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Léger/Milhaud – 1922/1923

17 Gennaio 2023
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Creation du monde 2 Fernand Léger (1881-1955), Mise-en-scène for the ballet La Création du monde 1922
[Fernand Léger (1881-1955), Mise-en-scène for the ballet La Création du monde 1922, MOMA NYC]
Darius Milhaud (1892-1974) fa parte del Gruppo dei Sei (Le Groupe des Six).
La Création du monde (1922-1923) su libretto di Blaise Cendrars è un balletto commissionato dai Ballets Suédois, i successori svedesi dei Ballets Russes di Diaghilev, dove il compositore interpreta l’evoluzione stilistica operata in Francia Neglia anni ’10-’20 del ‘900 in direzione di una maggiore chiarezza, nettezza e concisione delle linee strumentali.
Ouverture
 Le chaos avant la création
 La naissance de la flore et de la faune
 La naissance de l’homme et de la femme
 Le désir
 Le printemps ou l’apaisement
Questo pezzo riflette l’affinità della musica colta verso il Jazz, e una secolare propensione francese per l’esotico. L’orecchio di Milhaud era molto suscettibile a tutti i tipi di influenze, ma era un diverso tipo di esotismo che lo attraeva. Gli apparteneva sia la Parigi di Le Jazz Hot e di Josephine Baker, sia quella dei dipinti e delle sculture di Picasso ispirate alle maschere africane. Nel 1920 l’eleganza africana (e afroamericana) stava invadendo Parigi e questo balletto potrebbe essere stato il tentativo calcolato a tavolino dei Ballets Suédois di attingere a piene mani da questa “moda”.
Creation du monde 4Fernand Léger (1881-1955), Mise-en-scène for the ballet La Création du monde 1922
Milhaud la prima volta che ha ascoltato un gruppo jazz americano ne è rimasto talmente affascinato che si è traferito per un periodo a New York per girare nei jazz club e bar musicali, visitare Harlem e in generale frequentare musicisti jazz. Tornato in Francia, iniziò a scrivere in quello che chiamava un “idioma jazz”. Il musicista marsigliese non si è avventurato in profondità nel vero linguaggio del jazz, scegliendo invece liberamente di colorare la sua musica con giri di armonie e melodie blues, ritmi pesanti e climax oscillanti. Le influenze jazz emergono in molte delle sue opere, ma la composizione di questo balletto è stata la prima grande opportunità per esprimere la sua nuova passione. Anche la formazione strumentale attinge ai suoi ricordi di New York: “In alcuni spettacoli”, ricorda Milhaud, “i cantanti erano accompagnati da flauto, clarinetto, trombe, trombone, una complicata sezione di percussioni suonata da un solo uomo, pianoforte e quartetto d’archi.”
Milhaud Notes sans Musique
L’originale politonalità di Milhaud è intesa come dilatazione della tonalità. Spirito artigianale e prolificità creativa, lascia una mole sterminata di lavori, circa 700. Sperimentalismo e antidogmatico caratterizzano la sua opera, scritta sia per piccolo ensemble che per orchestra, vicina all’impressionismo nel delicato lirismo, o ironica, con influssi di Satie di cui era amico al quale dedica un saggio critico nel 1946. Singolare la sua autobiografia “Note senza musica”, preziosa testimonianza della lunga e creativa stagione della musica francese del XX secolo.
I costumi de La Création sono stati disegnati da Fernand Léger (che ha anche creato la scenografia). Funzionavano magnificamente dal punto di vista visivo, ma i ballerini lo ricordano come un inferno coreografico: costumi pesanti e rigidi che rendevano quasi impossibile muoversi liberamente.
Direttore: Michael Tilson Thomas
Orchestra: New World Jazz + New World Symphony

Creation du Fernand Léger (1881-1955), Mise-en-scène for the ballet La Création du monde 1922

Arp/Roussel – 1928

16 Gennaio 2023
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1254940 Configuration, 1927-1928, by Hans Arp (1886-1966). France, 20th century. by Arp, Hans (Jean) (1887-1966); Kunstmuseum, Basel, Switzerland; (add.info.: Configuration, 1927-1928, by Hans Arp (1886-1966). France, 20th century. Basel, Kunstmuseum (Art Museum)); © NPL - DeA Picture Library / M. Carrieri. Please note: This photograph requires additional permission prior to use. If you wish to reproduce this image, please contact Bridgeman Images and we will manage the permission request on your behalf.
Arp, Hans (Jean), Configuration, 1927-1928, Kunstmuseum, Basel

 

[Hans (Jean) Arp (1886-1966), Configuration, 1927-1928, Basel, Kunstmuseum]
Albert Roussel (1869-1937), allievo di Vincent d’Indy, dal 1902 per un decennio insegna a Parigi presso la Schola Cantorum. Il suo stile è modale e acquista particolare fascino tramite inserti esotici.
Nel campo della musica strumentale i lavori di Roussel presentano marcata ritmicità, politonalità, concisione formale e inserti umoristici, come nel Divertissement Op. 6 for wind quintet and piano (1906 per 6 strumenti).
I suoi primi lavori sono influenzati dall’Impressionismo di Debussy e Ravel. Ha studiato armonia con Julien Koszul, nonno del compositore Henri Dutilleux. Roussel ha anche insegnato, suoi studenti sono stati Erik Satie e Edgard Varèse. Incuriosito dalla musica jazz, Roussel ha scritto una composizione pianoforte-voce intitolata “Jazz dans la nuit op. 38” (1928) su una poesia di René (Auguste Louis Henri) Dommange (1888 – 1977). Brano simile nell’ispirazione ad altre opere di impronta jazz come il secondo movimento della Sonata per violino di Ravel o La création du monde di Milhaud.
Le bal, sur le parc incendié
Jette ses feux multicolores,
Les arbres flambent, irradiés,
Et les rugissements sonores
Des nègres nostalgiques, fous,
Tangos nerveux cuivres acerbes,
Étoufent le frôlement doux
Du satin qui piétine l’herbe.
Que de sourires épuisés,
À l’ombre des taillis complices,
Sous la surprise des baisers consentent
Et s’évanouissent…
Un saxophone, en sanglotant
De longues et très tendres plaintes,
Berce à son rythme haletant
L’émoides furtives étreintes.
Passant, ramasse ce mouchoir,
Tombé d’un sein tiède, ce soir,
Et qui se cache sous le lierre;
Deux lèvres rouges le signèrent,
Dans le fard, de leur dessin frais,
Il te livrera, pour secrets,
Le parfum d’une gorge nue
Et la bouche d’une inconnue.
Constellation According to the Laws of Chance c.1930 Jean Arp (Hans Arp) 1886-1966 Bequeathed by E.C. Gregory 1959 http://www.tate.org.uk/art/work/T00242
Constellation According to the Laws of Chance c.1930 Jean Arp (Hans Arp)

Burri/Scelsi – 1948

15 Gennaio 2023
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Burri/Berg – 1948[Alberto Burri, Nero 1 (1948)]
[Alberto Burri, Nero 1 (1948)]
Giacinto Francesco Maria Scelsi d’Ayala Valva (1905–1988) visse la sua infanzia prevalentemente presso il castello di proprietà.della famiglia materna (il castello di Valva, in Irpinia), dove ricevette un’educazione singolare: un precettore gli dava lezioni di latino, scherma e scacchi. Studiò musica con Koelher, che lo iniziò al sistema musicale di Skrijabin. Rimase affascinato dalle alchimie armoniche e dallo spiritualismo del compositore russo più che dalla dodecafonia schoenberghiana, con la quale venne a contatto a Vienna, aderendo solo in parte al serialismo e restando più affine a Berg. Alla metà degli anni 40 si avvia verso un abbandono radicale del discorso musicale che presto sarebbe arrivato all’annullamento totale delle altezze e quindi del rapporto diacronico tra suoni di differente frequenza. A partire da “La Nascita Del Verbo” (scritta nel 1948, ed eseguita solo nel 1950) il linguaggio musicale di Scelsi giunge all’ “atomizzazione del suono singolo” che culmina nei Quattro Pezzi Per Orchestra, basati su una singola nota ciascuno. Annullamento della dimensione melodica per concentrare l’elaborazione musicale esclusivamente sul timbro con un massiccio utilizzo della tecnica degli armonici e dei quarti di tono, ottenibili solo dagli strumenti a corda e a fiato. Sono anni molto travagliati per Giacinto Scelsi, in cui prevale l’interesse per la poesia, le arti visive, il misticismo orientale e l’esoterismo. È di questo periodo l’accettazione attiva delle filosofie orientali, delle dottrine Zen, dello Yoga e della problematica dell’Inconscio, che si riflette anche nella sperimentazione in campo musicale. La strumentazione di figure determinate dal caso, l’improvvisazione su strumenti tradizionali usati in modo nuovo, l’uso dell’ondiola, (primo strumento elettronico capace di riprodurre i quarti e gli ottavi di tono) ma soprattutto la maniera di improvvisare in uno stato privo di condizionamenti molto vicino al vuoto Zen, improntano le sue opere più significative.
Precursore del minimalismo e del radicalismo post-strutturalistaIl, il metodo di composizione di Scelsi era alquanto originale: registrava infatti su nastro magnetico le proprie improvvisazioni, affidando poi la trascrizione a collaboratori che operavano sotto la sua guida.
Il lavoro si arricchiva successivamente con dettagliate indicazioni per l’esecuzione e con accorgimenti per la realizzazione di quel particolare suono minuziosamente ricercato da Scelsi (sordine appositamente costruite per gli archi, strumenti a corde trattati come percussioni, filtri sonori per deformare il suono dei fiati, basi di registrazione preesistenti quale traccia all’esecuzione).
Originalissimo anche il metodo di orchestrazione, che consisteva nell’accoppiare strumenti simili sfasati di un quarto di tono, con imprevedibili effetti acustici di battimento. Particolari tecniche di scrittura vocale, basate sulla costruzione di masse sonore verticali, formate da suoni sovrapposti a distanze micro tonali gli uni dagli altri simili alle micropolifonie di Ligeti.
Giacinto Scelsi La nascita del verbo

Mednyánszky/Kodály – La musica di tutti

13 Gennaio 2023
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Mednyánszky/Kodály – La musica di tutti
[Laszlo Mednyanszky, In the tavern, 1899]
[Laszlo Mednyanszky (1852-1919), In the tavern, 1899]
La musica è di tutti!
Zoltán Kodály (1882-1967) si laureò nel 1906 in lingua e letteratura ungherese e tedesca con una tesi sulla Struttura strofica della canzone popolare ungherese. Come compositore Kodály esordì con pezzi pianistici e, insieme con Bartók, con l’edizione di Venti canti popolari ungheresi (1906) per voce e pianoforte, armonizzati in un contesto non già tonale, ma pentatonico e modale.
Metodo Kodály per approfondimenti.
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La musica popolare, espressione spontanea dello spirito di un popolo e sintesi compiuta e perfetta di musica e parola, è chiamata da Zoltán Kodály madre lingua musicale, in quanto tale ha il valore di “nutrimento” iniziale nella vita musicale del bambino.
In Ungheria il canto popolare viene riscoperto nel suo valore e nella sua ricchezza grazie all’intensissima attività sul campo e all’analisi scientifica del materiale registrato o trascritto, ad opera di Kodály e Bartók.
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Kodály nel corso della sua ricerca, che copre tutto l’arco della sua stessa vita, registra quasi 5100 melodie e varianti melodiche in 235 villaggi della “grande Ungheria” (che si estende ben oltre i confini attuali e copre zone ora appartenenti alla Romania, alla Slovacchia, alla Repubblica Ceca, all’Ucraina, alla Serbia e alla Croazia). Grazie a questo immenso e appassionato lavoro nasce il Corpus Musicae Popularis Hungaricae pubblicato dall’Accademia d’Ungheria (8 volumi, 1951-73), l’edizione completa dei canti popolari ungheresi, che per la prima volta al mondo rappresenta una pubblicazione sistematica e scientifica dell’intera tradizione musicale di un popolo.
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Acciaio/Sette Invenzioni di Malipiero – 1933

12 Gennaio 2023
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Acciaio/Sette Invenzioni di Malipiero – 1933
acciaio Ruttmann prod Cines 1933
Acciaio Ruttmann prod Cines 1933
Acciaio di Walter Ruttman (1933) da un soggetto cinematografico di Pirandello richiesto da alcuni personaggi politici vicini a Mussolini. Film tempestato di polemiche e disavventure. Sceneggiatura di Mario Soldati, ma Pirandello denigrava sia Soldati che Ruttmann il quale, indifferente al melodrammone, con l’occhio del documentarista e in presa diretta gira memorabili scene industriali, “la sinfonia delle macchine”, nello stabilimento siderurgico di Terni. La direzione della produzione fu affidata a Emilio Cecchi.
Gian Francesco Malipiero (1882-1973) compone le Sette Invenzioni (1933), concepite originariamente come colonna sonora per il film Acciaio. Il musicista veneziano dopo oltre 30 anni, nel numero speciale di Bianco e Nero di marzo/aprile del 1967 dedicato alla Colonna sonora dichiarerà: “Io scrissi la musica per conto mio e gli altri fecero il film per conto loro; Ruttmann volle fare in quella produzione il despota.”
Malipiero è una personalità ricchissima, in bilico tra verismo e rigore impressionistico. Influenze di Schönberg e Bartók.
Orchestra Filarmonica del Veneto diretta da Peter Maag.
I. Non troppo mosso
II. Mosso
III. Non mosso ma allegro
IV. Lento ma non troppo
V. Allegro agitato
VI. Lento ma non troppo
VII. Allegro

Arbus/Maxfield – 1967

11 Gennaio 2023
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Arbus/Maxfield – 1967
[Diane Arbus Identical Twins, Roselle, New Jersey, 1967]
[Diane Arbus, Identical Twins, Roselle, New Jersey, 1967]
Di Richard Maxfield (1927-1969) considerato uno dei principali pionieri della musica elettronica americana, David Toop scriveva su Ocean of Sound:
David Toop – Ocean of Sound

“Se Richard Maxfield non si fosse suicidato nel 1969, e se i suoi pezzi di musica elettronica non fossero così difficili da trovare o da ascoltare, allora la nostra idea di come la musica sia cambiata e si sia aperta durante gli ultimi trentacinque anni sarebbe senz’altro diversa”.

Terry Riley che ha seguito le sue lezioni ricorda: “Andavo nel suo studio di missaggio quando lavorava alla Westminster Records nel 1960-61 e lo osservavo montare quei vecchi nastri da bobina a bobina. (…) Capiva davvero l’elettronica; era molto creativo e sperimentale. Insegnava musica elettronica e composizione ai massimi livelli.”

New Sounds in Electronic Music è un vinile del 1967, contiene tre sperimentazioni sonore di Steve Reich “Come Out”; Richard Maxfield “Night Music”; Pauline Oliveros “I of IV“.

New Sounds in electronic music

Gorky/Berio – 1948/1961

10 Gennaio 2023
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Gorky/Berio – 1948/1961GORKY, Arshile_Última pintura (El monje negro), 1948_564 (1978.72)

[Arshile Gorky, Last Painting (The Black Monk) 1948].
[L’immagine del dipinto in evidenza invece è The Liver is the Cock’s Comb 1944.]
Luciano Berio (1925-2003): Epifanie per mezzosoprano e orchestra (1959-1961; 1965).
Epifanie, composto dal 1959 al 1961 e rivisto nel 1965, è costituito da un ciclo di sette pezzi strumentali (A, B, C, D, E, F, G) che viene interpolato da un ciclo di cinque brani vocali (a, b, c, d, e). I testi dei brani vocali (un montaggio di citazioni proposto da Umberto Eco) sono tratti da Proust (a: À l’ombre des jeunes filles en fleur), Joyce (b: A Portrait of the Artist as a Young Man e Ulysses), Antonio de Machado (c: Nuevas Canciones), Claude Simon (d: La route des Flandres) e Brecht (e: An die Nachgeborenen). C’è però un testo che è legato all’inizio del pezzo orchestrale G: è una breve poesia di Sanguineti tratta da Triperuno.
I due cicli possono combinarsi tra loro in vari modi. I brani orchestrali possono essere eseguiti da soli seguendo ordini diversi (Quaderni per orchestra). I pezzi vocali possono essere invece eseguiti solo come epifanie nel flusso variabile del percorso orchestrale. I nessi e i contenuti dei testi potranno quindi apparire in una luce diversa a seconda della loro posizione nel ciclo strumentale. L’ordine scelto metterà in evidenza la loro diversità o la loro latente continuità (l’immagine dell’albero, per esempio, è un tema ricorrente). In maniera analoga, un certo ordine di successione dei brani orchestrali potrà evidenziare le costanti strutturali (per esempio le «rime» armoniche), mentre un altro ordine farà risaltare le divergenze. Io preferisco una distribuzione dei pezzi orchestrali che metta in rilievo le divergenze, e una distribuzione dei brani vocali che suggerisca invece un passaggio graduale da una situazione poetica orientata verso la trasfigurazione della realtà (Proust, Joyce, Machado) a una registrazione pressante dei ricordi (Sanguineti) e alla descrizione disincantata delle cose (Simon: la voce che parla viene inesorabilmente annullata dall’orchestra). Ultimi, i versi di Brecht, che non hanno nulla dell’epifania: sono il grido di rimpianto e di angoscia con cui Brecht avverte che talvolta bisogna rinunciare al fascino della parola poetica: quando essa, con la contemplazione, comporti il rischio del silenzio e quando suoni come un invito a isolare l’evento nella visione, dimenticando i nessi che quell’evento legano – e noi con lui – al mondo che i nostri atti costruiscono.
Cathy Berberian, voce
Orchestra della RAI di Roma diretta da Luciano Berio.
Registrazione dal vivo, Roma, 15 Marzo 1969.

De Kooning/Bartók – 1943

9 Gennaio 2023
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De Kooning/Bartók – 1943
[Willem de Kooning, “Woman,” 1943]
[Willem de Kooning, “Woman,” 1943]
Il concerto (1943) per orchestra di Béla Bartók per la Fondazione Musicale “Koussevitzky”, composto dal musicista ormai malato in America, è il suo testamento spirituale. Esuberanza politonale e poliritmica; magniloquenza orchestrale e timbrica accanto a sonorità al limite del silenzio traducono con efficacia e profondità la solitudine dell’uomo Bartók e con lui il disagio dell’era contemporanea.
Scritti sulla musica popolare

Itri Basilico Ligeti Lontano

8 Gennaio 2023
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Itri Basilico Ligeti Lontano
Castello Medioevale Itri
Il castello al paesello (Itri – LT). L’immagine in evidenza invece è Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche 1978-1980, via Condino.
György Ligeti commenta la sua tecnica compositiva in merito a Lontano (1967):
<<La “cristallizzazione armonica” all’interno dell’area della sonorità porta a un processo di pensiero intervallo-armonico che è quindi radicalmente diverso dall’armonia tradizionale e anche atonale. […] Tecnicamente ciò si ottiene con l’ausilio di metodi polifonici: le armonie fittizie emergono dal complesso tessuto vocale e la graduale opacità e nuova cristallizzazione sono il risultato di discrete alterazioni nelle singole parti. La polifonia in sé è quasi impercettibile ma il suo effetto armonico rappresenta l’azione musicale intrinseca: sulla pagina è polifonia, ma ciò che si sente è armonia.>>

NdC AudioVisive e l’Algoritmo Leviatano

7 Gennaio 2023
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Perché mai la gente dovrebbe appassionarsi per le cose che non conosce?

György Ligeti

Natura delle Cose audiovisive e l’Algoritmo Leviatano [qui la versione in inglese]Sul "gesto" apotropaico si confronti J.N. Adams, Apotropaic and ritual obscenity, in The Latin Sexual Vocabulary, JHU Press, 1990.Sul “gesto apotropaico” si confronti J.N. Adams, Apotropaic and ritual obscenity, in The Latin Sexual Vocabulary, JHU Press, 1990.

<<Natura delle cose audio-visive. Un vino quotidiano schietto fatto di suoni, rumori, visioni, silenzi. Costellazione multimediale di saperi.>>

Questa la “tag-line” nello spirito umanistico di Bachelard quando pregava: “Dacci oggi il nostro libro quotidiano.

Pars destruens

Non serve essere chissà che scienziati della comunicazione per accorgersi che non siamo noi ad usare l’algoritmo di Facebook ma è l’Algoritmo che abusa di noi. È un Leviatano che ci cannibalizza, che si nutre giorno dopo giorno della nostra identità virtuale, inasprendo al massimo il peggio di noi: narcisismo, malevolenza, frustrazione, risentimento, ostilità, ignoranza, megalomania, autocelebrazione, intolleranza, esibizionismo…

Noi però – tanto i consapevoli quanto gli sprovveduti – non siamo che patetici, insignificanti numerini vomitati nella trappola per sorci dei “Big Data”. Ridiamo ormai tutti in massa degli stessi “meme”. Commentiamo tutti gli stessissimi eventi del momento polarizzati tra i pro o i contro. Condividiamo in molti l’identica rabbia, gioia o dolore per i necrologi del giorno. Ci scandalizziamo e siamo altruisti a comando. Ci odiamo e veneriamo in troppi l’un l’altro a colpi di “flame”, “like”, “selfie” con le labbra a culo di struzzo sullo “specchio delle mie brame” delle nostre bacheche spettrali.

L’algoritmo non lo fotti perché è stato creato per fotterci. Forse, senza risultare troppo paranoici o pomposi, se ne può fare un uso meno tossico di Facebook e dei social in generale. Autocommiserarsi e lagnarsi soltanto serve a poco. Bisogna trovare una soluzione concreta, una via di fuga almeno per noi stessi, per quanto improbabile o inefficace possa sembrarci sulla breve durata ma chissà che non sia una soluzione decisiva se prospettata a lungo termine. Raccogliere ciò che è disperso nella melma di Internet per ridargli rispettabilità educativa e beneficio di conoscenza. Visto poi il fallimento collettivo dell’istituzione scolastica e dell’insegnamento ufficiale sotto tanti punti di vista – dalle scuole dell’infanzia all’università -, adattarsi ad una radicale forma di concentrazione monastica e propensione all’autodidattica mi pare un buon metodo per affinare il proprio giudizio critico, per praticare la giusta disciplina marziale di ricerca interiore in “smart-working“.

Educarsi a conoscere ogni giorno qualcosa di nuovo è forse il solo modo per non farsi narcotizzare i sensi dalla distrazione collettiva generale diramata e perpetrata dal Sistema.

Pars construens

Tutto è stato fatto, e niente è stato fatto; per cui tutto è da fare, e non c’è niente che non si possa fare.” Emilio Villa

La Rete può essere tanto uno strumento di distrazione di massa quanto un collettore di stimoli sensoriali, di propulsioni conoscitive (sviluppo gnoseologico). Un atlante fluido di saperi vastissimi e incessanti che però bisogna imparare a leggere proprio come si leggono le mappe geografiche. Se non siamo in grado di orientarci in modo attivo la Rete è un abisso di informazioni dispersive, inefficaci al nostro accrescimento personale, si trasforma in un’accozzaglia di impulsi multiformi sterili che subiamo passivamente. Rischia cioè di diventare un deserto mobile sconfinato di granelli spazzati dal vento. Un vortice di puntini sovrapposti che dobbiamo sempre essere in grado di unire tra loro per dargli un senso progettuale, per cercare di non perdere l’orientamento. Per evitare infine che il nostro complesso schema di pensiero sia sottomesso e polarizzato dallo schema binario della Macchina che tende a appiattire/banalizzare qualsiasi cosa sul suo cammino. Allenare tutti i giorni i sensi della vista e dell’udito è Yoga per la mente, cibo e vino per lo spirito. Questo cortocircuito perenne di informazioni raccolte online o dai libri, dalle bibliografie delle arti visive, dalle discografie e dalle filmografie, diventa una pratica artigianale di risveglio della coscienza che stimola il nostro intelletto, focalizzandoci sempre più a comprendere noi stessi e gli altri. Più impariamo a leggere, interpretare, criticare, vedere ed ascoltare il mondo, meno ci facciamo infinocchiare dal brutto, dal falso, dall’Intelligenza Artificiale, dal vuoto culturale dentro cui sprofondiamo. Più siamo concentrati sull’accrescimento interiore di noi stessi e sul nostro sviluppo intellettuale meglio possiamo contrastare l’intorpidimento forzato del cervello calcolato millimetricamente a tavolino da algoritmi e big-data. Avversare con tutte le nostre forze l’omologazione del nostro senso estetico. Combattere a sangue l’abbrutimento, l’imbambolamento veicolato della nostra soggettività sia virtuale che reale la quale, se abbandonata a se stessa, manipolata dai flussi dell’Algoritmo, diventa sempre più un’identità passiva plasmata a misura di un sorcetto da laboratorio

Giuseppe Viviani, Eyes, litografia, 1961
Giuseppe Viviani, Eyes, litografia, 1961

Con l’esercizio concentrato, lento ma costante di scoperta ostinata su Internet, “costringiamo” la Rete a trasformarsi, a spalancarsi pian piano in una magnifica avventura della conoscenza dove oltre i soliti siti di ricerca e piattaforme enciclopediche-universali  (Google, Wikipedia, YouTube… soprattutto se si masticano inglese, francese e altre lingue), si scoprono blog raffinatissimi, si rivelano come tesori dei siti di approfondimento specialistici incredibilmente competenti sul cinema, la musica, l’arte, la letteratura, lo yoga, gli scacchi, la viticoltura e su qualsiasi altro argomento o disciplina a cui vogliamo dedicare le nostre osservazioni, documentazioni, analisi circoscritte.

Attenzione, non si tratta di erudizione fine a se stessa, ma di furiosa smania conoscitiva. Imparare da sé a decifrare i segni visivi e sonori da cui siamo letteralmente inondati significa imparare a stare al mondo. Si tratta cioè di appagare il desiderio di conoscere le cose, di colmare dei vuoti affettivi come un gesto riempitivo d’amore e cura per se stessi. Perdenti agli occhi delle masse di gente abituate a giudizi e pregiudizi superficiali, ma vincenti nel rispetto che portiamo verso il Sapere e verso noi stessi.

«I perdenti, come gli autodidatti,
hanno sempre conoscenze più vaste
dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere
una cosa sola e non perdere tempo a
saperle tutte, il piacere dell’erudizione è
riservato ai perdenti. Più cose uno sa,
più le cose non gli sono andate per il verso giusto».

– Umberto Eco –

Orientarsi nel caos enciclopedico del Web non è uno scherzo, è un’impresa sfiancante. Anche perché è un’essenza eterea, “liquida”, è la sua natura di interconnessione informatica. I contenuti, i dati che ci interessano sono già tutti lì stratificati uno sull’altro in un flusso infinito di codici, input e output. Come esploratori del sapere audiovisivo dobbiamo necessariamente distinguere e riconoscere le informazioni utili da quelle superflue, setacciare di continuo in questa bolgia melmosa di parolesuoniimmagini per separare l’oro dal fango. Le competenze – tanto teoriche che pratiche – si acquisiscono nel tempo a furia di curiosità, studio, ricerche, approfondimenti, comparazioni, tenacia.

Man Pulling Face, detail of Satirical Diptych by an anonymous Flemish artist, circa 1520
Man Pulling Face, detail of Satirical Diptych by an anonymous Flemish artist, circa 1520

È necessario difendersi mani e piedi perché il rischio è quello di venire inghiottiti dal Sistema, spolpati dell’anima mentre il guscio del corpo viene sputato via lontano su un cumulo gigantesco formato da milioni di altri gusci sputati. Sì perché il rischio che si corre è quello di essere pian piano tramutati in tante entità piatte, in fruitori robotici sterilizzati della volontà di sapere, quindi di pensare con la propria testa e di agire, volontà che identifica la nostra specie, caratterizza la nostra sola dignità umana di esseri pensanti e in qualche modo liberi. È indispensabile soprattutto aver fame, essere affamati di una curiosità onnivora sulla scia del Calvino saggista, il Calvino collezionista di sabbia e ricercatore dei mondi scritti e mondi non scritti.

Spremendo informazioni e connessioni dalla Rete e dai libri, provo a plasmare un palinsesto di contenuti culturali concatenati. Insisterò a diffondere cortocircuiti psichici sulla mia pagina Natura delle Cose. Questo palinsesto lo voglio concepire come una costellazione multimediale di espressioni creative attinenti alla ricerca artistica, dal microcosmo dell’immagine (pittura fotografia cinema), alle sperimentazioni nell’universo sonoro, fino ai margini estremi dell’afasia, dell’incomunicabile, del caos primordiale, della disarmonia, del balbettamento filosofico. Lo immagino come una mappatura fluida delle esperienze dei linguaggi musicali/visivi che hanno lievitato e prolificato negli ultimi cento anni, diciamo più o meno a partire dalle avanguardie storiche nei primi decenni del ‘900. È un quaderno d’appunti in divenire dove sollecito la stimolazione continua ai nostri organi della vista e dell’udito. È un diario di bordo dove io per primo imparo qualcosa ogni giorno assieme a chi abbia la voglia e la curiosità di leggere la correlazione dei geni creativi che hanno udito altre possibilità di linguaggio, che hanno intra-visto altri mondi possibili. Lo scopo che mi prefiggo non è ovviamente esaustivo e non pretende di essere compilatorio/sterile ma è un abbozzo di associazioni d’idee vive, congregazioni di pensieri scaturiti da libri, articoli, siti internet, concerti, musei, film. Traccio un percorso tra migliaia di altri percorsi potenziali. Instillo le mie scintille di curiosità e di correlativi oggettivi come li definiva T.S. Elliot in Il bosco sacro. Saggi sulla poesia e sulla critica.

Una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un’emozione particolare.

Distillo le mie passioni, credenze e cognizioni nel calderone interconnesso, con la fiducia certo un po’ naïf di accendere il fuoco della conoscenza – analogica e digitale – anche in altri individui che cercano, leggono, scrivono sia sulla carta che online.

Imparare facendo è l’antico adagio risuonato per secoli nelle botteghe degli artigiani dove il sapere manuale, le cognizioni tecniche, le abilità pratiche si trasmettevano per generazioni dai maestri agli allievi. È un monito che trovo sempre valido e che faccio mio, nonostante l’estinzione di tanto mondo artigianale indotto anche soprattutto dalla tecnologia informatica che ha stravolto per sempre la faccia del pianeta la quale tuttavia permette a me e a milioni di altri di pubblicare e comunicare le proprie cose, interessanti o noiose, stimolanti o insignificanti sta a chi legge deciderlo.

A qualcuno potrà sembrare una perdita di tempo quella di connettere mondi artistici, raccogliere e riordinare visioni del mondo in Rete per stimolare la ricerca dei lettori. Potrà sembrare in effetti uno sforzo illusorio come quello di contare i granelli di sabbia nel deserto, ma per me è un esercizio Zen di concentrazione e pulizia della mente. In effetti sono quasi certo che questa pratica continua di comunicazione dei contenuti culturali positivi sia una preparazione atletica sana, efficace a tonificare il cervello tanto di chi scrive quanto di chi legge.

Sarà insomma un’esplorazione avventurosa oltre i “limiti” di quelli che crediamo essere il nostro “linguaggio” e il nostro “mondo”, a ricordare non a caso il primo Wittgenstein del Tractatus, pubblicato nel 1921 quando aveva appena 30 anni, in quei primi decenni del secolo scorso appunto che hanno preannunciato catastrofi mondiali spaventose, scoperte scientifiche impensabili per l’umanità, invenzioni poetiche e sperimentazioni artistiche arrischiate su vertici dove l’intelligenza della nostra specie si confonde con la propria bestiale idiozia autodistruttiva.

«Perché mai la gente dovrebbe appassionarsi per le cose che non conosce?» si chiedeva amareggiato György Ligeti nel libro-conversazione con Eckhard Roelcke, Lei sogna a colori? (Edizioni Alet) a proposito del disinteresse della gente nei confronti della musica contemporanea. Ecco, tutta questa mia elucubrazione fino a qua, tenta di dare una risposta articolata alla domanda amara ma essenziale di Ligeti.

Insomma un post al giorno concatenando le visioni sonore e i visionari delle arti visive, come esercizio d’apprendimento costante o semplice “rito apotropaico” per arginare l’ondata di false notizie e cospirazionismi del giorno, per esorcizzare la valanga di merda tossica digitale e cartacea che travolge tutto e tutti.

Visioni, suoni, rumori, silenzi… per non crepare d’aridità o di analfabetismo funzionale. Per appassionare prima noi stessi poi gli altri, alle molte molte cose che ancora non conosciamo. Perché la conoscenza è infinita mentre noi siamo finiti ma in quella congiuntura di tempo e spazio che ci è concessa possiamo illuderci attivamente, essere grati di partecipare a questa entusiasmante infinitezza.

Lowry, Laurence Stephen; Mill Scene; The Lowry Collection, Salford; http://www.artuk.org/artworks/mill-scene-162386

[Laurence Stephen Lowry (1887–1976), Mill Scene (1965)]

Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.

18 Maggio 2022
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Il Mondo parallelo di Gianfranco Manca Panevino.

Carlo Levi in Tutto il miele è finito (1964) scriveva: “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”.

Adoro guidare e perdermi di proposito, “andare e ritornare” per le strade della Sardegna. Il tragitto da Villasimius a Nurri è incantato. A un certo punto si costeggia il Lago di Mulargia che apre a panorami da Cornovaglia.

A Orroli poi c’è il nuraghe Arrubiu che è il più grande complesso nuragico della Sardegna e tra i maggiori monumenti protostorici di tutto l’occidente europeo.

A Orroli una vecchia vedova sarda da cui sono stato ospite, ricordando il marito che ci capiva di vini mi dirà: “prendeva sempre il Cagnulari sfuso buonissimo da un contadino che conosceva lui. Non ci mettevano niente se non l’uva, ma doveva essere lo sfuso perché quello etichettato non dura e non vale niente!”

Oggi con tutta la sovraesposizione dei social e le deformazioni della comunicazione mordi e fuggi di cui siamo un po’ tutti sia vittime che carnefici, il rischio di inflazionare le parole, di banalizzare i ragionamenti, di svalutare i pensieri propri e altrui, è sempre in agguato.

Quando si scrive di qualcosa o di qualcuno, specialmente in ambito di vini e vignaioli, la cosa più semplice che può succedere è quella di trasfigurare sia in positivo che in negativo, fino a mitizzare o a sminuire il soggetto o i temi di cui si scrive. L’oggettività nella scrittura è una specie di miracolo anche perché come si può pretendere di essere oggettivi in quanto soggetti che proprongono un proprio punto di vista per quanto neutro e distaccato? Poi oggi che i lettori sono sempre più distratti, sostanzialmente incapaci di concentrarsi sulla lettura, è gioco facile finire imbrigliati/imbrogliati nei tentacoli dell’analfabetismo funzionale dove chi scrive finisce per scrivere per sé e chi legge dopo un pò che capisce non c’è niente e nessuno da divinizzare o bastonare, smette di leggere e passa ad altro o meglio è il fottutissimo algoritmo della discordia a incanalarlo fra tanti, sul tema conflittuale del giorno.307A61C4-1538-4B52-9930-D4752EFDF870

Gianfranco Manca accoglie me e una coppia di assicuratori sardi. Arriviamo allo stesso momento. Deve esserci stato un disguido nella comunicazione telefonica tra loro perché quando si accorge che gli assicuratori vogliono piazzargli una consulenza lui con ironia molto fine li interrompe subito dicendo “qua adesso si parla di vino, avevo capito che eravate interessati al vino. Ormai sono vecchio e stanco. Riesco a fare una cosa per volta. Niente polizze né consulenze. Vino, solo il vino, ma soprattutto gli uomini e le donne che lo fanno.” Dopo pochi minuti di riflessioni bibliche implicite nel nome Panevino “sarò pane e sarò vino”, quando gli assicuratori capiscono che non c’è trippa per gatti se la danno a gambe levate.

Restiamo assieme io lui e sua moglie Elena, sotto il portico in ombra, affacciato su un mondo antico di sugheri frondosi, macchia mediterranea e sterminati campi da pascolo. Le Opere e i Giorni di una Sardegna quasi sospesa fuori dal tempo continentale. “A Nurri ci sono duemila cristiani e trentamila pecore.”6D64421E-2A74-4642-A20B-EF645C40ABAF

Oggi ci sono troppe interferenze e distorsioni tra chi fa il vino, chi lo vende, chi lo compra, chi ne parla e straparla. Sempre più intricato distinguere l’autenticità dall’artefatto, il personaggio genuino da chi si spara le pose e fa il personaggio. Oramai la tendenza dei nostri tempi è quella di enfatizzare ed amplificare i discorsi, i vini, i territori infiocchettati di retorica e intenzioni equivoche. Idealizzare il nulla a colpi di esagerazioni e luoghi comuni. Anche con tutte le buone intenzioni nel momento in cui inizio a scriverne il taglio narrativo sfugge di mano, può prendere la brutta piega della mitizzazzione del personaggio caratteristico o del vino unico da scoprire. Scrivere o parlare di determinate esperienze o incontri particolari fa sempre l’effetto del tradimento, come se si stesse rivelando un segreto intimo a degli estranei. Ci fa sentire sporchi, insinceri. La condivisione di un ricordo impalpabile e silenzioso in una gabbia piena di scimmie che abbaiano.

Gianfranco Manca fin da subito prende il caprone per le corna: “I vignaioli che lavorano la vigna e campano solo di vigna sono ben pochi.” I suoi riferimenti sostanziali e definitivi sono quelli di un mondo arcaico sulla soglia della civiltà contadina spazzata via dalla modernità quando lui era poco più che un ragazzino. Il “mondo parallelo” del nonno e dei suoi amici nel loggiato dove si entrava col prosciutto sotto al braccio e scorrevano litri di vino, il vino sincero di questi signori che rispecchiava fluidamente la trama interiore delle loro personalità: l’allegro il malinconico l’irruento. Era il vino frutto delle loro vigne, espressione intrinseca, profondissima del loro fare con le mani e pensare silenzioso, senza troppe chiacchiere, né sovrastrutture, né doppiezze mercantili. Un mondo magico da cui traluce la meraviglia amara di un’Italia perduta nel nulla, una civiltà del fare e della sopravvivenza che non c’è più. Certo però che questo è un taglio nostalgico-idilliaco dove dalla visione d’insieme si trascurano elementi più intollerabili quali il patriarcato maschilista, la miseria nera, l’analfabetismo, il truce, spesso sanguinoso scontro di concezioni opposte tra contadini e pastori. Tutto un complesso di contraddizioni inconciliabili che senza dubbio il progresso ha tramutato in altre forme di divergenza e nel disagio della modernità che se da una parte ha generato benessere, industrializzazione, lavoro, dall’altra ha scaturito devastazione ambientale, inquinamento, cibo di plastica, malattie del corpo e della psiche.9A0BF469-D87D-4873-965D-1C3ABE1150D6

Le vigne di Gianfranco, vigne ad alberello su pendenze piuttosto ripide, costituiscono un patrimonio vegetale di estrema bellezza in continuità con l’olivo, i mandorli, gli alberi da frutto, i fichi contorti, i boschi. Una vigna ultracentenaria promiscua presenta 40 varietà degli oltre 200 vitigni autoctoni sardi. Ogni pianta ha una sua propria identità specifica ed è a partire dalla gemma, dalle decisioni del taglio in potatura che viene suscitato il vino dell’annata in corso come frammenti psichedelici di una visione onirica. Il vino come sogno, visione recondita e astrazione di chi lo fa. Il vino collante spirituale tra gli esseri umani al di là del territorio, della storia e dei vitigni. Perché l’uomo e la donna possono anche vivere – vivono male ma vivono – senza vino, mentre il vino senza gli uomini e senza le donne non sarebbe esistito affatto.

All’imbrunire torniamo sotto al portico davanti ai sugheri e davanti a un fritto sublime di patatine e polpette di carne e finocchietto selvatico. Appare anche Hiroshi san di Hiroshima un giapponese taciturno che aiuta Gianfranco in vigna già da qualche tempo. Sorseggiamo alcuni rossi materici eppure lievi, digeribili. Rossi di profondità tridimensionale che è il riflesso della tridimensionalità dell’alberello da cui l’uva trasformata in vino trae spessore, tessuto e un balsamico effluvio d’erbe officinali e macchia mediterranea.DD15BCAD-31A6-436F-8DD7-3AC503D90906

Dopo questi rossi succosi e solari finiamo con l’Alvas, il bianco macerato, il Davide da 12.5% d’alcol contro il Golia dei rossi che raggiungevano, vedi lo Storm, anche 15.5% di gradazione alcolica. Eppure, masticandoci su un pecorino stagionato e piccantino, l’anima sottile di questo bianco ambrato riesce a sostenere i succhi gastrici e le aspettative del palato anzi ripulisce per bene la bocca, bilancia l’arsura in gola, predispone alla bevuta meditativa che sazia sia la sete che la fame.

Retallada, Vernaccia, Nuragus, Semidano, Vermentino, Malvasia, Nasco i sette vitigni vinificati nella stessa vasca in interrelazione, in lotta e integrazione reciproca tra loro perché le uve, i vitigni, le vigne sono esattamente come le comunità umane. Lo scontro delle differenze e delle specificità può generare astio, ribellione, intolleranze, blocchi ma il vignaiolo che non si limiti a schiacciare solo l’uva, il vignaiolo contadino che è animato dalla febbre di un progetto viscerale creativo, dallo scintillio di un sogno che guida la sua mano in campagna e in cantina, non c’è dubbio che farà un buon vino e un vino buono a sua volta genererà sempre intese, accordi, tolleranza, sintonia in chi lo beve e se ne nutre.

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VerticaLe Trame 2016-2004

22 Marzo 2022
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Cores do mar, festa do sol
Vida fazer todo o sonho brilhar

João Bosco

VerticaLe Trame 2016-2004

D47BFE6A-7D05-4017-A0B4-8DF0897194AAVerticale di Le Trame suddivisa in 3 batterie dalla 2016 alla 2004 saltando solo la 2011 proprio l’anno dell’uscita lucida e cosciente di Giovanna dalla DOCG, una denominazione ottusa come tante coi paraocchi nei confronti delle differenze e della complessità. Da allora Le Trame è stato “declassato” a IGT. La 2011 fu un’annata anomala per il vento caldo ad agosto perciò si decise di fare una selezione delle uve in vigna.

Alcune sere fa con un gruppo misto di amici abbiamo messo assieme una dozzina di bottiglie di Le Trame del Podere Le Boncie di Giovanna Morganti, vignaiola a Castelnuovo Berardenga che non ha certo bisogno di presentazioni per chi beve vino artigianale con cognizione di causa ormai da qualche anno.

Si tratta di dodici annate che coprono quasi per esteso i primi due decenni del 2000 tracciando un ponte temporale che profila un lavoro di estremo perfezionismo manuale da parte di Giovanna, dalla vigna alla cantina. Una vigna giardino ad alberello di Sangiovese, Colorino, Mammolo, Foglia Tonda. L’alberello costa senza dubbio più fatica lavorarlo ma ripaga nel tempo perché è più longevo e poi ha una sua dignità vegetale che di sicuro le altre forme di allevamento della vite non hanno perché troppo addomesticate dall’utilitarismo dell’uomo. E sono vini senza sconti né compromessi quelli di Giovanna soprattutto zero sconti con se stessa oltre che nei confronti di coloro che bevono il suo vino magnificamente austero, appassionato, intransigente. Territoriale e personalissimo allo stesso tempo.

I batteria: 2016 – 2015 – 2014 – 2013

Questi primi 4 vini circoscrivono la potenza e il balsamico. Tannino, terra, sale. Il balsamico traccia la linea dell’acidità, della freschezza, dell’allungo sul palato. La potenza precisa un timbro oscuro sulla lingua, definisce una materia decisamente saporita dal gusto ampio, di persistenza esemplare. Si intuisce meglio la longevità di questi vini cavernosi e solari a un tempo, soprattutto all’assaggio della III batteria cioè alla prova del tempo.

II batteria2012 – 2010 – 2009 – 2008

L’austerità si smorza. La compressione della I batteria qui si distende e scioglie. La gamma di queste quattro annate tende più verso tonalità ferrose, ematiche. Ma non siamo affatto nel territorio della terziarizzazione, anzi neppure nella III batteria lo saremo. Il gusto sapido di questi vini se da una parte sembra più etereo o sognante dall’altra risplende nel tratto palato-cuore-cervello come un tutt’uno fermentato di uva-sassi-sole a cui non si sfugge. Pure se non serve ricordarlo, parliamo di vini con solforose trascurabili, vini concepiti con minuziosa conoscenza tecnica e agronomica senza la sciatteria fastidiosa o l’improvvisazione tipiche dei troppi ultimi arrivati “del vino naturale del contadino”.

III batteria: 2007 – 2006 – 2005 – 2004

Nell’arco degli anni Le Trame, che porta inscritto già nel proprio nome un destino di svolgimento avventuroso nello spazio e nel tempo, libera un’energia nervosa, una forza minerale scalpitante che trova il suo apice nella 2004. Se la I batteria era la tesi la II batteria l’antitesi questa III batteria non potrà che essere la sintesi

Colori del mare, festa del sole.

La vita fa brillare ogni sogno…

così canta João Bosco, così cantiamo anche noi a celebrare un vino struggente e una vignaiola più unica che rara. Un modello di testardaggine romantica, di sognatrice visionaria a cui dovrebbero rifarsi i vignaioli in cerca di se stessi, ispirarsi in concreto – senza mitizzare – quale cristallino esempio d’indipendenza, di studio della materia, d’approfondimento continuo in campagna e in cantina. In ascolto perenne e osservazione tenace delle vigne e del vino, in culo alle sirene del mercato, in controtendenza rispetto alle mode fottute del momento.

Evviva Giovanna Morganti! Evviva Le Trame!

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