo rivolto al di là del fiume, a Pomerol.  Più respira e più ringiovanisce, è arrivato il momento di Mago Merlino, quasi ritorna in vigna. In un batter d’ali (non di insetto impollinatore ossessivo-compulsivo, ma di gabbiano). Mamma Merlot lascia il palcoscenico a Papà Cab. Il frutto si trasforma, domina il cassis, con una trama eterea e finemente vegetale, con lo sguardo rivolto alla finitima Saint Estephe. Uno nell’Uno.

Château Haut Bailly 1975 (Pessac Leognan): l’entrata è fiabesca, una Madame sinuosa e sofisticata che passeggia tra frutti, fiori e spezie, le ciliegie accarezzate dai petali di rose e viole impreziosite dai chiodi di garofano. Le ammalianti carezze fruttate e le flessuose note speziate ti seducono e ti travolgono. A Pessac Leognan le speziature sono orientali, il suadente lascito della principessa Mihrimah Sultan: La Belle Dame Sans Regrets.  

Château Tour Haut Caussan 1975 (Médoc): un Monsieur Caussan versione Magnum in forma olimpica. Straordinario, all’entrata floreale au Chateau con le note di rose e viole di Mamma Merlot, segue una passeggiata a cavallo sul bagnasciuga dell’Oceano Atlantico. Lo sguardo è sempre rivolto alle profondità oceaniche di Pauillac, Uno nell’Uno. Accompagnano delicate note fruttate e minerali. Al commiato balsamico fresche note speziate di rosmarino, nonché l’immancabile, adorabile, menta di campo. In fine, carezzevoli note caramellate e di liquirizia. Caramelle al malto d’orzo.

Château Siran 1975 (Margaux): benché Margaux rappresenti a Bordeaux la quintessenza della femminile e nobile eleganza, in alcuni Châteaux sovente nascono raffinati Monsieur, Siran 1975 è tra questi. La trama è fitta, il frutto è fresco, primaverile e croccante, ciliegie e cassis con qualche chicco quasi verde, la tensione vegetale è vibrante grazie alla formula Anti-Age del Médoc ®, i gerani di zia Verdot: “Dans le Médoc, le Petit Verdot est la clé”.

Château Les Ormes de Pez 1975 (Saint Estephe): Monsieur de Pez il più rustico della serata, molto vegetale, ancora indietro nell’affinamento, ma quando a tratti riesce ad aprirsi ti stupisce con una consistenza ed una persistenza energica. Rimane comunque uno Château poco rappresentativo dell’eterea Saint Estephe, con lo sguardo rivolto più al frutto borghese dell’Haut-Médoc e alle speziature orientali di Pessac Leognan.

Château Poujeaux 1975 (Moulis en Médoc): All’apertura tanta frutta rossa e un sacco da 5 kg di caffè tostato e macinato “alla Troplong-Mondot 78 e Magdelaine 70”. Marino, un 1975 assolutamente marino. Ma dove han pescato le radici di questa splendida creatura? Direttamente nell’oceano? Il tutto con una finezza… è una brezza marina… In bocca fresco e fruttato, il finale è freschissimo. Al naso la passeggiata è balsamica. A cavallo, tra erbe di campo e bagnasciuga marino. Note ferrose e prugna nera su un letto di lievi note balsamiche. Poi il fumé accompagnato dal fil rouge della frutta. A seguire la passeggiata si sposta nel sottobosco: funghi, tartufo, formaggi erborinati, fieno, pure una nota caramellata ad accompagnare il sottofondo fruttato, poi tabacco e cioccolato bianco. La prugna scura sempre ad accompagnare in sottofondo. Un magico sottobosco autunnale, la brezza oceanica, ricorda la borsa di Mary Poppins. Poujeaux è come un punto di riferimento intorno al quale ci si può avventurare con serenità sapendo che, al ritorno, lui ci sarà sempre, “tra cielo e terra”, un luogo di protezione. Poujeaux è la sintesi, la completa espressione, l’emblema di Bordeaux. In casa ostriche, oceano, un pò di eucalipto… passati in giardino, dopo 5 secondi all’aria aperta, un’esplosione di ciliegie, amarene e caffè: la magia di Mago Merlino. Sono creature “messianiche”, ti indicano il cammino enologico da seguire.

Château Saint Pierre Sevaistre 1975 (Saint Julien): Mamma mia che naso! Frutta scura, cuoio, tabacco, note balsamiche in qua e in là. Ora entrano le note ferrose e il pomodoro dell’orto di Monsieur Sevaistre. Poi le note animali, cavalline, si fa un giro nelle scuderie, fai fatica ad imbrigliare questa splendida creatura nello Château, ha bisogno di galoppare nel sottobosco e nel bagnasciuga, un purosangue rustico e indomabile, vibrante. A tratti la crème de cassis fa capolino, l’irruento ed esuberante Monsieur Sevaistre si ricorda dei suoi studi classici a Saint Julien, delle ore passate a studiare greco e latino. Poi ancora il sottobosco, i funghi: splendido sottobosco! E via, cambio, altro giro, altro regalo, le note balsamiche, che passeggiata memorabile tra Château e sottobosco. Usciti dal sottobosco la passeggiata si sposta in un folto prato bagnato, tra erbe selvatiche e menta di campo. Stasera niente sale… stasera eucalipto e menta di campo per aprire naso e polmoni, al galoppo, hop, hop. A tratti ti coccola con note affumicate, nel salotto dello Château, camino acceso, seduti sull’antico divano di pelle di famiglia, ti offre un sigaro. La particella di Saint-Pierre Sevaistre è esistita singolarmente fino all’inizio degli anni 80, dopo è stata assorbita dal Saint Pierre attuale. Il Terroir del Sevaistre era considerato al livello di un Secondo Grand Cru. Ora arriva la brezza oceanica e la lieve nota salata. Eucalipto, menta e sale, “Le Terroir, Le Terroir” vous dis-je. Ora note caramellate e salate, non si ferma più. All’aria aperta cosa combina questo prestigiatore? Istantaneo, come ho varcato la soglia di Rimessa Roscioli, alta pasticceria, amarena, ciliegie scure, panna montata, cioccolato bianco. Il tutto con note fumè e tenui terziari di cannella. “Soudain l’horizon changea”. Ora la passeggiata in limonaia… e le note balsamiche… una passeggiata tra menta di campo e i cedri di Saint Julien. Tocca l’anima e cura il corpo: “un bel respiro”. Docteur Sevaistre: la particella delle meraviglie!

Maurizio Paparello (Salumeria Roscioli), su Matteo Targhini:

Grazie Gae, era da un po’ che non ascoltavo uno che sa di vino… ha da ripetersi!

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Ladri di Vino: Rocco di Carpeneto & Carussin

8 Ottobre 2018
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Era il 19 febbraio scorso, sono quindi passati 8 mesi, che ci ritrovavamo alla Rimessa Roscioli assieme a Lidia Carbonetti di Rocco di Carpeneto ad Ovada & Bruna Carussin dell’omonima azienda agricola e fattoria didattica a San Marzano Oliveto nel Monferrato astigiano.

Alla vigilia di Ladri di Vino che martedì 9 ottobre cioè domani, vedrà interfacciarsi tra loro e il pubblico presente altre due produttrici luminose ovvero vignaiole illuminanti quali sono Elena Pantaloni (La Stoppa)  ed Elisabetta Foradori (Foradori), ho qui di seguito il grande piacere di ospitare la cronaca dal vivo di quella serata magica riportata con la solita suggestiva sensibilità, curiosità culturale ed afflato romantico dall’amico fraterno Bruno Frisini, così tanto per ricreare con le parole e qualche immagine l’atmosfera magica d’energia positiva e fusione intellettuale tra vino, produttori e consumatori compartecipi a queste serate Ladri ovvero Ladre di Vino, ideate/costruite/imbastite con la complicità essenziale (non ho detto esiziale) di Fabio Rizzari & Accademia degli Alterati.

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La porta si chiude alle mie spalle, una sensazione di assoluta completezza comincia a farsi largo.

Rimessa Roscioli assume sempre più le sembianze di una mecca per chiunque professi la fede dell’autenticità.

Una premessa doverosa, stravolgimento dell’ordine temporale del racconto che appare necessario se si vuol rendere da subito l’idea di come l’esperienza di una sera sia riuscita ad imprimere un irrefrenabile bisogno di immediata condivisione con chi, ahimè, non era presente.IMG_1255

Ladri di vino nasce da un’idea di Fabio Rizzari & Gas Saccoccio, ispirata a Ladri di Cinema, mostra-iniziativa-rassegna-evento del comune di Roma, risalente al 1981, in cui si alternavano registi che, proponendo un loro film, spiegavano a margine quale altro regista fosse stato per la loro formazione un punto di riferimento da cui attingere quindi “derubare”.

Detto questo, va da sé che i vini prendano il posto delle pellicole e i produttori-agricoltori quello dei registi, nonostante si possa comunque ben dire che i vini altro non sono che film in cui la fitta trama viene orchestrata dal produttore-regista.

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Si delinea immediatamente quella che sarà la strada percorsa. Non c’è spazio per futili tecnicismi che sembrano, dal primo istante, stonare con la perfetta intonazione di quel coro di voci umane impersonato da Bruna Ferro e Lidia Carbonetti, ospiti della serata, rappresentanti rispettivamente Carussin e Rocco di Carpeneto.

Interpreti di un territorio, veicolo e vettore attraverso il quale Astigiano, Ovadese e Monferrato camminano per il mondo, queste realtà arrivano a Roma con un bagaglio, tanto sensazionale quanto romantico, di esperienze da rivelare.

Generose, come la Barbera secondo Carducci (anch’egli la declinò al femminile), iniziano a svelare tutte le creature che da lì a poco sarebbero state accolte dalla pancia dei calici.

Barbera d’Asti, Barbera del Monferrato Superiore, Dolcetto di Ovada, poi ancora tutti i “rubati” tra cui miti assoluti come il Dolcetto “Le Olive” di Pino Ratto e il Barolo 2010 (rarissima dedica alla sorella scomparsa) del Cav. Lorenzo Accomasso.

Fatte le dovute presentazioni, si entra nel vivo toccando con mano quanta saggezza possa essere racchiusa in chi vive la terra genuinamente (“i sofi contadini”*).

Le-officine-dei-sensi

I miei pensieri cominciano a vacillare in preda a visioni e parallelismi. Bevo e ascolto. Il tempo scorre, ho l’impressione che entrambe le cose diventino sempre di più un tutt’uno inscindibile.

Rifletto, predispongo i sensi all’assaggio.

Custodi di un sapere antico, di un’esperienza rustica, unico, immutabile baricentro delle loro esistenze. Coscienza e memoria storica, come lo erano le donne all’interno degli antichi nuclei contadini e pastorali. Dinnanzi ai miei occhi appaiono le naturali prosecutrici di coloro che venivano elette (secondo superstizione), con mani che non potevano essere immonde, come uniche manipolatrici di latte e formaggio

 (…) cosa tenera bisognosa di cure e calde attenzioni, creatura uscita da mani di donna, quasi un’altra forma di parto […] Il “cascio” neonato doveva esser custodito, mentre si rassodava e maturava.*

Un’operosità, una destrezza, una sensibilità da sempre legata ai saperi delle donne. Impressionante il parallelismo con le: 

(…) vicende che accompagnano la vita-morte del vino che nella putredine dell’uva calpestata, ridotta a mosto fermentante, scende nella tomba-cantina chiuso in una bara di legno, apparentemente estinto ma in realtà solo dolcemente assopito, assorto in un lungo, indecifrabile dialogo col sole, in contatto col tempo, le stagioni, i venti, i pianeti. Nelle tenebre del cellarium il vino continua a vivere una seconda vita cosmica, in un inafferrabile rapporto-comunicazione col globo luminoso, col “grand’occhio del ciel.*

Sangue coagulato cotto due volte il formaggio, sangue della terra e sugo della vita* il vino. 

Le mie elucubrazioni vengono alimentate dallo svolgersi della serata, trovano nutrimento in coloro che desiderano raccontare se stesse affinché ci sia dato comprendere i loro vini. generale

Si parla di antichi ritmi lavorativi. Per il contadino (che è spesso contadino-pastore) conoscere, capire, prevedere significa sopravvivere. Tutto viene ricondotto al linguaggio dell’esperienza, talvolta pericolosa, di chi di terra impastato* scruta l’orizzonte, osservando il cielo, i venti, i rumori* della terra e i segnali offerti dagli animali. Una semiotica mantica*, in cui sono individuabili i segni dell’abbondanza* e i segni della carestia*, una cultura del prevedere, della precognizione, la praecognitio temporum*. Un sistema che coinvolge tutti i sensi: il naso vigile alle alterazioni degli odori; l’occhio attento a captare i segnali provenienti dalle direzioni più disparate; l’orecchio teso all’ascolto di insolite modulazioni. Un 

(…) sapere frenato, non accelerato. La sua circolarità, la sostanziale omogeneità delle sue esperienze sono tutte riconducibili allo spazio del vissuto e del praticato nella casa e nel campo. La sua stessa trasmissione è domestica e genealogica […] (riproducente) paradigmi di lunga durata tendenti a riprodursi e a prolungarsi indefinitamente.*

Sento come d’essere avvolto da un inspiegabile torpore in una sfera che muove verso qualcosa di assoluto e definitivo. Da un vino all’altro, tra racconti e suggestione tutto sembra fermarsi di colpo quando Bruna Ferro mi ricorda indirettamente quanto la vita sia incredibilmente capace di auto-programmarsi*. Avevo pochi giorni addietro ascoltato in radio una dissertazione di Stefano Mancuso (botanico) sull’intelligenza inclusiva di piante e organismi vegetali, nell’ambito di un progetto denominato La Frontiera. Ora, il tutto veniva nuovamente riproposto alla mia attenzione partendo proprio dal fenomeno del cambiamento climatico e della desertificazione (non intesa come aumento della superficie legata al deserto, ma come decremento della sostanza organica presente nel terreno oltre una certa soglia, non solo in zone prospicienti i veri e propri deserti, ma in tantissime zone del mondo e dell’Italia) trattata da Mancuso come una delle cause motrici dei flussi migratori di esseri viventi, animali e vegetali. 

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Negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno amplificato questo fenomeno in una maniera che è completamente sconosciuta alla storia raccontata. Ogni volta che si ha una piccolissima variazione nelle temperature medie, in alcune zone del mondo c’è un corrispondente cambiamento, talvolta enorme, della possibilità di coltivare la terra e/o lo spostamento delle colture di centinaia di chilometri verso nord o duecento metri verso l’alto. Zone particolarmente sensibili potrebbero addirittura diventare inadatte alla vita, stimolando la migrazione di intere popolazioni, facendo acquisire al fenomeno connotazioni drammatiche se si pensa come quest’ultimo sia legato anche, in qualche modo, al mondo vegetale. L’essere umano è assolutamente dipendente dalle piante (che producono ossigeno, nutrimento, medicinali, materiali necessari), per questo motivo le migrazioni hanno portato spesso a movimenti di piante, espiantate dal territorio d’origine per essere poi introdotte in una nuova dimora, modificando habitat, culture, tradizioni e abitudini alimentari preesistenti (vedasi quello che è successo con i pomodori, le melanzane, le patate, i peperoni portati con sé da Colombo dalle Americhe o nel caso della zucca, di origine americana, poi selezionata, incrociata e modificata in Italia dando vita alla zucchina poi ritornata in America con la migrazione italiana ai primi del novecento).casse

Migrazioni umane e migrazioni vegetali sono da sempre simbiotiche. Il riso, il mais e il grano rappresentano le specie da cui l’uomo trae più del 70% delle calorie per il proprio fabbisogno. Questo da’ l’idea di come sia stretto e vitale questo rapporto anche a parti invertite, in cui le piante coltivate, modificando nel tempo il loro carattere silvestre, sono ormai ineludibilmente legate alle cure umane. 

Il concetto di identità, di individuo (non divisibile) non trova spazio. La divisione rappresenta addirittura un metodo di propagazione. L’essere inamovibile che per noi animali (che fondiamo la nostra esistenza sul movimento e sulla risoluzione dei problemi, come ad esempio la fame, il caldo, il freddo, mediante il suddetto) rappresenterebbe una limitazione, per le piante è tutt’altra cosa. Il radicamento impone la risoluzione delle criticità attraverso una sensibilità maggiore verso ciò che le circonda. barolo

Vi è una sottovalutata intelligenza inclusiva nelle piante. Creano simbiosi, collaborazioni (con batteri azoto-fissatori; con funghi; con insetti impollinatori; con l’uomo). Tutte le piante unite in una comunità eterogenea, andrebbero viste come un unico organismo connesso in ogni sua componente radicale attraverso legami fungini e, perché no, spirituali. 

Gli stessi legami profondi che uniscono Bruna & Lidia alle loro vigne e alla loro terra, impensabili ormai le une senza le altre. Una sensibilità spessa, densa di significati.

Provo a tornare con i piedi per terra (ancora terra e radici per restare in ambito vegetale), godendo di un gusto puro, agro, schietto. Nonostante le profondità scure toccate a tratti da alcuni Ovada, resta in fondo di una luminosità accecante. 

Interiorizzato il movimento vorticoso, passo in rassegna un vino dopo l’altro, ma risulta davvero difficile mantenere un profilo distaccato prestando attenzione ai vari aneddoti.  IMG_1253

Penso a ciò che è stato raccontato a proposito dello sciacallaggio tentato nei confronti del Cav. Lorenzo Accomasso, sfruttando un momento di possibile debolezza affinché si convincesse a cedere la propria terra, non coscienti di come ormai sia in tutto e per tutto lui stesso quel luogo. O di come sia stato incompreso un uomo coraggioso come Pino Ratto.

Guardo nel bicchiere e piombo in una struggente commozione. Mi domando come sia possibile essere arrivati a scorgere così nitidamente anima, corpo, pieghe e rughe di uomini che non corrispondono ad altro se non a quelle delle loro tanto amate vigne.Pino Ratto

Non si tratta più di bere e degustare. La dimensione è cambiata. Faccio fatica. Il sorso diventa più raccolto, rispettoso. Una lacrima.

Scriveva Torquato Tasso ne Il Mondo creato:

Ma quel che maraviglia in vero apporta,

È che ritrovi in lor ,se ben riguardo,

I diversi accidenti, e i vari esempi

Di gioventude e di vecchiezza umana,

Perché le piante ancor novelle e verdi

Han polita scorza e quasi estesa;

Ma s’adivien che per molti anni invecchi,

S’empie di rughe, ed increspata inaspra.

Il vegetale e l’umano, l’uno specchio dell’altro. Così naturalmente. Così dovrebbe essere. Così lo è stato per una sera.

Bruno Frisini, Itri, Febbraio 2018

* [Le citazioni sono tratte da Piero Camporesi, Le Officine dei Sensi, Garzanti, 1985]