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Chardonnay

Pacalet e Del Prete lo Yin e lo Yang del Vino

11 Aprile 2017
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Pacalet e Del Prete lo Yin e lo Yang del Vino

Lo yin e lo yang del vino sul tavolo a cena all’Alcova del Frate (Verona) a bottega dall’oste Massimo Perna una delle sere del Vinitaly 2017 appena trascorso.
Il lato in ombra della collina (yin) e il lato soleggiato della collina (yang).

• Bianco/Nero
• Oscurità/Luce
• Nord/Sud
• Borgogna/Puglia
• Chardonnay/Primitivo

L’opposizione non significa necessariamente divisione o contrasto – Yin = Male e Yang = Bene – ma rappresenta due polarità energetiche fuse in una sola materia vivente (Tao te Ching).ba7453ad11da74c3e5dd4829a5152a64_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy

Grissini Mortadella Tappi Legni Acqua e Qualche Buon Vino

17 Luglio 2016
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11Serata di piacere ma soprattutto di decifrazione perenne del vino quale ossessivo oggetto di studio, stimolo di elevate meditazioni e campo magnetico di ragionamenti fitti senza fine; un campo minato per davvero, attraversato assieme ad alcuni cari amici d’annasata, sorseggio ed eventuale sputaggio.

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Nonostante si discuta e si parlerà esclusivamente di vino, mi sovvengono qui non a caso le parole che Gaston Bachelard da buon vecchio filosofo empirico e acuto osservatore della natura dedicava all’acqua. L’acqua origine della vita, sorgente del mondo, foce profonda dell’immaginazione creatrice. Anche perché più che polvere, acqua siamo e acqua torneremo.

È vicino all’acqua che ho meglio compreso che il fantasticare è un universo in espansione, un soffio di odori che fuoriesce dalle cose per mezzo di una persona che sogna. Gaston Bachelard

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  •  Domaine Ramonet – Chassagne-Montrachet Premier Cru “Boudriotte” 1998

[Già al tappo sentori di zucchero caramellato e melassa acetosa. Nel calice l’ossidazione temuta non si smentisce né al naso né tantomeno al palato e difatti si fa fatica a buttarne giù anche un mezzo bicchiere ed è proprio lì nel bicchiere che rimane prima di altra più consona destinazione cioè la sputacchiera che detta in francese suona forse un po’ meno irriguardoso e più elegante: crachoir.]

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[Volgarissimo centrifugato di legni nuovi tostati ai fuochi fatui del cimitero della fragranza nel vino. Uve verdi raccolte crude, questa l’impressione duratura dall’inizio alla fine. Sensazione  terminale – sì proprio “terminale” come si direbbe di un malato moribondo sul letto d’ospedale – di vernice grossa e grassa appena spennellata sugl’acini: anche qui sputacchiera o crachoir, fate voi.]

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[Cambia il terroir, cambia l’appellation, cambia la mano del produttore, cambiano le vigne ma come nel precedente Domaine Niellon stessa volgarotta paccottiglia di legno e uve stracotte ammandorlate assieme. Ultra-barriccaggio della materia vinosa fino a bruciarne l’essenza al punto da buttar via così tutto il bambino con l’acqua sporca. Uno si aspetta di bere del vino bianco rinfrescante e vivo non un decotto di burro d’arachidi arso su padella e imbottigliato; non un infame infuso di zucchero caramellato al sentore di disboscamento e tronchi d’albero sventrati di fresco. Sputacchiera anche in questo caso ahimè, come nei precedenti due.]

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{[Nella parentesi graffa che non chiuderò, è contenuta una bestemmia tacita, invisibile e lunga un paio di centinaia di pitagorici chilometri moltiplicati alla radice quadrata di due (√2), così, tanto per dare sfogo alla rancura di ritrovarsi dinanzi alle fetenzie puzzolenti d’un tappo fungino – cioè contaminato di (TCAtricloroanisolo maledetto-in-culo. E mannaggia a Dioniso, questo Silex doveva essere, almeno nell’aspettativa di pre-apertura bocce e nei ricordi di alcune bevute precedenti della ’99, forse il vino più splendido-splendente della serata..]

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[Finalmente della buona, verace, vecchia freschezza propria alle uve sane al loro giusto grado di maturazione atte ad essere spumantizzate. Fragranza liquida, croccantezza di frutto, fluidità di bolla spessa e compatta. Beva felice. Trasfigurato senso – ma ben venga – di amena ciclicità dell’esistenza vegetale, umana, animale, minerale, esistenza ciclica degli oggetti tutti. Una dissetante, limpida energia luminosa che sgorga dal calice fino alle estremità della gola dove esplode potente tipo fronte delle cascate Vittoria confluendo dallo stomaco alla mente in tutta sincerità, brio e scorrevolezza. Sboccatura dell’Aprile 2015, il ricorso alla sputacchiera, è immaginabile, in questo caso non è affatto consentito o meglio non è neppure agognato come negli altri vini snocciolati fin qua.]

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[Non ho, meglio, credo non avevamo e non abbiamo dubbi ma è questo il vino della serata. Vibra dolceamaro al palato, una pomiciata impetuosa con morsi e risucchi sulla lingua tra le tue labbra e il vino succulento: femme fatale lunatica e lunare rivestita di salsedine, di tralci, d’acini e foglie di vite. Le Bourg è parcella di un ettaro che accoglie vigne quasi centenarie di cabernet franc.. Il Cabernet Franc della Loira che dai preliminari, le carezze e i baci febbrili passa subito ai fatti strizzandoti e travolgendoti nel suo dominio disinibito di possessione e appagamento dei sensi. Su pasta al pesto rosso mediterraneo della Taverna Pane e Vino a Cortona.]

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  • Mme. François De Montille – Volnay Premier Cru “Les Champans”  1973

[Bevuto alla cieca. Il colore vivo, l’agrume rosso sanguigno, una trama tannica per nulla spenta e l’acidità spiccata facevano pensare ad un sangiovese chiantigiano d’altezza elevata, a un nebbiolo d’alta Langa con i suoi richiami mentolati e screziati di liquirizia, ma avresti difficilmente pensato ad un Pinot Nero di Borgogna con oltre quarant’anni sul groppone. Certo – è questa ormai la prova provata dall’esperienza di bevitore tignoso e smaliziato – ma le terziarizzazioni tendono ad omologare lo spettro olfattivo-gustativo d’ogni buon vino da invecchiamento già dopo qualche decennio, quadrando sempre un po’ il cerchio tra i tre supremi vitigni del caso, ovvero: Sangiovese, Pinot Nero e Nebbiolo. L’Annata ’73 in Borgogna come a Bordeaux è risultata essere particolarmente insulsa, anonima e magra eppure di tutta la batteria assieme al Clos Rougeard ’07 di cui sopra, è proprio questo Volnay il vino che più ha appagato la scia umorale di vuoto vertiginoso e amara inquietudine spalancatasi sotto i nostri piedi dai primi quattro vini sversati tristemente nel crachoir.]6

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[Anche questo alla cieca, ma per una svista sulla scaletta di presentazione è venuto subito dopo il Volnay e il Clos Rougeard per cui non è stato apprezzato nella misura appropriata come avrebbe dovuto essere se fosse stato servito ad esempio subito dopo i primi bianchi derelitti. Ritengo necessario rimarcare quanto riportato in retroetichetta* dalla Madame. È un vero e proprio manifesto d’onestà produttiva intellettuale che ha ormai fatto scuola e di cui riporto a seguire lo stralcio più significativo: “Questo vino, nel corso della sua evoluzione naturale in bottiglia, presenta o presenterà un giorno un deposito nobile e naturale nel fondo. È questo un segno della vita del vino in bottiglia. Voler evitare questo deposito attraverso filtrazioni o altro, vuol dire rimuovere dal vino la sua stessa vita ed una gran parte delle sue intrinseche qualita. *Traduz. mia.]7

  • Domaine Robert Chevillon – Nuits-Saint-Georges “Les Cailles” Premier Cru 1976

[Alla cieca anche questa. Nessun riferimento di sorta. Sfuggente, nullo e acciaccato già al naso. Il Domaine ha una storia che origina dai primi del ‘900 ed è stato per me la prima volta che l’assaggiavo. L’annata ’76 con un’estate molto calda, sembrerebbe essere di quelle eccessivamente tanniche e squilibrate. Vuoi il mantenimento della bottiglia, vuoi la tenuta del tappo ormai tutto rinsecchito – sono pure passati quasi quaranta anni mica era ieri – ma il vino non era più materia viva neppure da poter comprendere di testa, gustare con il cuore, recepire con tutti i sensi, decifrare ad istinto.]IMG_2142

  • Castello Poggio alle Mura Brunello di Montalcino 1964

[Prima che venisse fagocitato dall’ingombrante mastodonte enologico Banfi. Il vino come se non addirittura peggio che nel precedente Nuits-Saint-Georges, si presentava nel calice come cosa piatta, materia inerte, sostanza ormai morta, alga marina prosciugata sulla riva. Resta solo l’amaro di mandorle stantie in bocca e al naso persiste quel tipico sentore pungente di stracci intrisi d’acqua stagna sovrapposto all’aroma acre di cartoni impregnati dalle muffe di grotta. Nient’altro da aggiungere a parte che – discorso valido per tutti i vini più vecchiotti e ragionamento lucido riportato da Madame Leroy nella medesima etichetta di poco fa – mi piacerebbe riassaggiarlo da una bottiglia mantenuta immobile per oltre mezzo secolo nella stessa cantina a temperatura costante così da ritrovarsi a stappare magari un sughero meno striminzito e chissà, a bere forse un vino fresco e vivo e non un liquame rattrappito e polverizzato come il tappo che avrebbe dovuto preservarlo.12

A corollario di questa riflessione finale aggiungo pure che non è certo il principio di vanagloria fondamentale e intento ideale di ogni produttore di vino quello di creare una bevanda che perduri decenni o affini per secoli, ma semplicemente quello di imbottigliare dei vini che durino finché ce la fanno a seconda del caso o di variabili scostanti ed incotrollabili per cui – è la dura legge fisica della nascita e della morte – ci si può ritrovare davanti a dei vecchi vini maturati miracolosamente in bottiglia o, come molto più spesso capita, a della scura brodaglia imbevuta d’aceto.]

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Georges Laval Brut Nature Cumières 1er Cru

29 Febbraio 2016
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Vincent Laval dice che non ha dato particolarmente ascolto ai consigli del padre riguardo vigne vino e vinificazione: “è un lavoro da morirci di fame”. E difatti nonostante questi “incoraggiamenti” paterni, Vincent da Récoltant Manipulant ha continuato in solitaria a prendersi cura dei 2,5 ettari certificati a biologico fin dal 1971 da cui tira fuori le sue belle buone ma sempre troppo poche 9000 bocce o poco più. Cumières è il nome del paese vicino Épernay sul lato destro della Marne, da cui il nome della zona a Premier Cru: “Cumariot”.

2Questa etichetta in particolare è un assemblage di Chardonnay (50%) Pinot Nero (30%) Pinot Meunier (20% ) che è indicata quale Brut Nature a significare che nessuna aggiunta di zuccheri è stata fatta dopo la sboccatura. Neppure un mese fa ho bevuto un Brut Nature di Laval millésime 2011 cuvée “Les Chênes” un Blanc de Blancs (100% Chardonnay) che esce solo nelle migliori annate di grande maturazione ma mi è sembrato però che forse era, e a ragione, ancora troppo presto, leggermente acerbo il quale merita senz’altro di maturare ancora qualche annetto in vetro dopo averne fatti almeno 4 di anni in bottiglia sui lieviti dopo i 10 mesi di prassi d’affinamento in fûts de chêne cioè in tonneau.

George

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Ogni singolo dettaglio – dal trattamento biologico del vigneto al paziente lavoro in cantina – sembrano combinarsi e corrispondere amorevolmente tra loro per rendere questo prodotto artigianale un’espressione di champagne di profonda autenticità, pulizia, succosità e gusto deciso; significativa poi l’acidità a sostegno del velluto frizzante, fragranze floreali, poppute bolle, sapore leale che testimoniano altrettanto d’un sentimento di preservazione della natura accompagnato a fragili ma continui gesti di consapevolezza agricola. Amo Champagne Georges Laval e questi suoi champagne ricolmi di formosa sostanza!

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France Gonzalvez “Escapade” Vin de France Blanc 2015

8 Febbraio 2016
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Escapade 2Chardonnay del Beaujolais schietto e assai curioso, grazie ancora Paky per questa chicca sciuè-sciuè della vigneronne France Gonzalvez: un vero poker d’assi poi sul sughetto di pelati e i ravioli ricotta fresca/spinaci del buon pastificio Faini a via dei Latini proprio lì affianco a te al tuo Sorì luogo ameno di sole tramutato in vino e di sorrisi com’è già inscritto nel nome che porta.

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Haderburg Metodo Classico Brut (Südtirol)

5 Febbraio 2016
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Haderburg

Haderburg. Metodo Classico dell’Alto Adige.
Selezione di Chardonnay 85%, Pinot Nero 15% fermenta una prima volta in tini d’acciaio. Dopo l’imbottigliamento, in primavera, avviene una seconda fermentazione in bottiglia, quindi 24 mesi è più o meno quanto dura la maturazione del vino sui lieviti. Haderburg retro

Franciacorta è toponimo più risaputo assurto a brand tout court a base spumante, anche se per la gran parte – generalizzo tranciando a colpi di machete – risultano sempre troppo dosati quando non addirittura sciroppetti, attaccaticci di palato: bollicine fin troppo zuccherose, piacione per molti, assai spiacevoli per me! Qui invece abbiamo una tale freschezza paglierina già al naso, una trama di cristallo infrangibile, quasi la finezza segreta d’una vena d’oro che sembra preservata in ciascuna delle bolle infinitesimali… peccato soltanto che una sola bottiglia per due persone esaurisca la sua corsa in un fulmine, neppure il tempo di dirsi: “Be’ ciao, allora come stai?”

 

Philipponnat Clos de Goisses.. a Iosa!

19 Agosto 2013
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– MG Philipponnat Clos de Goisses 1990. Maturo al punto giusto; imponente per cremosa mineralità, tostatura graziosa con nuances di vaniglia, mela al perfetto grado di maturazione, zucchero di canna.

Philipponnat Clos de Goisses 1996. Primo sorso appena stappato: bruciante compattezza alla narici alla faringe all’esofago. A seguire tutta l’esuberante imponenza d’una bollicina finissima, concretissima e senzafine che ti riempie d’un solo, spasmodico desiderio: sostituire d’emblée con damigiane e damigiane di questo supremo, vivificante champagne tutto quel vecchio sangue nel sistema cardiovascolare nostro e di chi “si” e “ci” vuol bene.. ALLA NOSTRA!

ps.

L’estrema difficoltà di lavorazione del Clos de Goisses sul Mont de Mareuil  – dalle ostili pendenze e posizione dei vigneti deriva il termine champenois: Goisses – ha portato alla parcellizzazione di questi 5,5 ettari in 11 lieux-dits a loro volta frazionati in 20 parcelle:

Suddivisione in 11 lieux-dits del Clos des Goisses

 

 

 

Krug Clos du Mesnil 1990 – 1995

19 Gennaio 2012
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A dispetto dello scrupoloso ed inarrivabile modello Krug d’assemblage dei tre grandi vitigni, differenti millesimi e cru che competono tra loro nella versione finale dello stile monarchico di questa Maison, Clos du Mesnil è invece una cuvée monocrumonocépage vale a dire un “multidimensionale” chardonnay in purezza da una parcella di soli 1,85 ettari (gli stessi acri del vigneto Romanée-Conti monopole) circondata da un muro di cinta in pietra (rara immagine per la Champagne in cui sono riconosciuti ufficialmente solo 9 clos) innalzato nel 1698 da Claude Jannin come è raccontato anche in retro-etichetta ed appartenuto ad un monastero benedettino fino al 1750. Dunque questo blanc de blancs si differenzia come un’eccezione particolarissima alle regole d’assemblaggio della casa visto che nella vinificazione del Clos Du Mesnil confluiscono una sola vendemmia di un solo vitigno da un solo vigneto. Questa leggendaria, esigua parcelle nel cuore della Côte des Blancs incastonata quale un diamantino sull’anello di Mesnil-sur-Oger da cui vengon fuori a stento non più di 15mila bottiglie nelle annate proficue, è stata acquistata poi dalla famiglia Krug nel 1971 che con la 1979 immessa in commercio solo a partire dal 1986, realizzerà la prima di sole 12 annate a seguire fino all’ultima introdotta sul mercato: la 1998. Orientamento a sud-est, leggerissima pendenza della coltivazione conferiscono a questo clos condizioni assolutamente uniche per la maturazione e lo sviluppo ottimale dell’uva chardonnay. L’annata 1990 è unanimamente considerata eccezionale e questo a dispetto della gelata d’aprile che ha minacciato una buona metà della regione; la ’95 invece seguiva almeno due vendemmie dimenticabili quali la ’91 e la ’94. Il Clos du Mesnil ad ogni modo fa esplodere tutta la sua perfetta gessosità codificata già nel DNA del suolo, mineralità suprema ereditata dal vitigno e dallo chardonnay soprattutto se bevuto in gioventù che nel caso specifico pare abbia stipulato col Satana delle uve un patto d’eterna giovinezza.

La nostra bevuta comparativa a distanza di 20/25 anni ci imporrebbe un silenzio sacro (Le silence est d’or come intitolava il film post-bellico di Renè Clair) davanti a questo dittico, capolavoro fuso dello champagne più bianco trai bianchi che possa mai immaginarsi abbinato sobriamente a scagliette di parmigiano vacche rosse stagionato un paio d’anni meglio se originato da un casello di montagna. Sgocciolio di miele sulle labbra appena raccolto dall’arnia; sbocciare dei fiori d’albicocco; noci, mandorle, granelli d’arabica e pinoli pestati sugl’argini d’un fiume con un sasso levigato dai secoli; bacche di vaniglia sbucciate con l’unghia: ecco i lirici richiami e le azioni possibili cui rimandano gl’ingordi sorsi di questi differentissimi tra loro ma tanto uguali Krug, mentre intanto la luce solare tramonta oltre i casermoni di quartiere in cemento dis-armante, i comignoli, le paraboliche e le antenne; nel frattempo una voce, La Voce cioè proprio “The Voice” sgorga, fluttua via da una finestrella semichiusa e swinga, fluisce lontano fino a noi, tra i disumani terrazzi della periferiaccia attraverso calze, lenzuola e mutande colorate stese sulle tettoie ad asciugare alla brezza pre-estiva come note musicali di cotone sbandierate all’aria, prestando così il sensuale canto alle nostre allucinazioni meditabonde, carezzate dal fiacco sole invernale:

“You make me feel so young,

You make me feel like spring has sprung…”