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È ancora possibile usare gli strumenti digitali senza esserne abusati?

8 Aprile 2021
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“Il cellulare più merdoso del mondo è un miracolo tecnologico. La tua vita che gira intorno al cellulare, ecco, è quella far schifo.”
Louis C.K.
Di questi tempi, spesso non a torto, tendiamo a demonizzare la comunicazione digitale che per sua natura prevede lettori sempre più distratti e comunicatori (anche i più coscienziosi), adeguati a un modello altamente efficiente di massimo dell’informazione in un minimo di spazio/tempo. Viene in mente uno sketch dei Monty Python’s Flying Circus dove i partecipanti ad un quiz a premi dovevano raccontare tutta la Recherche di Proust in pochi secondi.
Quella dello stand-up comedian Louis C.K. è una satira dei luoghi comuni attorno ai nuovi mezzi di comunicazione di massa. Il comico americano evidenziava in quella battuta che il cellulare in sé è un miracolo, un vertice della sofisticata ricerca tecnologica a cui è giunto l’ingegno umano fino ad oggi; semmai quello che non va per niente bene è la vita dell’uomo attorno al cellulare, questa sì che andrebbe un po’ rivista in meglio perché è proprio quella a fare schifo e lui lo testimonia scandalosamente anche nelle disgrazie della sua vita privata in epoca d’allarmismo da #MeToo. Dunque gli strumenti digitali sono potentissimi e pericolosissimi ad un tempo, “una lama a doppio taglio”. È l’uso che ne facciamo a stabilire la differenza cercando però di non farci violentare dai mezzi che dovremmo usare a nostra volta. Dovrebbe essere obbligatorio l’uso (mai l’abuso) della comunicazione ai fini di una maggiore libertà espressiva, possibilmente con la giusta premura, con tutto l’amoroso scrupolo di “pensare alle cose per ciò che esse sono” come scriveva Virginia Woolf nel suo memorabile Una stanza tutta per sé.
“La bellezza del mondo è una lama a doppio taglio, uno di gioia, l’altro d’angoscia, e taglia in due il cuore.”
Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (1929)
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Certo siamo lontani anni luce dalla stanza tutta per sé immaginata dalla scrittrice inglese, ora ci sono semmai le chat room nei social network che all’apparenza sono affollatissime di opinioni tendenziose, nidificazioni di commenti aggressivi, polemiche del giorno gratuite, visioni distorte del mondo che si riducono quasi sempre a stereotipi o a idee grossolane di seconda o terza mano. La “bellezza del mondo” è sempre minore così come anche la gioia di vivere sta scomparendo lasciando sempre più campo libero all’angoscia esistenziale, un’angoscia di natura digitale, biometrica, una frenesia da manipolazione comportamentale, un’ansia da sorveglianza psichica. Pretendiamo tutti di esprimere i nostri “liberi pensieri in un mondo libero”. Ci illudiamo di diffondere i più o meno giusti ragionamenti in cui diciamo di credere, urlando a squarciagola le nostre vite anonime, sbraitando segreti e bugie intime nel confessionale pubblico di una bacheca online che alla fine dei conti non è altro che la proprietà privata di qualche ultra-miliardario della Silicon Valley.
Certo lo scandalo Facebook/Cambridge Analytica con tutto lo strascico d’implicazioni inquietanti che si porta dietro dall’abuso dei dati personali per influenzare le campagne elettorali alla diffusione di una politica incentrata sull’odio e la paura, è solo l’inizio di una nuova era d’autoritarismo psicografico e controllo comportamentale delle masse attraverso tecniche di neuromarketing. Diciamo pure però che la differenza con i mezzi tradizionali quali la TV non è alla fin fine tanto abissale. Se cominciamo a parlare col Papa davanti a uno schermo è perché abbiamo fatto la fine di Travis Bickle in Taxi Driver. Una piattaforma accattivante ma ingannevole come Twitter ti offre l’abbaglio che il Papa potrebbe anche risponderti, ma è soltanto una grande illusione, una presa per il culo di portata planetaria.

“Le nostre tracce digitali vanno a costituire un mercato da miliardi di dollari all’anno. Siamo diventati merci ma amiamo cosi tanto questo dono di una connettività libera che nessuno si è preoccupato di leggere i termini e le condizioni d’uso.”

da The Great Hack (2019)  documentario di  Jehane Noujaim & Karim Amer

Cambridge-Analytica-logoUsiamo i mezzi di comunicazione o ne siamo usati? Avere una coscienza critica rispetto al consumo di merci e tecnologie ci salverà dall’appiattimento planetario delle coscienze? L’aspetto più tragico di questa impasse da cui a quanto pare ne usciremo solo estinguendoci è che i consumatori avveduti possono dire e fare quello che vogliono tanto è la produzione dall’alto a piazzare di volta in volta i loro prodotti ad hoc, a imporre le proprie merci e le proprie verità plastificate, fottendosene intenzionalmente dell’ambiente, dell’etica comunitaria e del consumo critico.
Il problema pressante della comunicazione in generale attraverso i social e nello specifico della comunicazione del vino, sono le polarizzazioni ben poco costruttive tra buoni/cattivi, belli/brutti, autentici/falsi, naturali/convenzionali. L’autoreferenzialità ebete, lo straparlare, il far bella mostra di sé a qualsiasi costo pur non avendo una benamata sega da dire, sono le piaghe più eclatanti di quel complesso di segni e manifestazioni semantiche che definiscono il vino, la sua comunicazione ai tempi mordi-e-fuggi di Instagram. Comunicazione online che s’inserisce di forza all’interno di quel gigantesco calderone propagandistico del web dove imperversano la disinformazione a tappeto, un’informazione sempre più sciatta, la manipolazione delle coscienze e conoscenze, la falsificazione dei fatti, la superficialità programmata a braccetto con la sistematica assenza di contenuti… giusto per elencare solo alcuni tra i giganteschi ostacoli da superare oggi per riorganizzare un ecosistema della comunicazione ad un superiore livello di profondità del sapere e a verificata qualità dei contenuti. Verificata da chi? Qualità dei contenuti in base a quali parametri? Parametri stabiliti come e da chi? È un ginepraio senza via d’uscite dove l’apparenza predomina sempre sulla sostanza. Basta vedere le contraddizioni drammatiche sulla certificazione formale che attesti la naturalità di un vino in retro-etichetta su cui ci si scanna ormai da anni in stile Guelfi e Ghibellini, scissi tra velleità ideologiche di natura filosofico-morale e impellenze d’ordine biecamente commerciale.
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Nel frattempo che stavo riordinando le idee su questo pezzo, facendo su e giù da Roma a Itri in macchina, ad un certo punto mi sono imbattuto in un cartellone pubblicitario enorme lungo la statale all’altezza della casa-martirio di Santa Maria Goretti (sic!), tra sedie di plastica vuote dove spesso si appoggia qualche puttana in attesa del prossimo avventore. Sul cartellone a lettere cubitali c’era scritto un sibillino: SIAMO SEMPRE SUL PEZZO. Tutt’attorno la desolazione e lo squallore mortiferi della Pontina, davanti a una vigna talmente diserbata che il suolo era color giallo fosforescente. Ecco quindi che in un’immagine accecante, ho pensato, tutta la contraddizione del mondo in cui viviamo, erompeva come un’epifania. Eh già, un’epifania della prostituzione collettiva. Quell’arroganza da smorto ottimismo che porta chi vende qualcosa a manifestarlo con quell’aggressivo “siamo sempre sul pezzo“, è faccia della stessa medaglia della strafottenza di colui o coloro che avevano diserbato a morte quel povero campo. Una vigna da cui verrano fuori delle bottiglie di vino vendute ad un prezzo plausibilmente stracciato per masse di clienti anonimi. Acquirenti da supermercato che continueranno a giustificare la loro medesima strafottenza di consumatori qualunque con la solita scusa dell’indigenza e della ristrettezza economica a vita, così a scaricabarile come in una catena di Sant’Antonio della noncuranza e dell’inciviltà diffuse.
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Tuttavia ora è necessario come il pane che la diffusione orizzontale delle conoscenze sia condivisa tra la maggior parte delle persone in barba ai pregiudizi costruiti ad hoc dalla Rete. Sarà cioè sempre più vitale mantenere alta l’asticella dello spirito critico in aperto contrasto agli algoritmi faziosi che vorrebbero sostituire le nostre coscienze autonome con le loro allucinazioni numeriche, umiliando senza pietà il nostro organismo pensante. Insomma, non dobbiamo mai tenere spento il livello di guardia dell’attenzione, bisogna evitare con tutte le nostre forze di farci lobotomizzare in massa, narcotizzare le coscienze dall’industria dei Like. Dobbiamo aver fede nel nostro intelletto insostituibile da qualsiasi AI (Artificial Intelligence) finanziata da qualche squaletto venture capitalist di San Francisco. Nella maniera più assoluta non possiamo permettere, è in gioco la dignità umana, che un’Intelligenza Artificiale generata dalle macchine, a loro volta create da noi, ci rimpiazzi senza autorizzazione, nonostante abbiamo già tutti svenduto i nostri dati e la nostra anima al diavolo dei social media. Facciamo in modo che uno strumento tecnologico resti tale, senza farci prevaricare. Perché in fin dei conti è solo uno strumento inventato da noi potenzialmente per aiutarci a vivere meglio e non – si spera – per accelerare il processo della nostra definitiva autodistruzione.
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10 letture consigliate
– Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello (Raffaello Cortina Editore 2011)
– Marco D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi (Feltrinelli 2020)
– Richard H. Thaler, Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale (Einaudi 2018)
– Evgeny Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio (Codice Edizioni 2016) 
– Jon Ronson, I giustizieri della rete (Codice Edizioni 2015)
– David Weinberger, La stanza intelligente (Codice Edizioni 2012)
– Mark Fisher, Capitalist realism. Is there no alternative? (Zero Books 2009)
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