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Genealogie d’Oggi

The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

13 Marzo 2023
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The Whale e il cinema ricattatorio di Aronofsky

Qualche settimana fa, in un cinema di Roma Nord sono riuscito a beccare l’ultimo film di Darren Aronofsky proiettato in lingua. La finestra temporale della proiezione era al solito un paio di giorni – succede sempre così con i film considerati meno mainstream, – dopodiché ti fai in culo e devi scaricarlo eventualmente online per riuscire a vederlo a casa, non devastato dal doppiaggio. Doppiaggio la cui gloriosa tradizione nel cinema di casa nostra sta perdendo sempre più fascino e professionalità di pari passo con la decadenza decennale del nostro teatro e lo slabbramento tanto del carattere che della profondità delle “voci”, di attorini oramai prostituiti a becere serie televisive, marchette pubblicitarie o ad altro genere di imbarazzanti reclame perbeniste mascherate da film impegnati.

Il soggetto di The Whale è un grande (e grosso) soggetto. Brendan Fraser giganteggia in tutti i sensi nella parte del protagonista Charlie, La Balena. Fraser, sulla scia di un attore mitologico come Lon Chaney (L’Alonzo The Unknown di Tod Browning su tutti) ha trascorso quattro ore al giorno indossando protesi che pesavano fino a 136 kg. Ha consultato la Obesity Action Coalition e ha lavorato con un istruttore di danza per mesi prima dell’inizio delle riprese in modo da determinare in dettaglio come si sarebbe mosso il suo personaggio con il peso in eccesso. Visti i tempi di sterile iper-criticismo del politicamente corretto, sono state mosse anche alcune critiche per l’uso della tuta protesica invece di scegliere un attore obeso, con l’accusa di “stigmatizzare e deridere le persone grasse”.

Charlie è un gay mostruosamente sovrappeso (grande lavoro i truccatori con le protesi), insegna scrittura creativa online dal divano di casa dove è arenato nell’oceano delle miserie quotidiane, con tutta la sua stazza inverosimile. I presupposti sono perfetti per simboleggiare lo spirito dei tempi in America dunque nel mondo tout court. La miseria della vita insignificante dalla culla alla tomba nel grigiore dei centri suburbani; il senso dilagante di fallimento sottopelle a una società come quella statunitense devastata dall’apparire sani e felici a tutti i costi, inondata dal cibo ultralavorato, ossessionata dal successo e dal denaro facile, sono le giuste premesse che però il regista non riesce a tenere salde, ben focalizzate fino in fondo.La sceneggiatura che appare fin troppo meccanica e ad orologeria, tradisce la sua natura di stampo teatrale. Alla fin fine The Whale non è Who’s Afraid of Virginia Woolf?, e tantomeno Samuel D. Hunter ha il talento, il livore drammaturgico, l’universalità di Edward Albee. Si perde nella costruzione dei personaggi che risultano vuoti di contenuto psichico o densità emotiva, con strizzatine d’occhio fastidiose a rassicurare il pubblico generico, suggerendo in un a parte maligno: “Vero, sembra una materia angosciosa da film indipendente nerd per i soliti, pochi pippaioli cinefili sfigati depressi, ma noi vinceremo gli Oscar per la regia raffinata a confronto con le stra-merdate hollywoodiane, per la sceneggiatura Apocalyptic Chic, per l’attore protagonista gne gne gne…”

Quasi tutti gli altri attori coinvolti nel film non reggono nella maniera più assoluta la bravura e la presenza effettivamente ingombrante di Brendan Fraser. Ellie, la figlia adolescente di Charlie si sforza di essere perfida ma è di un forzato fin troppo svelato, irritante. È di un cattivo puberale privo di dimensione interiore, prevedibilissimo, studiato a tavolino. Mary la madre di Ellie, ex moglie di Charlie lasciata da lui quando la bimba era piccola dopo essersi innamorato di un suo studente, si capisce fin troppo che è del tutto fuori parte. Appare quasi a metà film, farfuglia le sue battute, dovrebbe far credere di essere alcolizzata semplicemente perché lo sceneggiatore le fa chiedere dove sta una bottiglia di qualcosa d’alcolico. E poi esce definitivamente dalla porta e dal film. Pure in questo caso, come quello della figlia anche il carattere del personaggio della madre è di un piattume a dir poco goffo, sgradevole di una goffaggine e una sgradevolezza aliene alla logica interna della storia ma congenite alla infondata scrittura del film. Mary ed Ellie sono figurine monocordi appiccicate al film, personaggi riduttivi con trascorsi solo nominati dallo sceneggiatore ma di fatto senza un vero passato inciso sulla pelle, senza una vita propria che traspaia minimamente nell’interpretazione delle attrici sullo schermo perché manca del tutto all’origine nel disegno della sceneggiatura. So che suona arrogante ma questo difetto di scrittura si ritrova da anni ormai abbastanza ferocemente nel 90% delle robe che escono in sala e molto spesso sono film osannatissimi dalla critica, bah!

Anche l’utilizzo del tema portante, il commento ad una “noiosa” pagina del Moby Dick di Melville, sembra davvero troppa poca cosa, un esercizio inefficace e mal svolto di sceneggiatura cerebrale creativa, per imbastire una qualche vaga morale di fondo, per sciroppare alla gran parte degli spettatori illetterati, la sottotraccia filosofico-letteraria, la “sad story“, di un film da camera della durata di due ore.

Lo scambio di relazioni fisiche e psicologiche meno piatto (leggi: meno mal sceneggiato) avviene tra Charlie e la sua fraterna amica/badante Liz (una bravissima Hong Chau, la sola a reggere il confronto con Fraser), e con Thomas una specie di missionario cristiano della New Life Church. Ma anche qui, molti dei temi forti che avrebbero potuto essere trattati con maggior profondità e cattiveria da Aronofsky/Hunter: l’omofobia, l’anonimato, la solitudine, la letteratura, la denigrazione dell’obesità, il puritanesimo misticheggiante delle religioni americane e dello spiritualismo d’accatto diffusissimi in Nord America, sono trivializzati, resi innocui, smussati, rassicuranti, ad uso di un pubblico quanto più vasto cioè indifferente ma soprattutto a beneficio dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences (AMPAS), l’istituzione che scodella gli Oscar.

Insomma a me è sembrata una grandissima occasione persa quella di Aronofsky che lontano dal realizzare un film autentico, potente, arrabbiato, onesto per una parte di pubblico di fruitori attenti seppur indistinti nelle masse, conclude un film incompiuto, scaltro, qualunquistico e ricattatorio per un pubblico di masse amorfe scialacquate nell’indistinto.

Van Gogh a Palazzo Bonaparte. Arte e cultura come buffonata.

8 Febbraio 2023
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Uomo con la testa tra le mani

“La civiltà vuole che si auguri il buon giorno a uno che volentieri si manderebbe al diavolo; ed essere bene educati vuol dire appunto esser commedianti.”

Luigi Pirandello

Van Gogh a Palazzo Bonaparte. Arte e cultura come buffonata.

La mostra su Van Gogh (1853-1890) a Palazzo Bonaparte è indicativa del pessimo stato dell’arte e della cultura nel nostro paese. Arte e cultura svilite a management, vilipese a global business (sic), diventano maschere funeree da Commedia dell’Arte.
Arte e cultura in questa agghiacciante prospettiva di profitto rapace da industrietta culturale, spregevole lascito del berlusconismo/renzismo/salvinismo da farsa, sono diventati solo un pretesto per sbigliettare quanta più massa di gente, masticata e sputata via come i “clienti” delle sale gioco. Non è un caso che l’allestimento della mostra nel polo museale del Nuovo Spazio Generali Valore Cultura, sia tristemente identificato quale “asset”. Insomma l’Arte – come Pinocchio col Gatto e la Volpe – nelle grinfie di una compagnia di assicurazioni dove il Country Manager & CEO of Generali Italia and Global Business Lines, dichiara pirandellianamente, senza neppure sapere chi diavolo fosse Pirandello, tanto mica Pirandello serve a fare azienda?:

Fare azienda in modo moderno vuol dire affiancare l’impegno verso i nostri 10 milioni di clienti con un impegno concreto verso le comunità. Questo per noi è essere Partner di Vita delle persone e in questa nostra ambizione si colloca l’apertura e la valorizzazione dei nostri asset come Palazzo Bonaparte: un bene che, grazie anche alla collaborazione di un operatore importante come Arthemisia, diventa un polo di sviluppo per la comunità.”

Autoritratto

Le opere esposte alla mostra di Roma provengono tutte dalla collezione del KröllerMüller Museum dell’Hoge Veluwe National Park di Otterlo (Olanda). Come nella mostra di qualche anno fa alla Basilica Palladiana di Vicenza, c’erano dei disegni di Van Gogh straordinari, ma anche lì l’allestitore era una specie di venditore di pentole con il tipico spirito filisteo del mercante in fiera veneto; un approccio schifosamente melenso all’arte e alla cultura, un buonismo viscido a metà tra zio Paperone e Nonna Papera.

La narrazione della “geniale follia” del pittore è sdoganata in un raccontino rassicurante e penosamente perbenista adatto a tutti: vecchi, giovani, donne, bambini.
Il ruolo dei musei dovrebbe essere quello di educare all’insolito, scuotere la coscienza, inquietare, stimolare allo studio, entusiasmare agli approfondimenti, aprire la mente alla ricerca e invece sono sempre più degli “asset” appunto, dei parchi divertimento a ore dove si svendono “il genio e la sregolatezza” un tanto al chilo.

Seminatore al tramonto, 1888

Ho sempre più l’impressione che questo genere di mostre incentrate sul “maledettismo” dell’artista siano concepite in un’ottica di gioco infantile, protese ad un pedagogismo da quattro soldi e d’intrattenimento naïf, ad uso della maggioranza degli adulti trattati come bambini sviluppati poco e male.

Interno di un ristorante, 1887

The Square e la bêtise humaine

5 Febbraio 2023
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The Square e la bêtise humaine

The Square (2017) del regista svedese Ruben Östlund, di base non mi è sembrato un film troppo disonesto che di questi tempi è già tanto. A volergli trovargli un riferimento ad altro cinema contemporaneo direi che per un certo senso di tensione strisciante e angoscia innominabile richiama Michael Haneke. Certo sono passati quasi 20 anni da Cachè (Niente da nascondere – 2005), e poi insomma l’esibizionismo velleitario di Östlund, quel suo divagare sciatto alla Von Trier sono spazzati via dalla profondità di sguardo, dalla ferrea etica anti-commerciale di Haneke.

Riguardo ad esempio il tema inesauribile ricchi-poveri, laddove Haneke affronta le scene con lucida freddezza e rigore morale a dir poco disturbanti, ossessivo sul significato ultimo del guardare e dell’essere guardati, The Square mi pare assai superficiale, ostentato, tutto fin troppo mostrato in platea, didascalico. Le banalità espresse sull’arte concettuale sono tipiche di chi ne discute da bar in maniera naïf e pretestuosa, senza esserne veramente coinvolti dal di dentro. E poi l’insistenza programmatica su quel: “Il quadrato è un santuario al cui interno abbiamo tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri” mi sa tanto di moralismo opportunista che vorrebbe sensibilizzare gli spettatori sul fatto che lo stesso schermo del cinema è un quadrato, perdio che trovata di genio!

È palesemente un film a tesi con un buon soggetto ma con una sceneggiatura sfibrata dai simbolismi sciatti che pretendono essere intellettuali/surrealisti à la Buñuel (la scimmia in casa della giornalista americana? bah!). Per tacere dei dialoghi imbarazzanti, agli eventi in sé privi di coerenza interna: lui che viene derubato di portafoglio e cellulare in mezzo a tutta quella folla di gente, con la presunta pazza inseguita che urla a quel modo senza che la polizia si allarmi? Ancora, ma se tramite la localizzazione satelittare sanno dove si trovano quelli che hanno rubato il cellulare secondo quale logica il protagonista del film si avventura nella palazzina alla periferia della città a imbucare lettere di minaccia a tutti i condomini piuttosto che affidare l’investigazione alla polizia? Insomma senza stare qui a fare le pulci ad una sceneggiatura inconsistente, tutto il pacchetto mi pare un po’ raffazzonato con evidente sciatteria solo per dare valore alla “tesi” di fondo che l’uomo è malvagio e l’arte non riflette la vita? Mi pare troppo poco e tanto pretestuoso da farne un film di 2 ore e mezza. E a proposito di simboli sciatti, i poveri e i ricchi sono abbozzati come i disegni dei bambini, idealizzati quali manichini senz’anima né vita propria. Poveri di maniera perché utili a dimostrare la tesi a tavolino del regista e dei produttori, una tesi tutto sommato da ricchi imbolsiti, rassicurante, goffa e a lieto fine.

La scena della cena di gala con la bestia umana – un grande Terry Notary – lasciata libera tra i tavoli è degna di nota per un senso di inesplicabile, di potente angoscia e strazio emotivo ma poi a pensarci bene è del tutto appiccicata a caso al film, ancora una volta solo per “dimostrare” la sua scialba tesi di fondo.

I film a tesi hanno questa debolezza alla base che se non hai idee cinematografiche forti non basta un’idea, pure buona, a farne un buon film. Certo è un film che riflette in qualche maniera lo spirito dei tempi: la cattiveria, l’uso iperbolico della violenza per suscitare seguito sui social-media, l’ipocrisia dei ricchi e potenti. Significativo lui il protagonista che prova il discorso scritto in bagno anche quando fa a meno del foglio perché troppo formale, dunque anche la spontaneità è costruita a effetto, recitata ad hoc.

Il film ha vinto a Cannes nella gala del cinema con gli stessi commensali in sala che ridacchiavano, si “spaventavano”, applaudivano e celebravano quella bestialità esotica scappata dalla gabbia del circo, fino poi a scatenare la propria ferocia tanto da ammazzare l’animale umano. Ma in fondo non è la solita bêtise humaine che ha fatto premiare il film? La stupidità ambiziosa del giudicare e far vincere i premi. La velleità della carriera soprattutto quella rientra nella tesi finale di questo pretenzioso “film sull’arte” che fin dall’inizio è stato scritto e girato appunto per vincere la Palma di Cannes più che per tentare di fare un “film d’arte”.

The Square alla fine della fiera solletica dove pretende di dare cazzotti. Carezza più che graffiare. Sbaciucchia invece di mordere.

Ho iniziato la recensione dicendo che non è un film del tutto disonesto, però ha suscitato in me più rabbia che soddisfazione come in genere mi capita davanti a creazioni dell’intelletto di poca o malsicura onestà intellettuale. Rabbia per un’occasione persa soprattutto per il regista, anche se immagino che per il regista-sceneggiatore è proprio l’occasione della vita visto che gli ha fruttato il trionfo mondiale della Palme dor à Cannes. Ma a questo punto potremmo tranquillamente ritorcere contro il regista la scritta a neon di una delle installazioni artistiche mostrate nel film: YOU HAVE NOTHING (NON HAI NIENTE).

Fotografie del vecchio mondo nuovo

3 Novembre 2020
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Fotografie del vecchio mondo nuovo

Credo non sia mai uscita una versione di questo film nel nostro paese, ad ogni modo fino a ieri sera non avevo né sentito parlare né mai visto Pictures of the Old World (Obrazy starého sveta) di  Dušan Hanák, documentario slovacco del 1972 girato tra i sobborghi e i villaggi dei monti Tatra nelle regioni di Liptov e Orava. Questo vecchio film di Hanák in tutto il suo doloroso immaginario sull’umanità trascurata, brulicante ai bordi della civilizzazione e del progresso tecnologico, sarà apprezzato da molti, non solo da cinefili barbosi e autoreferenziali, come una singolare scoperta del cinema documentaristico dell’Europa orientale.

A distanza di quasi 50 anni dalla sua realizzazione è bello venir stimolati ancora da qualcosa di vecchio che tuttavia riesca a suscitare al presente un gioioso sentimento di novità. Un libro mai letto, un film mai visto, una musica mai ascoltata del passato in fondo sono come scintille di futuro che alimentano il fuoco necessario della curiosità sulle vite altrui, alla presenza attuale del nostro leggere vedere ascoltare il mondo. La potenza spontanea, l’espressività poetica/patetica, la crudezza naïf di questo film germogliano nell’aspro bianco e nero intonato alle fotografie dell’artista slovacco Martin Martinek; all’uso sperimentale del sonoro in chiave disturbante; alla decina di ritratti morbosi d’uomini e donne abbandonati a se stessi o ai propri animali, in un paesaggio di fango, sprofondati nel caos desolante delle proprie credenze, fissazioni e pietose solitudini. image-w1280

tumblr_p21b3rel0v1srl30mo1_400Queste “fotografie del vecchio mondo” da cui traspare in controluce anche il nostro “mondo nuovo” al suo tramonto, ritraggono con compassionevole spietatezza e sottile ironia venata di una certa bizzarria da Est Europa, un’umanità derelitta al culmine della propria vecchiaia. Una decrepitezza sdentata, folle, amara, poco rassicurante ma allo stesso tempo anche dolce, rassegnata, serena. La vecchiaia implacabile del mondo occidentale.

Il ricco, il povero, lo stupido, il saggio, finiamo tutti sottoterra! Cos’altro possiamo fare a questo mondo?

Questa è la risposta interrogativa di un vecchietto alla domanda imponderabile posta nel film su “Cosa c’è di più prezioso nella vita?” Un film che sono certo ha ispirato le visioni grandiose seppur senza speranza del regista magiaro Béla Tarr, tra i rarissimi geni viventi del cinema mondiale, autore di capolavori indimenticabili quali Sátántangó e Werckmeister Hármoniák.472394_article_photo_umxbvk8_900x

Jeanne Dielman, la condizione della donna e il cinema del tempo radicale

27 Ottobre 2020
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Sono io, sono io caricato di immagini
Che mi dan le vertigini, sono io
Sento la mia vita che sta diventando un film
Sì, ma l’ho già visto e non mi piace questo film

Paolo Conte, Sandwich Man

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Jeanne Dielman, la condizione della donna e il cinema del tempo radicale
Jeanne Dielman, 23, Quai Du Commerce, 1080 Bruxelles è un capolavoro di cinema radicale girato nel 1975 da Chantal Akerman regista belga, che ancora oggi dopo 45 anni appare fresco, moderno e originale a differenza delle tante puttanate Netflix che nascono già morte e datate.

La Akerman nel 1975 aveva 25 anni. Il film è girato in 35mm con Delphine Seyrig in stato di grazia ad interpretare Jeanne Dielman, che la stessa Akerman in questa breve intervista paragona ad una tragedia greca.

Al centro di Jeanne Dielman per quasi 3 ore e mezza, c’è il corpo di una donna smembrato tra la cucina, la camera da letto, il bagno e qualche scena d’esterno. Un corpo intrappolato in una raggelante cornice di silenzi grevi, azioni monotone innescate dalle mani iperattive: lucidare le scarpe, lavare i piatti, preparare il cibo e il caffè, lavorare la lana ai ferri, pelare le patate, pulire le mattonelle, spolverare i mobili, prendere i soldi dai clienti, usare le forbici… 98c315967540873a900bf49a224ea527
Il film documenta tre giorni di una giovane vedova che cucina per sé e suo figlio, mostrando la sua minuziosa quotidianità casalinga fatta di gesti ripetitivi, pause espanse e dettagli meccanici tra cui il fatto che si prostituisce in casa.
Protagonista assoluto del film è il tempo, un tempo reale al cui ritmo implacabile avvengono le azioni minimali eppure azioni enormi che descrivono tutto l’universo domestico di Jeanne oltre ad esplicitare il suo angoscioso blocco interiore che diventa anche il nostro in un transfert d’empatia dolorosa nonostante siamo solo spettatori lontani dallo spazio e dal tempo in cui il film è stato girato da una troupe “femminista” quasi al completo composta da donne politicizzate. Un tempo ipnotico, monotono e claustrofobico quello del film bellissimo della Akerman, incastrato da un lavoro di montaggio straordinario che presenta senza fronzoli scenografici e senza trucchi di sceneggiatura, l’aspra condizione della donna nella società contemporanea, ieri come oggi. Un’opera di sublime poesia cinematografica racchiusa in sé che la sgroviglia dai lacci ideologici dell’epoca in cui è stata concepita e libera da qualsiasi interpretazione limitante che risulterebbe sempre troppo ottusa o datata in chiave politico-psicoanalitico-sociologica, come avviene troppo spesso per romanzi dischi film lavori d’arte opere teatrali invecchiati male perché talmente presi a descrivere l’ombelico dei propri tempi infimi da dimenticare di fissare il cielo stellato della poesia universale cui ogni scrittore artista musicista regista non dovrebbe mai dimenticare di tendere.

Da vedere e rivedere assieme a La Maman et la Putain (1973) di Jean Eustache altro regista tormentato, genio iperrealista morto suicida ancora troppo giovane.

The Elephant Man (1980)

16 Ottobre 2020
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Nothing was born;
Nothing will die;
All things will change.

Alfred Lord Tennyson (1809 – 1892)

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The Elephant Man (1980)

A distanza di quarant’anni possiamo tornare in sala a rivedere, meglio, a farci vedere da The Elephant Man (1980) nella versione restaurata da StudioCanal a partire dal negativo originale con la supervisione di David Lynch. Il regista del Montana era qui al suo secondo lungometraggio dopo Eraserhead (1977), e imbastisce una storia patetica di ispirazione dickensiana ambientata in una Londra cupa, industriale, intrisa di miseria e redenzione vittoriane, fotografata dal bianco e nero magnifico del grande Freddie Francis. Il film, prodotto da Mel Brooks e Jonathan Sanger, è un adattamento dal libro di memorie del dottor sir Frederick Treves, The Elephant Man and Other Reminiscences e dallo studio dell’antropologo Ashley Montagu, The Elephant Man: A Study in Human Dignity. Qui la sceneggiatura originale di The Elephant Man a cura di Christopher De Vore, Eric Bergren e dello stesso David Lynch.

La cosa che più colpisce del film è il lavoro sul suono in senso visionario a cui ha contribuito ancora una volta lo stesso Lynch che mette in risalto il rombo inarrestabile e ossessivo della metropoli ottocentesca a far da contrappeso alla difficoltà respiratoria dell’Uomo Elefante pervaso com’è di neurofibromatosi sul cranio e lungo tutto il corpo che non gli permettono di dormire steso, in modo da respirare normalmente. Difatti è una Londra purulenta, cancerosa, pulsante, perennemente in cantiere. È un meccanismo infernale di città rapace, un polmone asfittico di ferro, fumo e piombo. Pubs straripanti d’alcolizzati, orfani, puttane. Tubi d’acciaio, ciminiere, smog e polvere tra strade in costruzione, caldaie a carbone sotterranee, vicoli malfamati dove scorre acqua fuori campo, presumibilmente una perdita di fogna (la scena verso la fine quando Treves ritorna nell’East End a cercare Bytes che si è riappropriato di Merrick e trova il luogo abbandonato, poiché loro sono scappati in Belgio in cerca di altri spettatori e poca fortuna). La bellissima colonna sonora composta e condotta da John Morris rimanda a sonorità equestri malinconiche da circo Barnum, richiama sgangherate fiere di paese sperse nelle piazze fangose d’un lontano passato tra prepotenze da incubo, disumanità gratuita, soprusi immani e squallore senza fine.

Lynch, pervaso d’ironia nerissima, per tutta la durata del film sembra quasi divertirsi sadicamente a manifestare linee di fuga insistenti su registri espressivi che vanno dal sentimentalismo più smielato, al grottesco, al patetico di matrice vittoriana facendo come il gatto col topo, nel suo caso giocando a torturare le emozioni più atroci covate nello stomaco dello spettatore calcando la mano sull’angoscia soffocante, sui nodi in gola, sulla crudeltà spietata, sulle lacrime amare, sulla disperazione senza rimedio ammiccando con l’occhio sinistro al Tod Browning di Freaks (1932) e con l’occhio destro al Werner Herzog di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970).

A proposito del rivedere o del farci vedere da un film tanto viscerale, The Elephant Man è tutto un saggio visivo/sonoro sull’osservazione degli altri, la mostruosa normalità del loro sguardo nei confronti di Merrick lo sventurato freak che a sua volta è spaventato da se stesso allo specchio e dalla paura che potrebbe causare negli altri. E gli altri siamo anche noi, noi spettatori tragicomici, mostri sociali, voyeurs d’accatto, capricci di natura che trascorsi quarant’anni torniamo al buio in sala dopo che non siamo più bambini. Ritorniamo a farci osservare l’anima smarrita tra furiosi impulsi magici e scienza: magia e scienza del grande cinema. Riproviamo cioè da adulti col cuore ormai prosciugato, a farci scrutare dall’occhio pietoso ed elefantino di Joseph Merrick, mai del tutto riconciliati al suo urlo straziante quando rischia di essere linciato da una folla irrazionale e inferocita nelle latrine della stazione di Liverpool Street: Non sono un elefante! Non sono un animale! Sono un essere umano! Sono… un… uomo! 

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La terra del miele

15 Ottobre 2020
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Se si rimane abbastanza a lungo in un posto, ogni realtà diventa una grande finzione.

Tamara Kotevska & Ljubomir Stefanov

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La terra del miele

Gli esseri umani, il paesaggio balcanico, le api. Non capita troppo spesso di uscire dal cinema commossi da tanta realtà incarnata nel volto verissimo di Hatidže Muratova.

Honeyland è un film macedone potente che in poco meno di un’ora e mezza sintetizza quattrocento ore di girato e tre anni di riprese da parte dei registi Tamara Kotevska & Ljubomir Stefanov, avventurati con una troupe ridotta all’osso – 4 operatori in tutto contando i registi – nei paraggi di Lozovo nella regione circondata dal fiume Bregalnica nella Macedonia centro-settentrionale.

Un’apicoltrice che cura sua mamma ottantacinquenne Nazife, donna malata a letto nella loro casupola di pietra desolata senza acqua né elettricità a Bekirlija, un villaggio abbandonato dalla fine della II Guerra Mondiale, sui monti attorno a Skopje; una prolifica famiglia di nomadi allevatori turchi che compromette l’equilibrio naturale delle due donne e delle api; non serve tanto altro per realizzare un capolavoro così sincero e poetico che documenti al dettaglio l’inettitudine tutta umana di convivere in armonia con i ritmi vitali, i frutti e la preservazione della natura.

Hatidže quando smiela durante l’estrazione dei favi dall’apiario, una parte del miele la prende per sé e l’altra la lascia alle api per evitare che volino via ad attaccare e colonizzare un altro alveare innescando così una maggiore ondata di squilibrio e di caos nella propria parte di universo.

Honeyland è un film struggente di rara bellezza visiva. Immagini e sequenze narrative dal possente valore espressivo che, più della lingua macedone o di quella turca parlata dai soggetti filmati, raccontano silenziosamente allo sguardo una storia semplice e antica quanto il mondo che ci ospita: la storia conflittuale della nostra innata ingratitudine, disarmonia e inadeguatezza di stare al mondo.image1 2