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Vino è Visione

25 Gennaio 2016
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Giorni fa ad Orvieto ho colto al volo una felice occasione di ritrovarci con alcuni dei più fulgidi nasi scintillanti umbri. Appuntamento al caffè Montanucci per inerpicarsi su un trasversale e spassoso itinerario sensoriale condotto dall’amico Giampiero Pulcini sempre animato dal sacro fuoco istruttivo che lo contraddistingue ben dosando un giusto sentimento delle proporzioni a misurata dissimulazione pedagogica.

Vino e Visione il titolo programmatico dei sorseggi alla cieca che ci sta a  ricordare la difficile arte (direi pure l’artigianato) del guardare innanzitutto in se stessi poi del saper osservare sia dentro a un calice di vino sia attraverso un’immagine che paralizza in una fotografia un determinato istante di vita non più replicabile, come scriveva ad esempio Roland Barthes:

“Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più ripetersi esistenzialmente.”nypl.digitalcollections.939769b0-2289-0132-6f44-58d385a7bbd0.001.w

Visto quanto mi aspettava per la serata sicuramente ricca d’analogie, di metafore audaci di vertiginose figurazioni antropomorfiche, nei quattro passi per raggiungere il luogo dell’incontro dalle parti del Duomo imponente a voi tutti noto con i bassorilievi apocalittici dello scultore Lorenzo Maitani, salendo sui gradini di una scalinata e prima ancora d’aver sorbito neppure una lacrima di vino sono incappato in questa elementare visione premonitrice. Tre gatti perdigiorno, – non mi addentrerò troppo sul gender sessuale degl’accoppiamenti felini – di cui uno attivo intento all’azione scopereccia, uno passsivo invece disponibile all’amplesso – entrambi esibizionisti come mi pare evidente – e un terzo (tertium non datur) sornione, sporcaccione più degl’altri e voyeur cioè guardone e scopofilo quanto me, io cioè, il quarto della lista pur se apparentemente umano, con l’iphone a portata di scatto pronto ad osservare-immortalare chi già era indaffarato nel fare e nel guardare, – quei tre gattacci appunto -, a mia volta forse ripreso-perpetuato da una telecamera a circuito chiuso sospesa proprio sul vicoletto. IMG_5635

Proponimenti alla base dell’incontro al Montanucci il desiderio leale di approcciarsi – di far approcciare – la gente al vino con un maggior bilanciamento di “istinto memoria emotività” ed ironia aggiungerei io, cosa che Giampiero è riuscito ad illustrare col solito piglio coinvolgente, witz perspicace e toni persuasivi, sicuro di un understatement da filibustiere navigato ormai da anni nel “mare color del vino” in cui è facile gioco naufragare, discutendo di contenuti temi e questioni accessibili ai partecipanti – sia gli iniziati che i consumati – ma mai banalizzando con accenti astrusi o contegni distaccati, attitudini impettite e pose bacchettone cosa che ahimè è ormai da troppo tempo stucchevole prassi in tante rattristate situazioni degustative di tal specie.

filosofi del vinoLe linee guida richieste da questo divertissement sinestetico svolto per un paio d’orette, – lui Giampiero assieme a noi altri teosofi delle uve fermentate e ad un nutrito coro di curiosi, appassionati più qualche addetto ai lavori, – sono risultate essere molto limpide e semplici fin da subito: bisognava cioè liberarsi la testa le narici lo sguardo il palato da qualsiasi preconcetto accademico. L’istinto non si insegna tutt’altro il più delle volte anzi viene addomesticato se non addirittura castrato dall’eccesso di regolamenti a rischio di depotenziare l’impulso liberatorio sterilizzando l’immaginazione creatrice alla radice di ognuno di noi. Orale o scritta, non c’è nessuna legge veterotestamentaria valida che possa imporsi ai nostri sensi, nessuna prestabilita regola inoculata da frigidi protocolli di scuola sommelieresca che possa sopraffare l’unicità percettiva di ogni singolo individuo. Siamo infine solo noi con la nostra immaginazione anarchica, tante solitudini raggruppate assieme davanti ai vini nel bicchiere e di fronte a delle immagini cui abbinare le nostre sensazioni suscitate volta per volta all’osservazione, all’annasata quindi all’assaggio.nypl.digitalcollections.510d47e2-90e3-a3d9-e040-e00a18064a99.001.w

Certo il punto nodale qua allora è un altro. Secondo me è il nucleo del linguaggio il vero perno della questione perché poi a questo si riduce tutta la materia del vino parlato, interpretato e ascoltato che si faccia narrazione delle impressioni, resoconto d’attributi, gioco linguistico, costellazione d’aggettivi, gomitolo di proiezioni-ricordi-memorie innescati dall’abbinamento vino/foto come in questo nostro caso orvietano ad esempio a simulazione divertita dell’assai più dogmatico abbinamento cibo/vino. È proprio qui l’aspetto più interessante della faccenda allora, che poi da gioco si fa sempre più serio e possa tramutarsi in un buon esercizio autocritico utile ad allenare il linguaggio dei nostri sentimenti; una sana abitudine cioè a manifestare le nostre capacità descrittive che ci faccia adatti ad esprimere con maggior cura delle sensazioni sempre meno aleatorie o superficiali ma ancor più precise, approfondite, distinte ed attinenti che aderiscano meglio cioè alla nostra più autentica interiorità psichica e sfera emotiva. E qui allora penso al Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche:

“Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un’altra parte, e non ti raccapezzi più”IMG_5637

Otto quindi i vini serviti alla cieca durante il corso della serata. Otto differenti sfumature cromatiche dal biancogiallino verdognolo trasparente passando per l’ambrato oro zecchino ossidativo all’amaranto tenue al rosso acceso fin al violaceo spinto. Otto territori completamente diversi l’uno dall’altro, distribuiti in due batterie da quattro che sono stati così fantasiosamente abbinati a quattro foto gigantografate appese su appositi cavalletti in un punto della sala offerte in pasto, (in bevuta sarebbe più consono) allo sguardo del pubblico borbottante scrutante annusante degustante. Un pubblico sopratutto che irraggiava quei certi sorrisi e quell’entusiasmo genuino che hanno incoraggiato una parlantina mai troppo accessoria ma anzi con buona pace e una gran disposizione dei presenti all’esperimento sociale di gruppo. E tutto questo senza mai prendersi troppo sul serio evitando così qualsiasi prescrizione fondamentalista se non si voleva poi cadere, di rovescio, nello stesso tranello retorico da cui si stava tentando di sfuggire cioè quello della degustazione tracotante, standardizzata a modellino usa-e-getta fatto di punteggi molesti, descrittori pseudoscientifici, vanagloriosi elenchi con la solita solfa d’aggettivi riciclati, pleonasmi monocordi, pappette autoreferenziali, sulfamidici recitati da pinguini ricercatori di pagliuzze negl’occhi altrui col tastevin a forma di trave conficcato nell’occhio. Evitare come la peste insomma che eliminato un idolo lo si sostituisca poi però subito con un altro magari ancora peggiore del precedente!

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Dopo aver coinvolto la sala intera nel prolifico scambio di analogie personali, impressionismi rapsodici ed associazioni di idee tra vino-sentori-raffigurazioni fotografiche, le due impetuose batterie hanno dato avvio allo smutandamento successivo dalla carta argentata che copriva le bottiglie così che si son visti sfilare i seguenti vini proprio nella medesima successione in cui li abbiamo bevuti noi quella sera stessa:

  1. Domaine Gauby 2013 Les Calcinaires (Côtes Catalanes) un uvaggio di Muscat, Macabeau e Chardonnay nella regione della Languedoc-Roussilion. Gauby
  2. Vernaccia di Oristano 2001 dei Fratelli Serra (Sardegna). Orro
  3. Rossese di Dolceacqua Testalonga 2013 di Antonio Perrino (Liguria Riviera di Ponente). Perrino Antonio
  4. Chianti Classico Le Trame 2010 di Giovanna Morganti Podere Le Boncie (Castelnuovo Berardenga). Le Trame
  5. Collecapretta Vigna Vecchia 2014, Trebbiano Spoletino di Vittorio Mattioli (Umbria alle pendici dei monti Martani). Collecapretta
  6. Côtes du Jura Domaine Macle 2009, Chardonnay e Savagnin (dalla denominazione Château-Chalon nel Jura in Francia).Macle
  7. Barbacarlo 2012 di Lino Maga una composizione promiscua come tradizione contadina comanda di Croatina, Uva Rara, Ughetta (ovvero Vespolina) e forse della barbera, (in Provincia di Pavia nell’Oltrepò Pavese). Barbacarlo
  8. Barolo Paiagallo 2010 di Giovanni Canonica ovviamente nebbiolo in Langa, giovanni canonicache guarda caso ne avevo aperto una bottiglia mesi prima trovandola sfortunatamente tappata ed è stato quindi una piacevole sorpresa che Giampiero ha voluto dedicarmi con affetto e quale omaggio alla cattiva memoria della precedente bottiglia che sapeva di tappo, facendola smutandare a me di persona; ultima boccia dell’intera sequenza a commiato di una serata tanto estrosa quanto appassionante, fasciata dal velo magico-protettivo della condivisione.IMG_5651

Gli scatti che seguono al centro di tutto questo serio svago tra vino e visione, sono del fotografo Luca Marchetti, questi appunto i soggetti rappresentati dalle quattro tele in ordine così come erano anche disposti in sala quella sera a partire da sinistra verso destra:

  • Cinciallegra colta in volo sopra una palizzata con filo spinato e qualche filo d’erba secca.cinciallegra
  • Primo piano di un elefante colto di fronte: scorcio di proboscide e occhio sinistro torvo, intenso, rattristato, condannato… possiamo elencare tutti gli aggettivi che ci passano per la mente tanto non sarebbe che forzatura emotiva ed antropomorfizzazione cerebrale.Elefante
  •  Conceria nordafricana, uomo seminudo in piedi si riposa rilassato di spalle al sole tra quelli che sembrerebbero i tepori termali di un hammam mentre invece prende una tregua dalle fatiche del lavoro. Marocco
  • Ragazzina o donna ritratta da dietro mentre procede avanti in quello che appare essere un paesaggio offuscato, notturno e lunare.ragazza

 

Tacere a voce alta nell’età del frastuono informatico

22 Gennaio 2016
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C’è tutta una tradizione spirituale e filosofica sia in Occidente che in Oriente indirizzata ad una sorta di mistica del silenzio. Da Laozi a Sant’Agostino da Pirrone lo scettico a Nietzsche e Wittgenstein fino alla prescrizione – nei saecula saeculorum – costrittiva, cupa, ossessionata, quasi minacciosa del silenzio osservato dai monaci di clausura. Il Grande Silenzio è per l’appunto anche il titolo di un bellissimo documentario di Philip Gröning del 2005 che ritrae la quotidianità di alcuni certosini nel monastero della Grande Chartreuse sulle alpi francesi vicino Grenoble.l'arte di tacere

Giorni fa ad una serie di commenti e commenti dei commenti innescati a cancrena esegetica da un mio post di facebook su un libro inutile eppure letto da milioni di persone, un amico virtuale mi stimolava – forse a torto forse a ragione – sui temi robusti dell’osare, del sapere, del potere e del TACERE. Ho subito pensato che l’argomentazione sbrigativa per quanto scaturita su una piattaforma futile e spiccia qual’è Facebook, per quanto asciutta e mordi-e-fuggescamente argomentata custodisse in sé la stessa dose di ragione quanto di torto, infatti pensavo – lo penso tuttora – che poter tacere – sospendere qualsiasi opinione, impressione, punto di vista, giudizio – sia sempre più un’impresa titanica, una destinazione inarrivabile nell’epoca nostra della frastornante comunicazione di massa in cui tutti si parla e sparla uno in sovrapposizione dell’altro e comunque alla fine dei conti, per non dir nulla di così sostanzioso; l’era digitale dell’indicizzazione impazzita su Google, delle notifiche di Twitter propagate quasi alla velocità del suono nello schiamazzo dei social quale rumore assordante718BRSGDXZL di fondo, campo magnetico sonoro perenne ad ovattare le nostre vite quotidiane di cellophane; un rumore bianco (White Noise) cui tutti comunque si partecipa e che si subisce come un sopruso necessario anche supponendo di non parteciparne, standosene zitti e muti in disparte. Quanto detto fin qui crediamo riguardi solo il frastuono acustico, ma del Big Bang visivo a cui siamo ossessivamente sottoposti ogni giorno dallo schermo del pc ai milioni di cartelloni pubblicitari per strada agli sponsor video-animati? Del rombo di immagini che ci assordano la vi(s)ta che ci bombardano a sangue i bulbi oculari – armi di distrazione di massa – vogliamo parlarne o meglio tacere appunto anche qui? Come osare quindi il silenzio oggi se non costringendosi ad uno stoico sordomutismo clinico ad un accecamento auto-indotto tanto per rivitalizzare la tragedia dell’Edipo re di Sofocle nella nostra standardizzata epoca della farsa globale?

Paul Goodman Speaking and Language

Traduco una piccola recensione di Maria Popova su Brain Pickings che propone un testo di Paul Goodman su linguaggio e silenzio in difesa delle ragioni della poesia che credo non sia mai stato tradotto in italiano. Goodman è autore poco conosciuto dalle nostre parti disperso tra qualche coraggiosa piccola casa editrice resistenziale, noto forse per un libro degli anni ’60 ora più che mai attuale: Gioventù Assurda sul disadattamento, sul disagio di crescere nel labirinto sociale delle grandi metropoli d’America, che mi pare però non sia mai più stato ristampato da Einaudi fin dal 1971.

Paul Goodman e le 9 forme di silenzio.

Speak Italian
da Bruno Munari, Speak Italian

“Devo imparare a tacere” così il giovane e risoluto André Gide nel suo diario. Ma che tipo di silenzio intendeva esattamente? Nel capolavoro del 1972 Speaking and Language, che è anche l’ultimo lavoro pubblicato in vita, il grande romanziere poeta drammaturgo e psichiatra del XX secolo, Paul Goodman – soprannominato anche: “l’uomo più influente di cui abbiate mai sentito parlare” – esamina nove possibili forme di silenzio.

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“La voce di Paul Goodman è una voce autentica”, come avrebbe scritto Susan Sontag nel suo bellissimo elogio funebre una settimana dopo la morte di Goodman nel mese di agosto di quello stesso 1972. “Dai tempi di DH Lawrence non c’è stata nella nostra lingua una voce tanto convincente, genuina e singolare.” Nel suo squisito inno in lode al silenzio, pieno di ciò che Sontag definisce le sue “serpeggianti e pazienti spiegazioni nei meandri d’ogni cosa,” la voce di Goodman si riversa nei suoi più singolari riverberi.41Zcl63av4L._SX369_BO1,204,203,200_

Un esempio di quanto scrive Goodman:

“Non parlare e parlare sono entrambi modi umani di stare nel mondo, e ci sono ordini e gradi per ciascuno di questi modi. C’è l’ammutolito silenzio dovuto al sonno o all’apatia; il silenzio sobrio che si accompagna al volto di un animale solenne; il silenzio fecondo della consapevolezza, pascolo dell’anima, da cui maturano sempre nuovi pensieri; il silenzio vivo della percezione vigile, pronto a dire: “Questo… questo…”; il silenzio musicale che accompagna l’attività assorta; il silenzio di ascoltare un’altra persona parlare, trasportarla alla deriva per poi aiutarla ad esprimersi con più chiarezza; il silenzio rumoroso del risentimento e dell’auto-accusa, discorso forte, sottaciuto ma imbronciato da dire; il silenzio della perplessità e dello sconcerto; il silenzio dell’armonia pacifica con le altre persone e in piena fusione col cosmo.”

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Peaking and LanguageUn vero peccato che Speaking and Language sia da tempo fuori stampa [ripeto, credo mai tradotto in italiano], ma copie di seconda mano possono ancora esser trovate e la ricerca merita l’inseguimento, integrandola magari a questa affascinante storia delle origini e dell’evoluzione culturale del silenzio.

 

 

Sababatemtem… Silêncio!

Non fateci caso, esatto, l’immagine del video è una vera schifezza fantasy-kitsch ma non si trova altro in rete, chiudete quindi gl’occhi e godetevi questa perla musicale del 1963 scritta da Túlio Piva cantata da Elis Regina al suo terzo album [Orquestra Sob a Direção de Astor].

Silêncio! Atenção!
O Samba já tem outra marcação

Sababatemtem

Silêncio! Atenção!
O Samba já tem outra marcação

O pandeiro já não faz o que fazia
Violão só é na base da harmônia

Silêncio! Atenção!
Por que o Samba já tem outra marcação

A roda do mundo sempre vai girando
Vai girando sem parar
Tudo nessa vida se renova
A Bossa Velha deu lugar a Bossa Nova

O pandeiro já não faz o que fazia
E o violão só é na base da harmônia

Silêncio! Atenção!
Porque o Samba já tem outra marcação

A roda do mundo sempre vai girando
Vai girando sempre sem parar
Tudo nessa vida se renova
A Bossa Velha deu lugar a Bossa Nova

Silêncio, escute com muita atenção
O Samba já tem outra marcação

Silêncio! Atenção!
Porque o Samba já tem outra marcação
O Samba já tem outra marcação
E essa é a nova marcação

Eee, o Samba já tem outra marcação!

Firmino Miotti “Strada Riela” Vespaiolo

18 Gennaio 2016
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Miotti 1Il “torcolato” è un vino d’appassimento fatto per tradizione nel vicentino nell’area di Breganze da un’attenta selezione di grappoli d’uve vespaiolo che vengono messi ad essiccare attorcigliati (intorcolà) quindi appesi in una stanza arieggiata adatta all’appassimento.LasagnaQuello di cui qui si ragiona non è però il torcolato che è vino dolce da meditazione, ma sempre di Firmino Miotti, abbiamo qui il suo “Strada Riela” sempre da uve vespaiola in versione frizzante, tenuto sulle fecce (sur lie) che per una parte è rifermentato in bottiglia è cioè un “col fondo” non filtrato.Miotti 2

Lasagna zucca

Caro Edoardo Camurri grazie ancora per questo dono. Nella ottusa paralisi del quotidiano a rischiarare la grigia banalità del sopravvivere il tuo Miotti vespaiolo frizzante non filtrato mi si rivela dunque come irradiazione epifanica alla luce del Joyce di Dubliners; una vera e propria manifestazione del divino sul fango della terra in abbinamento impeccabile a lasagna di zucca con salsiccia piccante e coniglio “alla cacciatora” fatti in casa dalla mamma. Direi in effetti che non possa trattarsi affatto di una coincidenza qualsiasi poi che questa rivelazione re-magica (o tre volte magica: vino + lasagna + coniglio al posto degl’abusati oro incenso e mirra) ha avuto luogo il giorno stesso dell’epifania lo scorso 6 gennaio 2016.

coniglio

 

 

Marabino Noto Nero D’Avola (2013)

12 Gennaio 2016
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Marabino Noto 2013

Dalla DOC Noto Nero d’Avola alla tavola dai miei a mitigare i fumi leguminosi d’una ciotola di zuppa invernale – pàst’ e fasügl’ – eloquente nella sua umilissima celestialità.

Pierpaolo Vivuvino.. ma che trama melogranata, che sanguigno amalgama il  tuo Marabino!

Quale succulenza d’arance rosse in questo bel rosso ruggente da “terra ianca” e da luce tanta appena è stagione! Terra coltivata ad arte in piena cognizione di cause-effetti-sapienze applicate da te – da voi di tutta l’azienda agricola – con energica misura e afflato ai dettami pratico/teorici dell’agricoltura biodinamica.

Past e fasugl

 

 

Biblioteche di Babele Online

11 Gennaio 2016
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foto
New york 1935

Navigando nel mio sito alla sezione intitolata “references” che elenca una vertiginosa ma mai abbastanza esaustiva lista dei link di riferimento – una categoria che generalmente raccoglie altri blog preferiti ed è perciò definita blogroll – potete trovare un rimando agli archivi digitalizzati e gratuitamente scaricabili delle migliaia di libri d’arte dal Metropolitan Museum di New York e dal Paul Getty Museum di Los Angeles.

nypl.digitalcollections.510d47dd-f25f-a3d9-e040-e00a18064a99.001.wA queste due favolose collezioni si aggiunge ora la monumentale opera di diffusione democratica del sapere da parte della biblioteca pubblica di New York – The NYPL Digital Collections – che ha messo online a disposizione del mondo intero quella che è una vera costellazione di documenti, libri, foto, immagini, raccolte private, articoli, carte topografiche, riviste, manifesti, progetti urbanistici, mappe, atlanti… che non basterebbero una decina di vite per spulciarseli tutti con la dovuta calma e il misurato piacere della lettura. Possiamo (anzi dobbiamo) criticare con lucidità e argomenti legittimi questo mondo ipervirtuale e massmediatico nel quale siamo quasi costretti a vivere e lavorare, violentati dal giorno alla mattina da false notizie, notifiche insulse, informazioni disinformate, continuamente in allerta su cosa scremare di valido setacciandolo da tonnellate d’impurità, separare senza sosta il falso dall’autentico, il soggettivo dall’oggettività, tentando di non cascare a nostra volta nell’infelice, frustrante ed infecondo gioco del rincorrersi a vuoto delle pseudoverità virali, delle mistificazioni, delle pressapochezze di massa e delle bufale inventate di sana pianta sempre da qualcun altro tanto per gioco che per interesse o per puro spirito di zizzania.  

Eppure una speranza ancora c’è, un modello politico valido per il mondo intero, un esempio di civiltà illuminata che pratichi il relativismo culturale, la tolleranza etnica, lo scambio di bellezza e conoscenze, l’abbraccio di intelletto e manualità attraverso la scrittura la lettura la ragionevolezza. Ecco, questa raccolta babelica di saperi collezionata dalla biblioteca nazionale di New York messa a disposizione libera dell’umanità digitale è il manifesto più attivo, concreto ed efficace della speranza di cui sopra a cui non possiamo dar fiducia se non partecipandone attivamente, concretamente ed efficacemente a nostra volta. Traduco di seguito la recensione a questo evento storico a cura di Erin Blakemore su  smithsonian.comnypl.digitalcollections.510d47e2-63a5-a3d9-e040-e00a18064a99.001.w

La New York Public Library ha messo a disposizione di tutti in rete oltre 180.000 documenti.

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Gratificazioni istantanee per menti curiose.
di Erin Blakemore (smithsonian.com)

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Ti piacciono le vecchie foto? E antichi testi religiosi? Eliotipie d’epoca che illustrano alghe o felci? Sei fortunato: non è più necessario spegnere il portatile e fare un viaggio per vederli da vicino. Martedì scorso la New York Public Library ha annunciato d’aver rilasciato più di 180.000 documenti ad alta risoluzione scaricabarili all’istante per chiunque sia curioso e abbia accesso a un computer.

I download sono tutti di dominio pubblico e coprono di tutto, dalla cultura popolare alla storia alla scienza, la musica. Come scrive Jennifer Schuessler per il New York Times, la notizia qui non è necessariamente il rilascio del materiale in sé, molti documenti erano già da tempo in rete.Turn of the century poster
“La differenza”, scrive la Schuessler, “è che ora i file sono di più alta qualità e definizione, disponibili per il download gratuito ed immediato.” La NYPL ha migliorato il suo motore di ricerca visivo e per contrastare gli hacker la biblioteca sta rendendo l’API (Application Programming Interface) accessibile a tutti per l’utilizzo di massa.
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Troverete un sacco di tesori all’interno della nuova raccolta: sfogliare le fotografie iconiche del sociologo Lewis Hine sui lavoratori infantili ai manifesti utilizzati durante la Guerra Civile Russa. Ancora più in basso, attraversate le porte della percezione di questo universo del sapere, si possono sfogliare le oltre 35.000 vedute stereoscopiche della collezione di Robert N. Dennis che combinano fotografie leggermente “compensate” tanto da aggiungere una profondità tridimensionale a immagini provenienti da diverse regioni degli Stati Uniti. Questa visualizzazione epica aiuta a rivitalizzare propositi e fascino della collezione.Lewis HineLa biblioteca ha anche creato un intero reparto – l’NYPL Labs – volto a studiare modi innovativi d’utilizzo delle sue enormi collezioni digitali. Dall’inserire una mappa storica bidimensionale di Fort Washington, Manhattan nel mondo tridimensionale del videogioco Minecraft per dar vita un nuovo gioco (Mansion Maniac) che consenta agli utenti d’esplorare esorbitanti planimetrie residenziali d’inizio secolo a New York, ci sono molti precisi modi per esplorare la collezione della biblioteca.

nypl.digitalcollections.510d47e1-dbc4-a3d9-e040-e00a18064a99.001.wQuesta mossa è parte di una tendenza assai più ampia seguita da molte biblioteche e musei che stanno rendendo le loro collezioni disponibili online. Dai documenti presidenziali alle collezioni di mappamondi o immagini del fotogiornalismo storico, c’è una corsa per digitalizzare qualsiasi cosa da rendere tutto di pubblico dominio e disponibile al maggior numero di persone possibile. Shana Kimball la direttrice dei programmi pubblici e le relazioni sociali della NYPL, riassume meglio sul blog della biblioteca: “Nessuna richiesta di permesso, nessun cerchio attraverso cui saltare; basta solo andare avanti e riutilizzare!”
Erin Blakemore
smithsonian.com
(7 Gennaio 2016)

Séguy E. A.
Séguy E. A.

Gastroetimologie Ultra Moderne

9 Gennaio 2016
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Food Culture

Un divertente esercizio di stile ad esempio, è tradurre neologismi di stampo alimentare da una lingua all’altra. Certo riadattare in italiano un termine che combinasse la parola mangiare alla parola etimologia con altrettanta semplicità, eleganza e nonchalance dell’inglese “eatymology” non era non è e non sarà cosa semplice. Io ho proposto il facile facile “gastroetimologia” – e perché no gastroglossario? – dopo aver scartato i francamente terribili pappetimologia (“dacci oggi la nostra pappa quotidiana”) e cucinetimologia.sourdough2Ritengo ad ogni buon conto che il libro in questione nonostante la globalizzazione disarmante dei nostri giorni sia ancora molto (troppo) condizionato da una cultura anglofona sia grammaticale che gastronomica di base quasi esclusivamente americanocentrica – giochi di parole, situazioni politico-sociali, sottintesi ed equivoci culinari forse poco “appetibili” e non così “appealing” da “stuzzicare” il divertimento e la “fame” di sapere d’un lettore medio italiano. Lascio comunque all’eventuale traduttore ed editore italiani che s’arrischiassero nell’impresa di tradurre Eatymology, di trovar per fatti propri la loro migliore soluzione al cruccio linguistico/letterario. Intanto propongo un veloce “assaggio” – se non è proprio questo il caso di parlar d’assaggi – al Dizionario della Moderna Gastronomia di Josh Friedland.

Bartolomeo Scappi_L'arte et prudenza d'un maestro Cuoco_4

La cultura del cibo ha dato il via ad una nuova “gastroetimologia”.

Il nostro panorama mediatico ossessionato dal cibo si dimostra terreno fertile per certi giochi di parole.
Abbiamo adesso nuove parole per descrivere ogni cibo di nicchia o preferenza gastronomica.

Non sopportate proprio quelle piccole pesti che continuano sfrenate a rincorrersi trai tavoli del vostro ristorante Coreano “fusion” preferito? Potreste essere affetti da mocciosofobia. O magari siete solo dei culinosessuali se invece usate le vostre abilità culinarie per attrarre ogni volta qualcuno di “molto speciale” alla vostra tavola.

Franz Snyder

Nel suo nuovo libro, Gastroetimologia (Eatymology), l’umorista e scrittore di cibo Josh Friedland ha raccolto molti di queste neologismi in un dizionario gastronomico del 21 ° secolo.

Friedland ha recentemente parlato con Rachel Martin di NationalPublicRadio, ospite del Weekend Edition Sunday. Momenti salienti di questa loro conversazione sono stati raccolti qui di seguito.Baking breadSu “Lievito Madre Hotel” (sourdough hotel)

Sai quando uno si dedica a mantenere in vita il proprio lievito madre alimentandolo ogni giorno con la farina? A Stoccolma c’è questo posto, è un panificio, che se avete bisogno di andare in vacanza potete benissimo lasciare lì in custodia la vostra pasta madre. La terranno su uno scaffale della panetteria, alimentandola giorno per giorno al posto vostro mentre voi siete fuori. È come una pensione per gl’animali.

Su “frágurt” (brogurt) yogurt per uomini
Chi ha ideato questo yogurt per tipi tosti è stata quest’azienda la Potente (Powerful) Yogurt che commercializza yogurt per soli uomini. È ora sugli scaffali dei negozi e il loro bersaglio – si sa come va il marketing – sono i maschi che prendono bevande energetiche.

c8ff5765dd4a6670c352ff582a2ee980_600x283Su “anacardi di sangue” (blood cashews)

Questa voce si basa su un rapporto di Human Rights Watch sul modo in cui vengono fatti gl’anacardi in Vietnam, che è uno dei maggiori esportatori al mondo di queste noccioline. Vien fuori che in Vietnam le persone condannate per reati di droga sono inviate in centri di riabilitazione nei quali poi vengono fondamentalmente costrette ai lavori forzati per la produzione e lavorazione di anacardi pronti poi per essere esportati. È un’idea ovviamente che prende spunto da Diamanti di Sangue per intenderci. Quindi sì, alla fine il libro tratta temi esilaranti ridicoli ma anche abbastanza gravi.Cashew processing Vietnam

Giovanni Canonica Barolo “Paiagallo” 2010

7 Gennaio 2016
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Tappo

Foto per gentile concessione di Alberto Buemi #BevitoriIndipendenti

Maporcapùtt al TCA di mmèrd.. Giovanni “Gianni” è un devoto artigiano del vino, coltiva il suo ettaro e 1/2 a nebbiolo con venerazione d’asceta. Paiagallo è il nome della vigna da cui tira fuori un Barolo che è semplicemente fenomenale (fenomenico direbbero gl’amici onanisti neokantiani). Tradizione inviolata, no concimazioni né altri prodotti di sintesi, ponderato sul togliere più che sull’aggiungere è l’utilizzo dei solfiti; lieviti indigeni, fermentazioni lunghe a temperature non controllate da poco opportune invasività tecnologiche, affinamento in botte grande. Le bottiglie prodotte sono assai esigue sull’ordine delle “pochemila” e di non così prevedibile reperibilità.. proprio una maledizione del diavolo dei sugheri quindi non aver potuto inebriarmi ancora di questa perla dell’enologia langarola – tra l’altro d’annus mirabilis: 2010 – per colpa del fituso, fitusissimo tricloroanisolo.

Paiagallo 2010

 

Vigna

Foto per gentile concessione di Alberto Buemi #BevitoriIndipendenti
Langhe Nebbiolo

Foto per gentile concessione di Alberto Buemi #BevitoriIndipendenti

La sola luce è nel buio oltre la ribalta

1 Gennaio 2016
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qGnSwsBRLa scoperta più avvincente del 2015 l’ho fatta veleggiando su Twitter ed è Maria Popova, autrice ed animatrice del sito #BrainPickings (Frutti del Cervello) un vero e proprio “Inventario della Vita Eloquente” come dal significativo sottotitolo, da cui sempre su twitter raccolgo con gratitudine svariate notifiche appassionanti, un patrimonio di notizie scientifiche e divagazioni culturali notevoli assieme ai più disparati approfondimenti editoriali oltre a tanti altri frammenti di contemporaneità archeologiche sull’epoca rovinosa e datata già sul nascere che stiamo vivendo, ipertesti e documentazioni digitali su questo relitto di civiltà multimediale sopra cui sta assai velocemente naufragando la nostra era post-tecnologica, post-industriale e post-qualchecosa ma soprattuto posteriore o postuma a se stessa.

being digital

Traduco allora come un buon auspicio tutto al femminile per il 2016 questa recensione della Popova ad un libro di Rebecca Solnit che è una intensa riflessione sulla speranza, un manifesto dell’ottimismo che motiva all’azione nonostante la tanta disperazione economica politica sociale morale antropologica in cui siamo sommersi; è un’esortazione accalorata, una scossa che possa risvegliarci almeno un po’ da questa nostra perenne inettitudine di spettatori passivi nell’acquario o parco giochi della vita moderna, mummificati nel grigiore d’un anonimato ammiccante sempre celebrativo del successo altrui e di chi agisce a commiserazione patetica da vittime auto-sacrificali nei riguardi della propria impotente sconfitta e del fallimento di chi subisce lo spettacolo del mondo senza reagire.society of spectacle

“La vera luce risiede nel buio dietro la ribalta! ”

Speranze nel buio: Rebecca Solnit sulla luminosità redentrice irradiata dagl’invisibili rivoluzionari del mondo.

Penso sia davvero dura vivere oggi di speranza e sincerità nell’era del cinismo. Non è impresa facile resistere davanti ai cancelli della speranza mentre siamo bombardati da notizie disperate e continui atti di violenza, mentre continuiamo imperterriti a fronteggiare quotidinamente quello che Marco Aurelio enumerava come: “intromissione, ingratitudine, arroganza, disonestà, gelosia, scontrosità.”marcus_aurelius_by_mcrwayperfect09Non m’è riuscito di trovare una più lucida e radiosa difesa della speranza che questa di Rebecca Solnit proposta in Speranza nel Buio: Storie Taciute, Possibilità Scatenate (Nation Books 2004 pubblicato in Italia da Fandango) – uno snello ma potente libretto racchiuso nella scia dell’amministrazione Bush durante l’invasione dell’Iraq; un libro struggente che è cresciuto in modo più rilevante solo nel decennio successivo. Perdiamo la speranza, suggerisce la Solnit, perché smarriamo il senso della prospettiva – perdiamo cioè di vista “l’accumulo dei cambiamenti impercettibili ma accrescitivi”, che costituiscono il progresso rendendo la nostra epoca radicalmente diversa dal passato, un contrasto oscurato dalla natura non imprevista delle trasformazioni graduali punteggiate da tumulti occasionali.

Heave's Gate-1

Ognuna delle nostre vite trabocca di testimonianze personali che evidenziano questi cambiamenti culturali collettivi. Al tempo in cui sono nata io, nessuno avrebbe potuto immaginare che la guerra fredda sarebbe finita e una ragazza cresciuta nella Bulgaria comunista si sarebbe fatta strada da sola leggendo e scrivendo di libri editi in inglese seduta di fronte lo skyline di Manhattan; già solo un decennio fa, sarebbe sembrato inconcepibile che una tribù ben distribuita d’estranei in rete avrebbe racimolato un milione di dollari per alcuni rifugiati dall’altra parte del mondo attraverso un sistema di comunicazione globale istantanea di neo-telegrammi in soli 140 caratteri; solo un paio di anni fa era difficile pure immaginare che sarebbe venuto il giorno in cui ognuno sarebbe stato in grado di sposarsi con chiunque si desideri amare.

Heaven's Gate roller disco

Così scrive la Solnit:

“Ci sono momenti in cui non solo il futuro ma anche il presente ci pare buio: davvero pochi riconoscono in che tipo di mondo radicalmente trasformato stiamo vivendo, un mondo che è stato trasformato non solo da incubi quali il surriscaldamento planetario e il capitale globale, ma dai nostri sogni di libertà e giustizia – cioè trasformato dalle stesse cose che non avremmo potuto non sognare… Abbiamo bisogno di sperare nella realizzazione dei nostri sogni, ma anche di riconoscere un mondo che rimarrà ancora più ferocemente libero della nostra stessa immaginazione.”

Esponendo questo sentimento che mette in relazione la materia oscura alla materia ordinaria nella formazione dell’universo, la Solnit offre la metafora perfetta per rappresentare le sorgente della nostra inconsistente presa sulla speranza:

Theatrum Mundi

“Immaginiamo il mondo come fosse un teatro. Gli atti con i potenti e i funzionari occupano il centro della scena. Le versioni tradizionali della storia, le fonti convenzionali di notizie vi incoraggiano a fissare lo sguardo sul palco. Le luci della ribalta sono così luminose che vi abbagliano dirigendovi verso gli spazi ombrosi intorno a voi, rendendovi difficile incontrare lo sguardo delle altre persone sedute, di riuscire a scorgere la via d’uscita oltre il pubblico, nei corridoi, dietro le quinte, al di fuori nel buio, dove altre potenze sono in azione. Gran parte del destino del mondo si decide lì sul palco proprio sotto i riflettori, in quello spazio su cui gli attori presenti vi diranno che non c’è altro luogo che quello.”

Shadow Puppet

Ad un brano che richiama alla mente le parole memorabili di Simone Weil:
“Quando qualcuno si espone come schiavo sul mercato, quale meraviglia se trova un padrone?”, la Solnit aggiunge:

“Quel che avviene sul palco è una tragedia, la tragedia della distribuzione iniqua del potere e del troppo comune silenzio di coloro che s’accontentano solo di essere pubblico e oltretutto pagano pure il biglietto per assistere a questo dramma. Per convenzione, dovrebbe essere il pubblico a scegliersi gl’attori e questi ultimi dovrebbero letteralmente parlare per noi, questa è l’idea alla base della democrazia rappresentativa. In pratica, sono varie le ragioni che tengono molti sull’onda partecipativa di questa decisione, altre forze invece – il denaro ad esempio – rovesciano questa scelta così che sul palco anche molti degli attori trovano altre ragioni – lobbisti, il puro interesse personale, il conformismo – tanto da far fallire il proposito di rappresentare i loro elettori.”

Simone Weil1

Come osserva ancora la Solnit la speranza muore quando scegliamo di assistere rassegnati allo svolgimento del dramma abdicando alla nostre responsabilità, puntando il dito accusatorio contro i protagonisti sotto i riflettori. (Nelle parole di Iosif Brodskij questa considerazione è espressa molto bene nel suo: “Un dito puntato è il marchio di fabbrica della vittima.”)Weil Sempre la Solnit è così che considera la tipica propensione dei disperati:

“Parlano come se dovessero aspettarsi che un miglioramento venga loro consegnato dall’alto e non come se potessero afferrarlo con la sola forza della propria volontà. Forse la loro disperazione più vera risiede molto semplicemente nel fatto di sentirsi spettatori piuttosto che attori.”

Il nostro più radioso orizzonte di speranze, sostiene la Solnit, giace proprio lì nell’oscurità oltre le luci della ribalta:

“Le ragioni della speranza giacciono lì nell’ombra, nelle persone che stanno inventando il mondo proprio mentre nessuno le sta guardando, che neppure loro stessi sanno di riuscire a realizzare qualcosa che sortisca qualche effetto, in quelle persone di cui non si è ancora mai sentito parlare ma che potrebbero essere i nuovi Cesar Chavez, i Noam Chomsky o le Cindy Sheehan del futuro o diventare qualcosa o qualcuno che non possiamo al momento neppure immaginare cosa come o chi. In questa epica battaglia tra la luce e il buio, è la parte oscura – quella degli anonimi, degli invisibili, degli ufficialmente inermi, dei visionari e sovversivi nell’ombra – è questa la parte nella quale noi dobbiamo riporre le nostre speranze. Per quelli che sono in scena, possiamo soltanto sperare che il sipario si abbassi quanto prima e che l’atto successivo sia migliore del precedente, che provenga direttamente dalle oscurità populiste.”

Solnit

Speranza nel Buio è una lettura immensamente tonificante presa nella sua interezza ad integrazione della quale c’è una lettera esaltante di E. B. White ad un uomo che ha perso la fede nell’umanità, brani di Albert Camus sulla nobiltà dello spirito in tempi bui, Viktor Frankl sul perché l’idealismo sia la migliore forma di attivismo e così ripercorrere ancora la Solnit sul come ritrovarsi nel perdersi o degli effetti dei libri e della lettura sullo spirito umano, su come la non-comunicazione moderna abbia tramutato la nostra esperienza del tempo, della solitudine e della condivisione, ripercorrendo infine quel suorebecca-solnit-storia-del-camminare bellissimo manifesto sulle gratificazioni spirituali del camminare.

 

Domaine Leroy Les Cazetiers Gevrey-Chambertin 1er Cru 1949

30 Dicembre 2015
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Leroy 4

Leroy 1959 CornelissenSupporto fisico a Frank nell’estrazione chirurgica del tappo di 66 anni
Leroy tappo fossilTappo e capsula come fossili terrestri

Annata 1949 in Borgogna secondo Broadbent: “la conclusione perfetta di un decennio – vini eleganti ed equilibrati”; Clive Coates nel suo libro Côte D’Or: “migliore annata degl’anni ’40: bellezza e purezza al loro grado di perfezione”; Robert Parker Jr .: “è stata l’annata migliore dopo la II guerra mondiale e prima della ’59.”
Leroy retro Henri Leroy dell’omonima Maison al tempo era négociant con sede a Auxey-Duresses; sua figlia la mitica Madame Lalou Bize-Leroy nel 1949 aveva solo diciassette anni.
Les Cazetiers è tra i Premier Cru più elevati (370 slm) di Gevrey-Chambertin se non di tutta la Borgogna.
Ho bevuto questa preziosa bottiglia sull’Etna assieme a ‪#‎FrankCornelissen‬ ed altri cari amici. Già il solo stapparla è stato una specie d’intervento chirurgico a cuore aperto. Appena cominciato a estrarre con delicatezza il tappo, uno sbuffo leggero, un brivido d’aria assieme a delle molecolari bollicine di vino sono magicamente emerse alla superficie del vecchio ma integerrimo sughero. È stato come assistere inermi alla scomparsa di un povero moribondo (ma il Pinot Nero è uomo o donna?) Insomma questo vino “umanizzato” aveva trattenuto dentro sé per 66 anni ancora esuberante “slancio vitale”, speranza, vivacità, respiro! Un miracolo di vino ancora così gustoso, robusto, agrumato, vibrante, terroso, incredibilmente vivo e ben conservato nonostante il colore e il livello del collo non promettessero nulla di tanto buono.. Infine, nutrendomi di quel succo filosofale di lunga vita, questo è quello che ho pensato in quel preciso momento e lo ricorderò finché campo: “il Gevrey-Chambertin stava aspettando proprio noi per essere bevuto e nello spirare il suo ultimo soffio ci ha così donato maggior vitalità, più gioia e più sorriso! ”

Leroy2

Abbinamento a dir poco insormontabile su zuppa contadina preparata con virginale dedizione verso le tradizioni del territorio e conciso spirito del focolare alla casa-bottega dagl’amici Sandro Dibella e Lucia Rampolla del Cave Ox di Solicchiata alle pendici dell’Etna assieme al sempre inossidabile Jerry Fitzgerald e alla confraternita dei Nasi Scintillanti #BevitoriIndipendenti

LeroyZuppa Cave Ox

 

Nos Dos Sisto NA12 Nebbiolo

29 Dicembre 2015
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Nos Dos Carussin

4. La libertà di fare e disfare

Carussin è il nome della cantina, c’è dal 1927 a San Marzano Oliveto (tra Nizza Monferrato e Canelli). Devo ammettere che la prima cioè l’ultima volta ho bevuto questa bottiglia ero un pizzico sospettoso e forse anche un po’ svagatamente impreparato.

Prima “scorrettezza” di questo vino è il tappo a corona; seconda è un Nebbiolo da cui assai spesso in Langa si derivano costosetti, ingessatelli e talvolta alquanto datati pur se fin troppo modernoni: Barolo e Barbaresco; terza è che, nonostante la potenza e il potenziale del vitigno – amichevolmente stappato come una boccia di birra dozzinale – ci ritroviamo fin da subito nel bicchiere un felice vino già schiuso al bere pieno di vigore, ricco in polpa di pesca matura al punto, schietto di corpo e colore molto ben predisposto nella struttura, di piacevolezza sana, buona frutta succosa in odor d’albicocca spaccata in due sul ramo e questo – al di là dei privilegi del terroir – forse anche a ragione delle assennate tecniche/pratiche d’agricoltura atte alla “umana” vinificazione: fermentazioni naturali, non filtrazione, nessuna solforosa aggiunta.

Avevo pensato tre titoli per questa recensione, ma ne ho usato un quarto:
Carussin1. Nobilmente semplice
2. Elogio dell’imperfezione
3. Disarmonia prestabilita

ps.

Suggerisco schiarimenti ulteriori e rimando al sempre ponderato Rizzo Fabiari su Accademia degli Alterati

 

Podere Pradarolo Vej 270 Bianco Antico 2007

27 Dicembre 2015
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Pradarolo 270 Vej

Un così detto “orange-wine” davvero emozionante come pochi. Pradarolo è sia il nome della località sui colli di Parma sia il nome di questo fenomenale podere bio (bio per davvero e non a chiacchiere come tanti). Nello specifico questa etichetta, millesimo 2007, palesa al bevitore accorto il numero cubitale “270” che sta ad indicare i giorni della lunghissima macerazione sulle bucce (90 giorni a rimontaggi +180 giorni a cappello sommerso). Dopo 16 mesi d’affinamento in botti grandi di rovere + 6 mesi come minimo di bottiglia, ecco che abbiamo alla luce questo “bianco antico” che ha davvero dell’incredibile, originato da uve Malvasia di Candia Aromatica al 100%. Nonostante o forse proprio a ragione dell’estrema tecnica di vinificazione oltre alla prolungata macerazione sulle bucce ai lieviti indigeni e alla nessuna filtrazione questa bevanda d’oro liquido scende giù che è una bellezza, puro succo d’uve fermentate ad accendere il “corpo elettrico” con la “mente eterna”. Abbino questa perla di vino ad un fresco Comté du Jura affinato oltre 10 mesi da un genuino contadino che fa banchetto sul celebre mercato rionale di Lione ed è una vera e propria esperienza mistica di cui sono umile debitore a mastro Angiulillo della confraternita dei Nasi Scintillanti.

jura-comte

 

 

Marko Fon Vitovska 2010 “A chi vede”

26 Dicembre 2015
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Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C’era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro.
Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D’inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m’infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo.

Scipio Slataper, Il Mio Carso

Marko Fon/Gianluca Castellano
Marko mentre ci illustrava strati geologici, topografie, origini del suo mondo di pietra e vigna

Vini di e per visionari. A una cena con gl’amici di lunga beva e per onorare il tema della serata: “il vino sentimentale”, non potevo che consegnare la rara bottiglia di Vitovska 2010 presa direttamente in cantina da Marko Fon con dedica personale: “A chi vede!”

Marko Fon

Un passaggio solenne dal “cuore” e dalle “mani” di Marko, mani e cuore di chi fatica la terra o meglio la roccia del Carso tanto luminosa da abbagliare anche i palati più tenebrosi e accecati dall’ottusità degustativa.. ma non è certo questo il caso dei miei cari compagni di sbicchierata dagl’occhi e dai nasi scintillanti!

Kras
Si traducono e pubblicano tonnellate di monnezza mal-scritta e ancor peggio-pensata, ma questa bibbia delle stratigrafie carsiche resta sconosciuta ai più.

Webografia:

vini-del-carso