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Octavin ad Arezzo: esperienza culinaria selvaggia

27 Gennaio 2020
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Octavin ad Arezzo: esperienza culinaria selvaggia

Una domenica di fine gennaio per un pranzo ad Arezzo da Octavin dove lo chef Luca Fracassi ha proposto un percorso culinario temerario a base di selvaggina e vini naturali illustrati con cura da Filippo Calabresi do.t.e. vini e alcuni altri della selezione do.t.e. altrivini.

Luca Fracassi è un cuoco adeguatamente ambizioso che già da un po’ di anni è determinato a farsi strada in un contesto per nulla benevolo come è l’ambiente antropologico aretino ostile come è ostile quasi tutta la Toscana, (fatte salve rare eccezioni), a una cucina non necessariamente d’avanguardia ma quantomeno imbastita su ingredienti, materie prime e ricerca delle filiere. Basti solo pensare a luoghi mitici come Siena o Montalcino che non hanno nella maniera più assoluta una ristorazione degna delle bontà agricole del territorio alla stregua cioè della produzione del vino ad esempio, tra le più rinomate – almeno sulla carta – del nostro paese. Per tacere del deserto culinario di Firenze una città tanto ricca in meraviglie artistiche da fare invidia al mondo intero, eppure con una scena eno-gastronomica a dir poco imbarazzante per non dire grottesca, ancora ostaggio dei soliti Principi & Marchesi del vino farmaco-enologico fabbricato sempre dagli stessi quattro enologi à la page.57E8B3B4-2BE0-42CC-887C-C08B752E3786

Arezzo oggi invece ha un cuoco che forse non si merita. Un cuoco che aveva iniziato conciliatorio e disponibile all’apertura su tonalità più dolci verso un pubblico potenziale poco avvezzo all’alta cucina. Un cuoco che però oggi, con personalità e stile, ha agguantato finalmente il toro per le corna dell’acidità, delle asprezze ben gestite e dell’amaro nelle preparazioni in equilibrio instabile della sua cucina. Un cuoco che non si limita a starsene isolato in cucina focalizzato solo sulle nature morte delle vivande da trasformare ai fuochi. Un cuoco aperto di mente e curiosissimo circa tutto quello che succede anche al di là del cibo. Un cuoco di mentalità elastica – mosca bianca tra i colleghi – con un occhio esplorativo sempre rivolto al mondo del vino naturale che poi è lo specchio di un’agricoltura consapevole armonizzata al resto in senso olistico. Un posto alla periferia dell’Impero come Octavin sta a significare che non è più possibile oggi, nel 2020, ritrovarsi in un ristorante dove la carta dei vini è completamente sconnessa dal cibo elaborato in cucina e proposto in tavola, a maggior ragione se dietro quel cibo c’è una ricerca fatta con tutti i crismi, una ricerca rispettosa della filiera ittica o agricola che sia. Tutti i ristoranti e i ristoratori invece di bruciarsi il cervello con stelle e stellette, dovrebbero ambire ad una ricerca sul cibo parallela alla ricerca sul vino così come la intende Luca Fracassi.65B4A3D7-9D3A-4EFF-B7D4-2FE651FACBDE

So che può risuonare paradossale o irriverente parlare di rispetto della filiera in merito ad un menu che ruota tutto attorno alla selvaggina – capriolo, beccaccia, tordo, lepre, fagiano, colombaccio, daino, cinghiale… – eppure c’è o dovrebbe esserci tutta un’etica di caccia che prevede l’addestramento dei cani e la simbiosi uomo/animale tra cacciatore e preda per cui ad esempio le beccacce non andrebbero mai sparate al suolo quando sono più esposte e cercano gli insetti che le nutrono, ma vanno stanate dai cani per poterle colpire eventualmente in volo.

Poi sulla selvaggina scatta anche l’effetto madeleine proustiana. Il mio ricordo è a casa di uno zio cacciatore nel quartiere vecchio del paesotto, a glu Stracc’, davanti al camino: tordi e altri uccelletti al sugo con la polenta. Avrò avuto cinque o sei anni, ma ancora riporto incancellabile nella memoria dei sensi, quegli odori forti e delicati assieme, quelle pungenze, quei sapori acuminati di selvatico; sapori non riproducibili meccanicamente poiché quello selvaggio, come certi vini da lieviti indigeni e fermentazioni spontanee o certi ossidativi miracolosi, rimandano a gusti unici, autentici, irriproducibili.D1270CF8-D574-44BD-8491-274F16DBC81B

Un menu del genere può senza dubbio ingenerare critiche feroci da parte di chi è contro la caccia pur non essendo necessariamente vegano, non sto certo qui a celebrare la carneficina di frodo degli animali del bosco per soddisfare il gusto d’alcuni privilegiati occidentali borghesotti con il pallino del cibo selvaggio e la ricerca esasperata del gusto più estremo. Dico solo che mangiare una volta l’anno questa categoria di cibi ci riporta indietro alle nostre radici carnivore pre-medioevali, quando, abitatori di foreste e montagne eravamo anche noi senza distinzione di continuità sia predatori che predati. Spolpare gli ossicini del cranio e le cartilagini di un tordo è un atto crudo, un gesto crudele se vogliamo che però è connaturato al patrimonio genetico della nostra specie. Deglutire le interiora sublimi della beccaccia, assorbire la cremosità voluttuosa del cervello di daino, dissetarsi con un brodo di fagiano le rare volte che può capitare, ci riportano davanti allo specchio della bestia zoofaga e sanguinaria che siamo ricordandoci che forse decenni di industrializzazione alimentare e cibo ingegneristico hanno snaturato i nostri istinti più animaleschi. Vero, è un atto tragico, ma un atto che se compiuto con devozione e coscienza ci rammenta che le multinazionali degli aromi, dello zucchero e del cibo preconfezionato hanno sterilizzato per sempre la nostra mente se nella vita di tutti i giorni siamo nutriti e ci nutriamo soltanto di mangime chimico in scatola, di cibi processati o altre sostanze precotte, di animali giustiziati a catena di montaggio nei mattatoi, di bevande di sintesi ed altra immondizia sotto cellophane spacciata per generi alimentari. Questa è la cosa che dovrebbe scatenare molto di più la nostra indignazione etica e consapevolezza sociale alimentare ma invece ci ritrova tutti mansueti, proni e muti, rassegnati in fila al primo Discount alimentare per nutrire noi e i nostri familiari con farinacei di cui non conosciamo l’origine, con fettine di carne anonima sotto vuoto pompata ad anabolizzanti, con crostacei surgelati pescati chissà come o dove, con ortaggi e frutta proveniente da campi disseminati di pesticidi e così via.

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Anne & Jean François Ganevat, J’ai soif 2017

Tartare di capriolo con brodo di licheni

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Pierre Beauger, Rotten Highway 2015

Beccaccia, testa, paté, interiora

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Philippe Jambon, Jambon Blan… chard 2010

Tordo come un ortolano

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La Grapperie, La Désirée 2008

Lepre sugo d’umido e alloro

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Domaine de l’Octavin, Corvées de Trousseau 2017

Fagiano in brodo

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 Frédéric Cossard, Saint Romain “Sous la Velle” 2015

Colombaccio in salmí dentro la sfoglia
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Ratapoil, Vin Jaune 2011

Daino cervello fritto al limone

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Els Jelipins, Red 2015

Cinghiale il musetto
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La Sorga, béa… titube 2010

Pre-dessert gelato con prezzemolo e crumble di funghi porcini

Sanguinaccio di maiale cioccolato amaro e rosmarino

Olio EVO Il Bioselvatico

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