Il Prosecco tra identità e moda

26 Luglio 2019
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pIl Prosecco tra identità e moda

49811029_2334557363439150_5581400715156258816_nQualche mese fa, sul Gambero Rosso di Gennaio (N. 324), è stato pubblicato il sunto del sunto del sunto di una chiacchierata che ho affrontato con Carolain Cats e Maurizio Casa Belfi Donadi in merito all’amaro calice di prosecco tra identità e moda.

Mi sembrava interessante ritornare sull’argomento a maggior ragione ora che il paesaggio glorioso di Conegliano e Valdobbiadene è stato incensato quale Patrimonio Unesco, ipocritamente ritengo, visto che il territorio andava a quanto pare patrimonializzato dall’Unesco ben prima dell’abuso dei diserbanti industriali e del sopruso da devastazione eno-farmacologica da cui è stato malamente subissato per decenni.

Qui di seguito la versione integrale di quello stesso articolo.

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Inutile girarci troppo attorno. Parlare in generale di Prosecco è parlare innanzitutto dei grandi numeri che lo costituiscono. Grandi numeri in termini di ettari vitati, viticoltori coinvolti, ettolitri di vino prodotti, bottiglie vendute principalmente per l’export, milioni di fatturato raggranellato etc. Grandi numeri insomma che – presumendo gli impetuosi interessi commerciali in campo – non lasciano troppo spazio alla fantasia creativa, alla poesia della vigna e alle tante altre menate sul piccolobuono e bello. Tanto più che il Marketing infernale si è impossessato ormai da anni della rifritta retorica del ritorno alle radici a rischio di risultare sempre più grottesco, auto riferito. Basta farsi un giretto in qualsiasi Ipermercato per averne la prova tangibile: merendine “della nonna”, panini da farine “ancestrali”, pizzette surgelate ma impastate con il “lievito madre”, bevande al “gusto di una volta”. Perfino salviette, shampoo, dentifricio, supposte e saponi di cattivo gusto al “naturale”. 

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Grandi numeri quindi che abbagliano la via di molti anche propensi a far bene in campagna come in cantina senza necessariamente bendisporsi a una visione rampante, industriale, affaristica del vigneto che è, come dice la produttrice Carolina Gatti: “un mondo di filari ben gestiti, tutti in ordine, come soldatini…” Grandi numeri che lasciano ben poco campo d’azione alla fascia sognante dei piccoli/medi artigiani che pretenderebbero, con orgoglio contadino, di imbottigliare fatica, terra, uva, speranza, passione e non una qualsiasi bevanda alcolica con aggiunta di gas, facile da piazzare perché “le bollicine si vendon bene” a fiumi, ad uso e consumo dei tanti mercati indifferenziati, dei troppi consumatori indifferenti del mondo cosiddetto civilizzato. Diciamolo senza infingimenti, qualora provassimo a snocciolare pian piano dentro di noi con un minimo di cognizione e lucidità le precedenti parole cioè contadinofaticaterrauvasperanzapassione, ci risulterebbero tutte forse un po’ trite fino a smascherarle e a riconoscerle in definitiva come fossero una catena di Sant’Antonio dei termini stra-abusati proprio da quello stesso Marketing infernale, grottesco, volgare e autoreferenziale che si diceva poc’anzi, il quale è sempre vincente rispetto ad una presunta autenticità di nicchia sul mercato, che vorrebbe sottrarsi al gioco al massacro del chi la spara più grossa.IMG_2733Dunque non c’è speranza alcuna in un mondo sempre più dominato dai pubblicitari? Dobbiamo dare ragione a Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno quando sosteneva amareggiato in Minima Moralia che “non si dà vita vera nella falsa”, e rassegnarci a non saper riconoscere l’autentico dall’artificiale in ogni ambito, sia pubblico che privato, delle nostre vite? 

Perché suona molto male, ma Prosecco al plurale forse suggerirebbe maggiormente la varietà di approcci stilistici, le tendenze e contro-tendenze, le umanità molteplici, le denominazioni, le fermentazioni, le spumantizzazioni in autoclave o in bottiglia, le insidie burocratiche molto più malsane della stessa peronospora, le resistenze enologiche alla grigia, alla monolitica legge dei grandi numeri cui si accennava.

Torniamo quindi a Carolina Gatti che assieme al compianto, bravissimo Ernesto Cattel (Costadilà), a Loris Follador (Casa Coste Piane), a Maurizio Donadi (Casa Belfi), a Christian Zanatta (Ca’ Dei Zago) che con alcuni altri combattivi vignaioli provano a fare cartello davanti all’omologazione onnicomprensiva di un territorio purtroppo allineato al Dio Denaro e coperto al solo comandamento degli schei. IMG_2732Carolina è vignaiola “anarchica, anzi di più” a Ponte di Piave in provincia di Treviso (Conegliano-Valdobbiadene), il cui vino frizzante di riferimento si chiama provocatoriamente Bolle Bandite. Le ho chiesto di illustrarmi dal suo diretto punto di vista, il Colfondo tra identità e mode. Lucida lei. Tagliente. Spettinata più delle sue amate viti a raggiera coltivate con l’ottocentesco sistema d’impianto a bellussera che è un vero e proprio patrimonio artigianale della civiltà rurale veneta, a forma di alveare vegetale.

Carolina Gatti:

Mi reputo fortunata del fatto di aver intrapreso il mio percorso personale di vignaiola già da diverso tempo, senza seguire la moda che c’è ora di piantare e rifermentare come se non ci fosse un domani.
Credo sia molto importante avere chiara l’identità del territorio, la cultura che vi appartiene per poter davvero dire di avere una identità.
Il colfondo qui a casa non è mai stato una moda, era parte di quelle che erano le “importanze” della famiglia: nascita di un figlio, matrimoni, a volte compleanni. MAR_wine_-_prosecco_545x

Il Prosecco colfondo e il Raboso Piave erano i “regali” che bagnavano tutte queste feste, negli altri giorni si beveva quello che c’era di meno pregiato perchè la nostra zona è sempre stata povera fino agli anni ’70.
Negli anni ’30/60 il colfondo era un uvaggio tra Prosecco clone Balbi Verdiso, Perera e Sampagna, ora varietà quasi perse. Veniva imbottigliato con un residuo zuccherino che lo faceva rifermentare in bottiglia.
Poi sono nate le cantine sociali e si sono piantate le varietà più redditizie, più internazionali, più richieste dal mercato.
La zona ha iniziato a stare meglio economicamente, sempre più. Sono sparite però le aziende agricole come la mia, con più varietà piantate. Sono sparite le stalle da 60-100 vacche in lattazione. Sono spariti i maiali nelle famiglie con cui fare salami e sopresse.prosecco_vintage_style_lady_sign-r943bea8a1ea84479ae439a67180a21b9_zwzcq_8byvr_307

Sono apparsi i terzisti, le cooperative che fanno potatura secca, potatura verde e vendemmia. Le vendemmiatrici e i carri da 150 quintali a giro, trainati da trattori giganteschi che costano quasi come una casa.
Io osservo e penso a come tutto è cambiato in soli 42 anni, la mia età.
Mi spiace vedere come adesso si dia importanza solo al fare soldi piantando esclusivamente ettari di Glera, senza rispettare la biodiversità, senza lasciare siepi o fossi, deturpando il paesaggio che è anch’esso una parte culturale molto importante.
Stanno scomparendo le mie amate bellussere. Stanno scomparendo insetti utili, uccelli… nessuno ha più un posto dove farsi una casa su un albero perchè non ci sono più alberi.
Mi spiace vedere come l’atto viticolo-agricolo sia solo una ripetizione di passaggi quasi meccanici – un cane che si morde la coda – volto al solo fine di piantare per fare soldi o spiantare e ripiantare la varietà che tira di più in quel momento.
Sono però felice che ci sia anche una parte ribelle che invece tiene a mente e a cuore i valori che ho io e che sono il vero sfondo culturale dell’essenza contadina.

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Dopo Carolina Gatti, continuando a scambiare qualche chiacchiera con Maurizio Donadi di Casa Belfi, vien fuori che:

Il disciplinare del prosecco Doc è l’unico che permette due tecniche di produzione delle bollicine tra loro completamente agli antipodi.

1. Rifermentazione in bottiglia (metodo tradizionale) e 2. Charmat. Si capisce che anche in degustazione saranno prodotti completamente all’opposto.

1. Senza zucchero residuo, praticamente senza o con pochi solfiti, malolattica fatta, “feccioso”, dura più di un anno. Se poi aggiungiamo che il nostro è da agricoltura biodinamica e non filtrato non chiarificato, sarà ancora molto più fuori dallo standard ecco che difatti il nostro l’anno scorso è stato bocciato ed escluso dalla DOC.s-l300

Il nostro Prosecco ora non più Prosecco concludeva il progetto Casa Belfi di naturalità con una Doc che ammette la rifermentazione in bottiglia; quindi tutto il ciclo naturale tradizionale e artigianale.

La bolla tradizionale ormai superata dall’autoclave trova solo una piccola parte di pubblico, allenato a gusti non omologati e a sapori antichi, metodo di produzione essenzialmente diverso anzi completamente all’opposto come dicevo. Senza solfiti, non filtrato, “sporco” coi propri lieviti, la malolattica svolta. Senza zuccheri e dura più di un anno anzi è proprio più buono dopo un anno!
In buona sostanza, l’esatto contrario dello Charmat. NaturalmenteFrizzante è la tradizione del Trevigiano, è la bolla fatta in casa. Ha un sapore familiare e custodisce intatto tutto l’amore del contadino. Per me solo così è vero Prosecco! Solo così è vino! Solo così è un alimento! Solo così ci darà quelle emozioni che esprimono la tradizione e raccontano Maurizio Donadi! Un’uva che si raccoglie a metà settembre ed è subito messo in bottiglia e a scaffale nei supermercati già a novembre, che vino potrà mai essere? Come può maturare? Come può essere longevo e tutelare la sua identità?

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