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Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

30 Maggio 2023
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Nonostante tutto, l’innocenza e l’amicizia dureranno finché duri il mondo.”

Elsa Morante

Menzogne e sortilegi nel vino dell’oste Gesualdo

Con l’escamotage molto sofisticato ed ironico del romanzone d’appendice o del feuilleton alla Dumas, Elsa Morante a poco più di 30 anni nel 1943 comincia a scrivere Menzogna e Sortilegio il cui titolo originario, tra i tanti scartati, doveva essere Storia di mia Nonna.

Con le stesse parole della scrittrice romana, il romanzo è un dramma piccolo borghese trasformato in una leggenda. Il libro intreccia una nevrotica saga meridionale che porta in superficie le ambizioni deluse di tre generazioni di donne. Questo grandioso romanzo della Morante è un’epopea familiare scaturito dalla memoria invasa dai vapori lunari ed erratici di Elisa doppio di Elsa, cioè il personaggio che racconta in prima persona la storia della sua famiglia in una duplice (ambigua?) funzione sia di medium stregonesco e di invasata che incarna le voci dei fantasmi del passato, tanto in quella di testimone oculare dei fatti e delle ambasce accaduti ai suoi genitori di cui si fa giocoliera e solitaria cronista. Menzogne e sortilegi della grande letteratura che attraverso la potenza di fuoco dell’immaginazione e la demiurgica verità della poesia, plasma il mondo, stana la realtà più e meglio della stessa verità della storia. Il Sud della Morante è un meridione immaginario eppure realissimo, barocco e contemporaneo a un tempo. Questo Sud immaginifico è una Sicilia eterna intrisa di magia nera, fosco intrigo di lutti, mistificazione, superstizioni, sessualità repressa, frustrazione religiosa, orgoglio malsano, distinzione di classe. Una Palermo fantastica ma più vera del vero, sospesa nel tempo, immortalata dallo sguardo sarcastico, amaro ed estatico di un Dostoevskij folletto a Palermo o di un Kafka meridionale tutto al femminile. 

Menzogna e Sortilegio è stato scritto in fasi avventurose della vita della scrittrice, durante i tragici anni della II Guerra Mondiale. Cesare Garboli, fraterno amico della Morante nella sua intensa introduzione al romanzo “cosí centrale nella storia letteraria del nostro secolo”, rivelando una commistione illuminante tra il polpettone rosa e il marchese De Sade, sottolinea:

“Mentre gli occhi di tutto il mondo si giravano verso il futuro e puntavano diritti sulla realtà, lo sguardo della Morante si distraeva dal presente, attirato e affascinato dalla profondità di uno scenario spettrale e lontano.”

Un altro grande critico Cesare Cases che reputava Menzogna e Sortilegio tra i maggiori capolavori della nostra letteratura, ragionando sul senso ultimo dell’arte in quanto espressione sia eversiva che consolatoria, quindi di adesione viscerale alla realtà pure se incoraggia la fuga dall’oppressione del mondo presente, scriveva in Patrie Lettere:

“L’arte è di per sé contemporaneamente eversiva e consolatoria: dice la verità sul mondo, ma trasponendo la verità nella parvenza lascia il mondo così com’è e riconcilia con ciò che ha giudicato.”

In questa polverosa rivendita di vini, lo sciagurato padre di Elisa, il Butterato, porta la bimba con sé. Un luogo esotico tipo fumeria d’oppio, dove il Butterato Francesco “nell’effimera animazione dei primi bicchieri” può narcotizzare i sensi e dare libero sfogo alle sue fantasie represse, millantando origini nobiliari e titoli universitari mai raggiunti che la figlioletta osservatrice implacabile testimonia nell’aspetto di “vantatore, menzognero e loquace, pontificante, espansivo fino alle lagrime”. Francesco è uno dei personaggi più dannati del romanzo, altre pagine notevoli sono quelle dell’arrivo di sua madre Alessandra in città, una contadina analfabeta di cui si vergogna amaramente, già quando lui era ancora uno studente iscritto all’università e si era messo in testa di redimere la malafemmina Rosaria.

La realtà si respinge con asprezza rinnegandola fino alla radice, nel suo grigiore prosaico, per amare solo gli spettri. È proprio questo il destino truce dei protagonisti del romanzo. Questa, a pensarci bene, è anche la parabola conclusiva di qualsiasi lettore e scrittore di romanzi. La voce più ricorrente nella ragnatela velenosa di Menzogna e Sortilegio è la parola ambascia. È una voce anomala e gelosa: “squillante e patetica, misericordiosa e animalesca non rara nel Mezzogiorno” come la stessa voce dell’ostessa moglie reclusa dell’oste Gesualdo.

Dall’enciclopedia Treccani: ambàscia s. f. [etimo incerto] – 1. Grave difficoltà di respiro, unita a senso di oppressione. 2. fig. Oppressione dell’animo, accoramento, angoscia.

Angoscia, oppressione, respiro affannato… predominano nelle descrizioni minuziose dello scantinato di Gesualdo, mescita dei vini oppiacei. Nella Quinta parte del romanzo intitolata Inverno, si descrive appunto Gesualdo, un oste malarico di “selvatica tristezza… e tetra indolenza”, e la sua rivendita di vini, una bottega fuorimano con gli avventori popolani “carrettieri soliti a passare per quelle parti, carbonai delle montagne, zingari accampati nei sobborghi”, uomini del popolo dall’ambiguo sorriso e le occhiate sfuggenti. Sono pagine di malinconica, straordinaria bellezza che emanano il marchio a fuoco della poesia più straziante mentre esprimono l’infelicità predestinata, la miseria inconsolabile, l’amarezza funesta, la muta rassegnazione della condizione umana.

Osserviamo e ascoltiamo questo micro-mondo perduto del Sud che è racchiuso a matrioska dentro tutti i Sud del macro-mondo, attraverso lo sguardo e l’udito ammaliati da scettico stupore infantile della testimone Elisa:

“E intratteneva l’uditorio su argomenti filosofici, e citava nomi e frasi di questo o quel sapiente, come fosse in mezzo a un pubblico di dottori. Non di rado, con grandiosità principesca, ordinava da bere per tutti a sue proprie spese: e coloro lo ringraziavano levando i bicchieri colmi all’altezza delle loro fronti e dicendo: – Avvocato, salute! – Lo chiamavano avvocato, sia per l’eloquenza da lui profusa, e sia perché, mi pare, lui medesimo s’era proclamato possessore di un tale titolo; allo stesso modo che s’era dichiarato, Dio sa con qual diritto, figlio di un gran signore; celebrando, nel fuoco dei suoi racconti, viaggi e conoscenze che pretendeva d’aver fatto in passato, e descrivendo paesi, costumi, istituzioni come fosse un cantastorie in una fiera.
Io lo ascoltavo con scettico stupore; ma, a volte, ero quasi convinta ch’egli non mentisse, tanto i suoi accenti suonavano persuasivi e veraci! (…)

Pareva che le sue menzogne, appena dette, e in virtú, appunto, della sua parola di ebbro, non fossero piú menzogne per lui, ma acquistassero tradizione e sostanza di verità. E che ognuno dei circostanti apparisse, ai suoi sguardi ispirati, seguace della sua medesima teatrale illusione. Egli presumeva, certo, in simili momenti, di dir cose ben piú grandi e importanti che delle semplici fanfaronate. Vi furon giorni che, non curando il presente, incominciò a vaticinare progressi, e conquiste, per cui l’uomo dei secoli futuri sarebbe libero e felice; ed ebbe, nel profetare, la medesima foga visionaria di quando raccontava menzogne sul proprio conto. Sembrava, cioè, non un profeta che crede nella sua repubblica avvenire, ma addirittura un messaggero che celebra la propria vivente patria: scancellandosi per lui, nell’artificio di quegli istanti, ogni intervallo fra le parole e le cose, fra il presente e il futuro. (…)

Che mio padre dicesse il vero o il falso, e ch’egli si vantasse figlio d’un gran signore o si lamentasse della sua misera fatica, era uguale per essi. Né davano altra risposta che quei proverbi, o sentenze sibilline, nel loro antiquato accento di nenia”.

Viene in mente Thomas Hardy e le rabbiose sfuriate anti-accademiche di Jude l’Oscuro nelle sue luride bettole d’Inghilterra affollate di umiliati e offesi.

“Dalla porticina sulla strada, alcuni gradini scendevano alla bottega, dove s’avvertiva un odore gelato e macero di cantina mescolato a un aroma d’aceto. Il pavimento di color lavagna era qua e là rotto e consunto, e dalle finestruole a inferriata pioveva una luce scarsa. Sulla destra c’era non piú che tre o quattro tavoli in tutto, circondati da semplici panche e sedie di paglia; mentre che la sinistra era ingombra di botti e damigiane, e vi si apriva sul fondo, dietro il banco, la porticina del retrobottega. Da questo, per una scaletta a chiocciola, si saliva all’abitazione di Gesualdo; e spesso si udivano scender dall’alto, per quella scaletta, come angelici squilli di tromba, i richiami della moglie di Gesualdo, la quale però non si mostrava mai nella cantina, essendo Gesualdo un marito assai geloso.”

E segue la memorabile descrizione del vino servito nella stamberga e dei suoi taciturni frequentatori dai volti semitici, riportata sempre da un’Elisa bimba onnisciente, annoiata in quel tugurio di avvinazzati. Elisa preferirebbe giocare con la gatta selvatica incinta di cui “nessuna qualità domestica raddolciva la sua primitiva natura” a cui l’oste avrebbe in seguito affogato i micetti rendendosi per sempre malefico e odioso allo sguardo innocente della bambina malamata il cui sogno più grande sarebbe stato proprio quello di ricevere in dono uno di quei gattini nuovi tutto per sé, il solo amico possibile in quel suo universo ostile.

“Il vino fornito da Gesualdo, di un genere assai comune nelle nostre parti, era denso, e appena bevuto lasciava sul vetro la sua traccia nero-purpurea, come fosse un sugo di more. Al gusto, però, non era dolce come le more, bensí amaro, pesante; e, dopo un passaggio di vivacità fittizia, produceva malinconia, caligine e sonno. Si sarebbe detto che dovesse quel suo color bruno a semi di papavero infusi. Impastava la lingua e, a berne fuor di misura, gettava in un letargo donde scacciava perfino i sogni, oltre che la memoria.
Mio padre non ne beveva mai tanto da ubriacarsi: egli passava, attraverso la fase dell’esaltazione, all’indolenza, e in questo stato rimaneva assorto senza ricordarsi del tempo, e della mia stanchezza. Finché, in quei sonnolenti vapori, anche la mia mente s’intorpidiva: ed io stavo ad ascoltare, mezzo assopita, le frasi brevi e scarse, per me spesso enigmatiche, delle conversazioni intorno ai tavoli vicini; o, dalla strada, i numeri gridati dai giocatori di morra. (…) A causa del loro viaggiare solitario, o della razza antica, costoro avevano l’abitudine della meditazione e del silenzio: per cui la sonnolenta natura di quel vino era fraterna ad essi. Di solito, sedevano in tre o quattro alla stessa tavola, con gli occhi bassi e velati, bevendo lentamente senza mai guardarsi né dirsi una parola; ed anche nel gioco erano quasi sempre taciturni, indifferenti, sembrava, alla perdita o al guadagno, sebbene trascorressero ore ed ore intorno alle carte. Coi loro volti semitici dalle barbe trascurate, le occhiate indolenti prive d’interesse o di curiosità, non eran diversi, nella specie, dal padrone sonnambulo e dalla gatta selvatica: e non per nulla, certo, frequentavano assiduamente quell’osteria.”

Negli ultimi capitoli di Menzogna e Sortilegio, la piccola Elisa sempre accompagnando suo padre alla bettola di Gesualdo vivrà le sue ore più disperate e umilianti, con il Butterato completamente ubriaco, svenuto sul tavolo della stamberga in un pomeriggio di afa e calura estiva che accentuano l’allucinazione verista, che amplificano lo squallore della scena di questo “pellegrinaggio infernale”.

Dovrà riaccompagnarlo lei lungo le strade verso casa tra le lacrime della mortificazione estrema che la porteranno al culmine di odio e disgusto nei confronti di quel suo tragico padre, nemico di se stesso come quasi tutta la schiera di spettri autolesionisti che animano il romanzo della Morante, un assoluto capolavoro di stile, sensibilità artistica, osservazione del mondo, autoironia che fa dell’autrice una delle più acute rabdomanti della psiche, cronista lucidissima degli abissi del cuore umano.

“Le vie rimanevano ancora quasi spopolate. Vi s’incontravano solo frotte di ragazzetti mezzi nudi che, insensibili al clima, si davano ai soliti giochi e al chiasso; oltre ai primi scarsi passeggiatori domenicali, ancora istupiditi dalla siesta interrotta anzitempo, e a qualche vagabondo che dormiva buttato in terra all’ombra d’un portone, fra nugoli di mosche. Ancora, sulla città regnava il sonno: soltanto piú tardi, calato il sole disumano, le famiglie, le ragazze a frotte sarebbero uscite agli svaghi della domenica, e incomincerebbero ad apparire i primi ubriachi, familiare spettacolo delle sere festive al sobborgo. Ma in quell’ora prematura, attraverso le vie semideserte nella piena vampa del giorno, un ubriaco aveva l’aria d’uno stralunato pioniere disceso da regioni sideree.
I mille metri di percorso dall’osteria fino a casa furono, è certo, un pellegrinaggio infernale per la fiera Elisa De Salvi.”

La Realtà così com’è! Germinie Lacerteux dei Fratelli Goncourt

3 Dicembre 2017
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La Realtà così com’è! Germinie Lacerteux dei Fratelli Goncourt

“Bevo i miei guai.” Germinie Lacerteux22405529_2052100431684846_650699993739537861_n

È implacabile come la miseria.  Ha questa grande bellezza: la Verità! [Victor Hugo su Germinie Lacerteux]

Germinie Lacerteux dei fratelli Goncourt è uno dei massimi capolavori della letteratura francese, paragonabile per universalità dei temi e profondità di visione ad altrettanti capolavori del Realismo quali Madame Bovary, Le Illusioni Perdute, Thérèse Raquin, Il Rosso e il Nero, Bel Ami, L’Educazione Sentimentale.

<<Era, per così dire, una creatura impersonale, a causa del suo gran cuore; una donna che non apparteneva a se stessa: Dio sembrava averla fatta solo per darsi agli altri.>> FullSizeRender 7

Germinie Lacerteux è un libro fondamentale per cogliere lo spirito di miseria sociale, turbamento, dannazione, pietà, disprezzo, maldicenza, compassione, sogni infranti, ostilità e squallore urbano di Parigi e dei suoi abitanti, 150 anni fa così come probabilmente ancora oggi.

I De Goncourt sono due romanzieri geniali, fisiologi dei sentimenti, entomologi dell’animo umano che con spietata accuratezza radiografano minuziosamente e ferocemente la Realtà anche negli anfratti più nascosti, nelle piccolezze più ignobili, angosciose e patetiche attraverso la lente d’ingrandimento del Romanzo dei romanzi popolari. Leggo a proposito dei fratelli Goncourt, in una nota introduttiva aggiunta all’edizione BUR a Le Due Vite di Germinia Lacerteux tradotto dal grande Oreste Del Buono (OdB):

“(…) la loro attenzione si appuntava volentieri sul piccolo particolare ritenuto da altri ovvio ed insignificante: erano osservatori acuti, minuziosi, formidabili addirittura. (…) procedevano dall’esterno, convinti dell’importanza assoluta, schiacciante dell’ambiente rispetto ai personaggi, e l’ambiente per loro risultava dalla somma dei particolari, dalla somma delle descrizioni. (…) Edmondo e Giulio hanno sentito davvero artisticamente e umanamente il personaggio del romanzo, un romanzo che la realtà aveva loro suggerito, anzi brutalmente imposto: Germinia si chiamava nella realtà Rosa, ed era la serva dei due fratelli, una brava ragazza che la tubercolosi ammazzò, che essi assistettero durante la lunga penosa malattia, e della quale, dopo morta, scoprirono un’insospettata personalità.”

germinie-lacerteux-2b50ecae-31ad-4a8f-8cb0-96a48e09f882Il libro, che è un documento umano sotto forma di romanzo, come illustrato nella prefazione datata 1864, è un vero e proprio manifesto del naturalismo in letteratura. Germinie è una tranche de vie che resta scolpita nella psiche dei lettori come uno struggente carattere di donna, un abisso di dolore e sventura, spirali senza fondo della degradazione fisica e mentale. Spettroscopia di un’esistenza maledetta. Ritratto vivissimo della disperazione, della sfortuna, della crudeltà, del rimorso, del sacrificio di sé e del destino ingrato.1003926-Paul_Gavarni_Jules_et_Edmond_de_Goncourt

<<Da quella brutta creatura si sprigionava una seduzione aspra e misteriosa. L’ombra e la luce, che si urtavano e si spezzavano nel suo viso pieno di cavità e di rilievi, suscitavano quel raggio di voluttà che un pittore d’amore sa mettere nell’abbozzo del ritratto della propria amante. Tutto, in quella donna, la bocca, gli occhi, la bruttezza stessa provocava ed eccitava. Un fascino afrodisiaco esalava da lei, un fascino che attaccava e assaliva l’altro sesso; essa emanava desiderio e ne comunicava l’emozione. Una tentazione sensuale si sprigionava naturalmente e involontariamente da lei, da i suoi gesti, dalla sua andatura, dal più piccolo dei suoi movimenti, dall’aria stessa nella quale quel corpo aveva prodotto una delle sue vibrazioni. Accanto a Germinie ci si sentiva vicino a una di quelle creature che turbano e inquietano, che bruciano di amore e comunicano agli altri questo ardore, una di quelle creature la cui immagine ritorna all’uomo nelle ore di insoddisfazione, tormenta il suo pensiero di giorno, ossessiona le sue notti, turba i suoi sogni.>>000824516

 

Parla, Ricordo. Nabokov fotismi pareidolie fosfeni apofenie

6 Luglio 2017
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Parla, Ricordo. Nabokov fotismi pareidolie fosfeni apofenie.

“…il comune lettore può riprendere la lettura a questo punto.”

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Il Dono, ad esempio, assume il punto di vista di Nabokov émigré nella Berlino pre-nazista degl’anni ’30, la stessa città descritta in modo sublime da Benjamin in Infanzia Berlinese.19247887_2001678960060327_3773389457409072554_n

Quello della pareidolia è un fenomeno molto ben descritto da Nabokov che nella sua “autobiografia rivisitata” fa parlare il ricordo ammassando e dando forma di scrittura alle macchie amorfe del passato.

A pensarci bene questa forma d’allucinazione visiva e ricostruzione della memoria a posteriori si può tranquillamente estendere a ognuna delle nostre pre-supponenti visioni del mondo: fedi religiose, convinzioni politiche, attitudini morali, innamoramenti, cioè come a dire che l’essere umano attraverso l’ordine del linguaggio e per tramite della coscienza involontaria, cerca di dare senso e forma compiuta al CUI (Caos Universale Incommensurabile) nel quale si trova a respirare per un numero più o meno limitato di ore, giorni, anni. 20139925_2008380589390164_5308409152179326800_n

Così Nabokov in Parla, Ricordo:

<<E neppure alludo alle cosiddette muscae volitantes: ombre proiettate sui bastoncini della retina da corpuscoli nell’umore vitreo e che si tendono visibili sotto forma di filamenti trasparenti vaganti attraverso il campo visivo. Forse, ai miraggi inagogici ai quali sto pensando si avvicina assai più la chiazza colorata, la trafittura di un’immagine persistente, con la quale la lampada che hai appena spento ferisce la notte delle palpebre. Tuttavia, uno choc di questo genere non è in realtà il necessario punto di partenza di quel lento, costante sviluppo delle immagini che trascorrono dinanzi ai miei occhi chiusi.

(…) A volte, tuttavia, i miei fotismi assumono un flou alquanto piacevole, e allora vedo – proiettate, per così dire, sulla superficie interna delle palpebre – grigie figure che incedono tra alveari, o pappagalletti neri che svaniscono a poco a poco tra nevi di montagna o una lontananza color malva che si fonde al di là di alberi di navi in movimento.

(…) Una spirale colorata in una sfera di vetro: ecco come io vedo la mia vita.>>

IMG_2834Vladimir Nabokov in due scatti struggenti: giovanissimo con una collezione di farfalle, magnifica ossessione di tutta una vita, e anziano con suo figlio Dimitri nell’ultima foto che lo ritrae vivo nell’aprile del 1977, morirà di lì a qualche mese. 19665553_2001475046747385_1064324481600484647_n19665614_2001475036747386_4068055241985463173_n

“Lo stile e la struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono inutili.”
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Morte a Credito del Traduttore

24 Novembre 2015
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“Tradurre già in sé è un atto di amicizia, un movimento verso l’altro che si risolve nel porre la propria voce accanto a quella dello scrittore, in una specie di confronto di fedeltà.” Ezio Raimondi

La oramai mitica traduzione curata da Giuseppe Guglielmi di Morte a Credito, capolavoro indiscusso di Céline, resta ancora inspiegabilmente inedita per una qualche stronza questione di diritti editoriali.

Mi accodo spassionatamente a quanto riferisce il prof. Ezio Raimondi in un suo bel libretto di ricordi Le Voci dei Libri: “Il romanzo era già stato pubblicato in una versione di Giorgio Caproni, che aveva tuttavia inserito una tonalità toscana poco adatta a rendere Céline, che vernacolare non è mai. L’Equivoco di Caproni fu quella di risolvere la lingua sulfurea del francese, il suo grottesco da tragedia, in linguaggio comico, senza poter dare conto degli elementi apocalittici di cui quella comicità si sostanzia, portando alla fine in tutt’altra dimensione, quella semmai del Dante infernale… Céline717117 è tra i primi che cerca di tradurre la dissonanza in linguaggio poetico, là dove la nudità dell’essere si lega a un mondo di suoni, al cozzo dei metalli, in una lingua che gareggia con i bombardamenti. In alcuni tratti si ha la sensazione di essere dentro la terra che trema. La parola oscilla quasi in un sisma grandioso dove le granate producono il ribaltamento del suolo e sovvertono le leggi della gravità. Tutto questo riesce a conservare in un prodigio di sensibilità acustica, la versione di Guglielmi.” 

Sensibilità acustica mi pare dote fondamentale a uno scrittore, vedi l’implacabile ascoltatore Elias Canetti del Testimone Auricolare, figuriamoci quanto sia talento imprescindibile a un traduttore operante nella solitudine e nell’ombra, eroico minatore intento all’estrazione di sensi suoni significati, cercatore d’oro tra fiumi, mari e montagne di parole color carbone.

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Anche sull’intenso Viaggio al Termine della Notte, amaro prontuario di profezie tutt’altro che smentite ai giorni nostri, bibbia della disperazione Occidentale vissuta e manoscritta sull’abisso delle guerre mondiali, alle frontiere del fordismo yankees, ai margini dell’alienazione urbana e dei vorticosi deliri della Tecnica, delle inesorabili contraddizioni del progresso, dei soprusi del post-colonialismo, c’è un interessante confronto intellettuale fra traduttori che Ernesto Ferrero racconta assai bene in questa sua nota sulla rivista Tradurre.

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In aggiunta finale, le illustrazioni di Jacques Tardi “traducono” in immagini con minuziosa congenialità d’intenti l’atmosfera d’impotenza, l’umornero di disfatta e la schiuma avvelenata d’apocalisse che sovrasta questi due pilastri della letteratura mondiale
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